Scrittori per sempre

Posts written by tontonlino

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    CITAZIONE (Fante Scelto @ 13/11/2020, 21:31) 
    Non sono un fan dei banditi o dei rinnegati in generale, ma il tuo articolo è scritto benissimo, si fa leggere con molta facilità e non minimizza o empatizza in maniera inutile.
    Ottimo lavoro!

    (una domanda di contorno: ma i cognomi d'origine italiana in Corsica vanno comunque letti alla francese, con l'accento sulla finale?)

    Grazie Fante Scelto. Per rispondere alla tua domanda: i cognomi di origine italiana si pronunciano all'italiana. Ho avuto per amici dei Poggi, dei Raffalli, dei Battesti e tanti altri che chiamavo come fossimo in Italia, e questo anche quando tra di noi si parlava in francese. A scuola le cose non cambiano: l'appello si fa rigorosamente con i cognomi pronunciati all'italiana.
    E' invece una pessima abitudine dei "continentali" pronunciare accentando l'ultima sillaba. per cui si ha Poggì, Raffallì, Battestì, ecc.
    Ultimamente, però, questi stessi "continentali" tendono a pronunciare i cognomi così come sono pronunciati in Corsica. C'è da dire che la Corsica, a partire dagli anni '70 ha vissuto un periodo di rinascita della cultura corsa chiamata "u Riacquistu". E' molto probabile che questo Riacquistu abbia portato i suoi frutti anche lontano dall'isola.

    Un altro discorso sono i cognomi che, pur non essendo francesi, vengono pronunciati col fatidico accento sull'ultima sillaba. Il mio, ad esempio. Mi chiamo Soddu, ma lì in Corsica, ero Soddù, con la u francese e con l'accento.
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    E 'o core zompa cuntiento, questa è invece l'immagine che mi ha colpito
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    Un giorno, affacciatosi alla finestra di casa e mostrandomi una trave che spuntava dal muro della cittadella della città di Bastia, mio padre disse al bambino che ero che lì era stato impiccato il Bandito André Spada. Spada, ovviamente, non è morto impiccato ma ghigliottinato nella viuzza antistante l’ingresso della Maison d’Arrêt dov’era detenuto.

    Quel bandito era figlio di un sardo immigrato in Corsica, come me. Il suo è un cognome sardo, anche se pronunciato Spadà e accompagnato da un nome francese. Suo padre era di Florinas, un paese non troppo distante da Sassari. Quando andò a dichiarare la nascita del figlio all’anagrafe di Ajaccio, pronunciò “Frolinas”, metatesi tipica delle nostre parti, e “Frolinas” rimase nell’atto ufficiale.

    Ma il mio interesse per quel bandito aveva un altro perché. In quel periodo l’unico comandamento famigliare riguardo allo studio reggeva in una frase: “O studi o zappi!” Io scelsi di studiare, non perché mi dispiacesse zappare ma perché non ho mai avuto l’energia che si pretende da un buono zappatore. Appresi presto che esisteva una terza via, che non aveva niente a che spartire con lo studio o la zappa. Quella via non era quella dell’onestà, e non sarebbe stato difficile imboccarla.

    La verità è che i banditi, i grandi banditi, sono quasi sempre affascinanti ed è un fascino che esercitano anche a distanza di tempo. Diversi anni dopo l’episodio della trave che spuntava dal muro della cittadella, ho deciso di saperne di più su di lui. Ho cominciato a leggere tutto quello che avevo affannosamente trovato su Internet e, non ancora pago, su dei libri, alcuni vecchi e introvabili e comprati a caro prezzo.

    È da uno di questi, scritto dalla Hubert e Grey ("Mes Mémoires"), che ricavo le informazioni che mi sono servite a scrivere quest’articolo. In quanto a scrivere un romanzo, direi che non averci pensato. È probabile che le ferite lasciate da Spada siano ancora aperte nonostante il tempo ci abbia messo del suo. Gli uomini hanno spesso una memoria a lunga portata. E a canne mozze.
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    Bandit-Spada



    24 febbraio 1931. In piena macchia corsa, a sessanta chilometri da Ajaccio, una troupe di reportage cinematografico guidata dai giornalisti Christiane Hubert e Harry Grey, nascosta in un sentiero cespuglioso di montagna, puntava le sue apparecchiature di registrazione sul più grande dei banditi corsi: André Spada.

    Nel mese di novembre 1931, in una Corsica ancora infestata da un gran numero di banditi, iniziarono le operazioni di rastrellamento. Sbarcarono nell’isola un corpo di spedizione di 1500 gendarmi e guardie mobili armati fino ai denti e diversi autoblindi. L’isola fu messa in stato di assedio. Furono fatti arresti preventivi. Molti, tra amici e parenti dei banditi, si costituirono. Le prigioni erano stracolme.

    Il 24 novembre ci fu la resa del bandito Antoine Rossi, il primo dicembre 1931 quella di Toussaint Caviglioli, mentre Bornéa si consegnerà alla gendarmeria di Sartene nel 1934.
    Soccombettero alle pallottole dei gendarmi o delle squadre speciali di caccia all’uomo alcuni nomi illustri: il 6 novembre 1931 il cadavere di Joseph Bartoli fu trovato sul ciglio di una strada; l’11 febbraio 1932 Torre giaceva in un fossato ferito, insanguinato, sfinito…

    Ormai l’arresto di Spada sembrava questione di giorni.


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    Arresto di un bandito




    Il cerchio si restringeva intorno a lui ma la tigre della Cinarca, o il bandito di Dio come si era soliti chiamarlo, riusciva ogni volta a sventare i piani dei gendarmi.

    Il 6 dicembre 1931, Christiane Hubert scriveva nelle pagine della rivista Police Magazine un articolo dal titolo “Pourquoi on n’aura pas Spada” (Perché non prenderanno Spada). La Hubert affermava che 1500 uomini non sarebbero mai stati sufficienti a catturare Spada, il quale, binocolo in mano, ispezionava lo spazio e si spostava costantemente in un territorio che conosceva come le sue tasche. Camminava di notte, dormiva di giorno, qualche volta in una casa perché nessun contadino corso gli avrebbe rifiutato l’ospitalità. Lui era un bandito d’onore e un bandito d’onore ha diritto al rispetto e all’ospitalità. Un bandito d’onore non si tradisce. E, prestando le seguenti parole a uno di quei contadini, la Hubert aggiunse: “è un uomo che non ha mai ucciso per rubare!”.

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    André Spada con la giornalista Christiane Hubert




    Il 31 maggio 1932, il fratello del bandito, Bastien Spada, si arrese alle forze dell’ordine.

    Nel mese di giugno 1932, André Spada esce improvvisamente dalla macchia e consegna una lettera ai giornalisti nella quale protesta contro l’arresto di persone accusate di averlo aiutato: “È la terza volta che faccio appello per la pace di tutti e specialmente per gli innocenti che pagano per i colpevoli” e, rimanendo inascoltato, “a partire da oggi dichiaro la guerra all’ingiustizia e a tutti coloro che ne sono gli artefici. Si tengano pronti perché la mia arma è pronta. Il loro sangue scorrerà come le lacrime degli innocenti scorrono in prigione…”.


    Alla ricerca di André Spada
    Nel mese di ottobre 1932 Christiane Hubert e Harry Grey sbarcarono a Bastia. Il loro obiettivo: essere ricevuti una seconda volta da Spada e convincerlo alla resa. “Abbiamo cercato di ottenere da lui che si costituisse prigioniero, e così facendo si salvasse. Questo fatto potrebbe sembrare strano, ma è in realtà molto naturale, poiché è consuetudine che quando un assassino si consegna alla Giustizia, la Giustizia gli risparmi la vita”.

    Il loro piano era semplice: recarsi in treno ad Ajaccio, proseguire verso nord e introdursi nel regno di André Spada, che si estendeva dal Cruzini alla Cinarca, divisioni amministrative nei pressi di Ajaccio, nella speranza di essere un giorno o l’altro avvistati al binocolo dallo stesso bandito o da un suo uomo.

    Alla fermata di Vivario, i due scesero dal treno per sgranchirsi le gambe. Sul marciapiede ebbero la sorpresa di incontrare una persona conosciuta due anni prima. “Non andate ad Ajaccio. Delle squadre speciali di caccia all’uomo stanno cercando Spada. Siete appena stati segnalati, da Bastia, al capo di queste squadre, ad Ajaccio. Sanno che avete visto il bandito tempo fa e pensano che siete tornati per vederlo di nuovo. Due uomini appartenenti a queste squadre di caccia vi stanno aspettando alla fermata del treno, per pedinarvi”.

    Quella persona consigliò loro di scendere alla stazione di Bocognano, a quaranta chilometri da Ajaccio. La stazione era poco illuminata e nessuno si sarebbe accorto che i giornalisti, mescolati ai viaggiatori scesi insieme a loro, avrebbero lasciato il treno e si sarebbero diretti verso il territorio di Spada.

    Stazione di Bocognano



    Jean Simonetti, il cacciatore di uomini
    I giornalisti proseguirono, a piedi e in pullman fino a Tiuccia. Poi di nuovo a piedi verso nord, quando furono intercettati proprio dai due uomini delle squadre speciali che li attendevano ad Ajaccio. Questi pregarono Hubert e Grey di salire in macchina e li accompagnarono dal loro capo, un certo Jean Simonetti. L’auto si fermò davanti all’Hôtel de la Marine, a Sagone.

    Jean Simonetti era il proprietario di un’impresa forestale. Da tempo subiva le continue pretese in denaro del bandito Joseph Bartoli. Stanco dei soprusi e messo alle strette non ebbe altra soluzione che affrontare il fuorilegge e ucciderlo. Il 6 novembre 1931 il corpo senza vita di Joseph Bartoli fu trovato accanto ad un’auto bruciata, sul ciglio di una strada. Diventato capo di una squadra di cacciatori di uomini, l’obiettivo di Jean Simonetti era ora André Spada.

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    Joseph Bartoli




    Prima minaccioso poi più conciliante, Jean Simonetti fece una singolare proposta ai giornalisti. Sarebbero stati liberi di andare da Spada e una volta ammessi nel suo “palazzo verde” dovevano convincere il bandito ad arrendersi: “Non è mai successo che un fuorilegge consegnatosi spontaneamente sia stato giustiziato!”.

    Era proprio questa la ragione per cui volevano incontrare Spada. Accettarono, ma in cambio volevano delle garanzie. Gli uomini di Simonetti non dovevano pedinarli e approfittare di loro per arrivare al bandito. E se questi uomini si fossero azzardati, per una ragione o l’altra, a sparare nella loro direzione avrebbero risposto a loro volta con le armi.

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    Jean Simonetti, a sinistra




    Hubert e Grey erano nella macchia da cinque giorni. Quando, all’improvviso, si presentò un contadino amico del bandito. Il suo compito era di organizzare un incontro con il sempre diffidente Spada. Alcuni giorni dopo, i giornalisti si trovavano nel luogo scelto dal bandito per l’appuntamento. Aspettarono, ma invano. Spada non si presentò. Più tardi appresero dallo stesso Simonetti che non avendo saputo resistere alla curiosità aveva pedinato i giornalisti fino al luogo fissato per il loro incontro con Spada. Purtroppo, quest’ultimo si era accorto della sua presenza e si era dileguato nella boscaglia.

    Questo incidente fu una catastrofe per la missione di Grey e Hubert i quali non poterono incontrare Spada che diverse settimane dopo.


    Nella macchia con André Spada
    I giornalisti attraversarono la macchia di continuo, percorrendo ogni giorno chilometri di strade rocciose alla ricerca del bandito, che, convinto che l’appuntamento fosse in realtà una trappola, aveva perso la fiducia in loro.
    Un giorno, però, incontrarono di nuovo il contadino incaricato da Spada di occuparsi del primo incontro.

    Christiane Hubert e Harry Grey poterono finalmente stringere la mano al bandito e fargli la proposta di Simonetti: “Sarebbe disposto, con garanzia assoluta di avere la vita salva, a consegnarsi?”.

    Ed ecco la risposta: “Sì, forse… Per me non chiedo niente. Ho ucciso, e se mi uccidessero con le pallottole avrei quanto merito. Ma sono un bandito d’onore, e non voglio portare la mia testa alla ghigliottina. Non accetterò mai di esaminare una proposta di resa senza che i torti fatti agli innocenti siano riparati!”.

    “Quali torti?”.

    “Parlo di coloro che mi hanno dato l’ospitalità in passato e di quelli che sono stati arrestati a causa mia, nonostante non mi avessero mai visto…”.

    A questo punto Harry Grey chiese al bandito se fosse disposto a parlare di sé, di quando era diventato bandito, di come era riuscito a sopravvivere nonostante fosse ricercato da centinaia di gendarmi e cacciatori d’uomo. Spada accettò e cominciò a parlare…

    André Spada comunque non si arrese, o per lo meno non subito.


    La fine
    Il 30 maggio 1933 il quotidiano Le petit Journal scrisse: “Dopo un anno e mezzo di ricerche il bandito corso André Spada è stato arrestato. Pare fosse in preda a follia mistica. Ajaccio, il 29 maggio. Il famoso bandito André Spada è stato arrestato questa mattina all’alba a Coggia, vicino a Vico, nella casa paterna.”

    E se la giustizia era solita lasciare la vita salva a chi si fosse consegnato spontaneamente, questa volta non fu così.

    Il 21 giugno 1935, Anatole Deibler, il boia incaricato dell’esecuzione di Spada annotò nel suo taccuino: «Questo assassino di gendarmi e di civili simula la follia: “La giustizia degli uomini mi è indifferente, poiché è Dio che mi ha ordinato di affrontarla e presto andrò diritto in cielo…”. Quando gli afferrano le braccia per trascinarlo verso l’uscita, dice: “Inutile tenermi, posso camminare da solo…”, e dopo aver baciato il crocifisso e il prete, il bandito, nel momento stesso in cui lo sistemano nella ghigliottina, dice due volte con voce ferma e chiara: “Arrivederci a tutti!”».

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    Il boia Anatole Deibler con la sua ghigliottina

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    Vorrei usare, in risposta a una vostra osservazione, un articolo che ho letto per la prima volta questa mattina. Non mancherete di notare la perfetta similitudine con la mia storia, che storia non è perché si tratta di un mio ricordo. Ho solo cambiato, per riservatezza, il nome dell’insegnante e un pochino esagerato il trambusto dei ragazzi. Il ricordo rimane però autentico e fa parte del mio vissuto. Il fatto che quanto scritto si trovi a metà strada tra la testimonianza e l’immaginario può spiegare alcuni punti di attrito durante la lettura.
    So che è difficile ammetterlo, ma l’età dell’oro dell’insegnamento non è mai esistita. Prendiamo Topaze, oppure Merlusse di marcel Pagnol, pagine che sono rimaste memorabili per la loro bellezza e soprattutto per il fatto che testimoniavano di una condizione scolastica difficile già negli anni venti e trenta del secolo scorso. L’insegnante non era affatto rispettato come si tende a credere oggi, per lo meno non nelle aule.
    Ma andiamo ancora più indietro. Leggo in un articolo trovato in rete su un certo Albert Thierry. Nel 1905, dice l’articolo in questione, era un maestro di scuola elementare prima ancora che giornalista e sindacalista. Aveva 24 anni quando affrontò la sua prima classe. Era appassionato e deciso a trasmettere la sua cultura ai suoi alunni che immaginava avidi di sapere. La gente pensava allora che l’insegnamento andasse da sé, e che catturare l’attenzione e mantenere la disciplina non fosse più complicato di tanto.
    Albert Thierry scrisse un’opera ibrida, “L’homme en proie aux enfants” (L’uomo in balia dei ragazzi), a metà strada tra il diario di bordo e il saggio pedagogico.
    “Arrivavo, spiega Albert Thierry, in una maturità dogmatica e declamatoria. I miei alunni se ne fregavano.” Ed eccolo a dover affrontare l’indifferenza e la derisione. Lui che sperava nell’adesione, o per lo meno nell’attenzione, si trova davanti battutine e apatia. I suoi alunni di cui voleva fare dei discepoli entusiasti, scivolano nella passività o gli oppongono disprezzo. Così, durante una delle sue prime lezioni di Francese, mentre leggeva con autentica emozione alcune pagine dei Miserabili, i suoi alunni si occupano di altro e cominciano a deridere il brano che gli si leggeva. Mentre il maestro stava per piangere, tanto il brano che leggeva lo commoveva, i suoi alunni ridicolizzavano le espressioni di Victor Hugo e, quando, alcuni minuti dopo, si ritrovarono in ricreazione, parodiavano violentemente e con cattiveria quel che il maestro voleva che ammirassero: “E io ero umiliato, ero dispiaciuto per la bellezza”, scrisse nel suo diario.
    Ma oltre a fare l’esperienza della resistenza, del rifiuto e della fragilità dell’educazione, aveva capito che un istante bastava perché la trasmissione avesse luogo e che un fugace momento di condivisione poteva riscattare delle ore di noia. “Una mattina di primavera in un albero di mille anni” basta a giustificare un’intera carriera!
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    Correva l’anno scolastico 1967-1968, quando ancora faceva parte dei doveri disciplinari del piccolo studente francese disporsi in fila per due nel corridoio prima di entrare silenziosamente in classe.
    Quella mattina d’inverno avemmo una sorpresa. Anziché la nostra severa insegnante di lettere vedemmo apparire sulla soglia un ometto piuttosto anziano e dall’aspetto pacioccone che probabilmente il giorno prima stava pensando più alle sue bietole che alla scuola. Dico questo per l’età, perché mi dava l’idea di un insegnante in pensione richiamato in servizio per mancanza di personale. Portava un cappotto scuro e reggeva una cartella di pelle. A giudicare dagli evidenti segni del tempo su quest’ultima il professore e la cartella avevano all’incirca la stessa età.

    Salutò e si presentò: “Bonjour, mi chiamo Monsieur Julian e sostituisco la professoressa di lettere in congedo malattia.”

    Ci fu un boato. Per fortuna non durò a lungo: il professore scalò la predella di legno e si sedette in cattedra, posò la cartella e l’aprì. Eravamo, ovviamente, curiosi di sapere che cosa contenesse. Quando vi infilò la mano ci aspettavamo che ne estraesse una zucchina o qualche altro ortaggio per il suo minestrone, insomma ci aspettavamo a tutto tranne che a un libro.
    E invece, al dispetto di ogni logica, ne tirò fuori proprio un libro.

    “Sapete chi era Victor Hugo?” chiese alla classe.
    La risposta, corale, stava a metà strada tra il sì e il no.

    “Bene”, proseguì. “Vi leggerò ora alcune pagine dei Miserabili, un suo capolavoro.”
    Aprì il libro, si aggiustò gli occhiali e, la voce tremante, cominciò a leggere. Dopo dieci minuti di lettura una penna cadde da un banco. Nel tentativo maldestro di raccoglierla qualcuno fece rumoreggiare la propria sedia. Ci fu un colpo di tosse. Poi un altro. In un attimo la classe si trasformò in un pronto soccorso di ospedale in pieno fermento. Pochi istanti ancora e il pronto soccorso divenne un manicomio. Volavano aerei di carta, le penne furono trasformate in cerbottane e, in un crescendo sinfonico, le sedie cadevano rumorosamente a terra, gli alunni ballavano e saltavano sui banchi, i miei compagni urlavano a squarciagola.

    L’insegnante non si scompose. Continuò imperturbabile la sua lettura. La sua voce essendo diventata quasi inaudibile, per avere qualche possibilità di sentirla dovevo al contempo tendere l’orecchio e sedermi il più vicino possibile alla cattedra. Proprio sotto la cattedra vi era un banco lasciato libero dai suoi occupanti i quali vagavano qua e là come delle galline che non sanno dove fare l’uovo. Così mi alzai e, senza fare rumore, mi sedetti al primo banco.

    Lui leggeva e io ascoltavo. E credo proprio di essere stato il solo ad ascoltarlo. Se da una parte questo mi rattristava, per l’evidente mancanza di rispetto nei suoi riguardi, dall’altra mi lusingava, perché egli, il mio professore, leggeva per me.
    Volavano i quaderni, i libri, le penne, forse qualche sedia. Si rideva, si urlava. Si giocava a cavalli forti, allo schiaffo del soldato, come fossimo in piena ricreazione. Lui leggeva e io l’ascoltavo.
    Per me non esisteva più il presente oltraggioso della mia classe. Avevo conosciuto Cosette, i Thénardier, Jean Valjean. Javert. Più in là avrei fatto la conoscenza di Gavroche…

    Il giorno seguente Monsieur Julian si ripresentò con la stessa borsa, ne estrasse lo stesso libro e ne continuò la lettura.
    La classe, in evidente sofferenza, era diventata più frenetica che mai. Due alunni, tanto per aumentare il volume del chiasso, ne vennero alle mani. I banchi sbattevano contro i muri, le sedie cadevano ripetutamente, si tifava per l’uno e per l’altro dei contendenti. Nel mentre, il professore leggeva.
    Sfilarono nel mio immaginario altri personaggi: Fantine, il vescovo di Digne e altri di cui non ricordo il nome.

    Passarono i giorni, passarono le settimane e passarono pure i mesi. In classe era successo di tutto. Una volta, i banchi e le sedie furono accatasti in un angolo e due squadre di calcio se l’erano data di santa ragione. In altre occasioni, la classe era diventata a turno un campo da basket, un ring, una sala delle feste, una discoteca dove era d’obbligo fare il trenino.
    Nel mentre, le mie orecchie avide di storie avevano ascoltato il più grande romanzo di tutti i tempi, piangendo per un personaggio e tremando per un altro. Con l’arrivo della primavera Monsieur Julian si era alleggerito. Non aveva più bisogno d’indossare il suo pesante cappotto scuro e di portare in classe il suo prezioso libro che aveva appena finito di leggere. E non aveva neanche più bisogno di tornare a scuola.

    “Questo è il mio ultimo giorno”, ci disse. “Domani tornerà la vostra professoressa di lettere.”
    Leggevo nel suo sguardo un po’ di tristezza. Si è sempre tristi quando qualcosa finisce, ma Monsieur Julian era un uomo capace di affezionarsi a tutti, anche alle persone che a lungo gli avevano mancato di rispetto. E, per una strana alchimia, sentivo che i miei compagni, a modo loro, gli avevano voluto bene. Per una volta non ci furono episodi di rilievo tipo rivolta di Masaniello, moti siciliani o guerre di trincea in classe.

    Alla fine dell’ora ci strinse la mano, ci guardò nell’anima, si asciugò una lacrima e se ne andò.
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    Il fatto è che non puoi farci niente. La nostalgia è come l'odore: ti assale a zaffate.

    Mio padre, che aveva trascorso gran parte della sua vita in fondo alle miniere del Sulcis Iglesiente, ripiangeva le gallerie, gli ascensori, le tramogge, persino quei compagni di lavoro che gli avevano rubato le vagonate di minerali. Un giorno, dopo tanti anni, decise di andare alla ricerca di uno di loro. Lo trovò e l'abbracciò, forse piansero.

    I vecchi alunni li incontri sui marciapiedi, nei supermercati a promuovere lo zafferano, oppure alla cassa. Qualche volta è quel poliziotto che ti ha sorriso. Pensandoci meglio, dopo tanti anni d'insegnamento, credo di averne riempito la città, ma anche i paesi intorno perché molti di loro erano pendolari. Forse non ci siamo mai lasciati.

    Ovviamente, non ho rimpianti. L'insegnamento non è mai stato per me un fine, mai. Solo che è un lavoro che giorno dopo giorno ti dà forma, ti scolpisce. Non smetti mai di essere insegnante così come non si smette di essere medico.
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    “Si ricorda di me?”.

    Come potrebbe l’insegnante in pensione dimenticare proprio quell'alunno che ha battuto il record di note disciplinari della scuola e che, per anni, egli ha cercato inutilmente di zittire, fosse anche per un attimo?
    Una, di nota, se la ricorderà per sempre: “Sorride mentre spiego”. Ed eccolo oggi quel fetente su un marciapiede della città con lo stesso sorriso di allora, solo che questa volta sembra un sorriso sincero e non di presa per i fondelli.

    L’insegnante in pensione una volta tanto torna a scuola. Va a trovare i colleghi che la Fornero o qualche altro poetico politico ha incastrato tra i banchi e le Lim. “Beato te!”, gli si dice. “Qui è peggio che mai!”. E ci si raccontano le epiche battaglie tra alunni e professori. Tra una parola e l’altra l’insegnante ridiventa quel paladino medievale che il destino ha condotto a Roncisvalle. “Quando sei in difficoltà”, gli avevano detto, “suona l’olifante!”.

    L’insegnante in pensione non ha mai rinunciato al suo piccolo grande mondo. Così, un po’ di quel mondo se l’è portato a casa. La sua immaginazione ha trasformato lo studio in aula scolastica, la libreria in biblioteca, la scrivania in cattedra, i nipotini in alunni.

    Per tenersi in allenamento dà lezioni private. Mentre spiega, il tono della voce cambia. Si ha l’impressione che l’alunno si sia moltiplicato. Il docente non si rivolge più a una sola persona. Parla a trenta scalmanati da sedare. Con la mente ne afferra uno per l’orecchio e l’accompagna dal preside.

    L’insegnante in pensione parla forte e poi finisce sempre le sue lunghe, chilometriche frasi. Vuole, pretende che lo si ascolti.
    Succede però che quando ha finito di parlare alla sua classe immaginaria tutti se ne siano già andati da un pezzo lasciandolo solo sul suo marciapiede.

    “Certo che mi ricordo di te!”.
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    “La notte è terrificante per tutti, specialmente per le donne e i bambini, che si spaventano al minimo rumore di un topino che si volta e lo trasformano in un gigante o un enorme fantasma che cresce a misura che la paura aumenta.” (Annali della Chiesa Cattedrale di Noyon, 1633)
    Sono le parole di Jacques le Vasseur, dottore in Teologia, canonico della Chiesa Cattedrale di Noyon (Piccardia, Francia) e decano della stessa. Da bambino era terrorizzato dal Lucibaut.
    “Mi ricordo perfettamente dei brividi di paura di cui ho sofferto a causa sua”.

    Cos’era e a che cosa rassomigliava questo Lucibaut? Era un animale? Un uomo? Non tutti quelli che dichiaravano di averlo visto erano concordi, ognuno aggiungendo un tocco personale a quella forma agghiacciante.
    La città di Noyon “ha il suo Lucibaut, il suo spauracchio notturno, che la comunità ritiene essere uno spettro, che vede e sente in determinati giorni nelle ore notturne, apparendo talvolta in forma di grande cane, o di un’altra bestia, talvolta in forma sì umana ma orrenda e spaventosa, trascinando qualche volta delle catene, con dei cani furiosi, come generalmente accade la vigilia e l’antivigilia del Giorno dei Morti.”

    Jacques le Vasseur, da dotto e erudito uomo di chiesa che era, volle saperne di più su quelle apparizioni. Si rivolse allora al passato, e cioè ai Registri Capitolari della sua chiesa. Ne individuò tre, corrispondenti agli anni 1452, 1455 e 1468, dove era menzionato un certo Jean Lucibaut.
    Questo Jean Lucibaut, detto la Chaussée, era vicario della chiesa di Noyon. Aveva una voce di basso talmente “furiosa e raggelante” che incuteva il terrore nei bambini. Lesse inoltre che era un uomo di cattivo esempio, e che, dedito al vino, era solito, nelle sue incursioni notturne, picchiare la prima persona che incontrava. La gente della città evitava di uscire di notte per il timore di incontrarlo. Padri e madri, per zittire i loro figli, minacciavano di metterli fuori di casa e consegnarli a Lucibaut.

    Lucibaut conobbe spesso la prigione per la dissolutezza, le insolenze e le violenze che commetteva sulle donne e le ragazze. Nella sua cella pare che si annoiasse parecchio. Spiegava allora la sua possente voce e ne inondava le strade di Noyon.

    Quando morì i suoi concittadini non smisero di temerlo. “Da allora gli ululati notturni dei possenti mastini furono scambiati per le sue urla. Si pensava che dopo la sua morte egli facesse la sua penitenza per le strade che in vita aveva riempito di scandalo e che per espiazione delle sue colpe fosse stato condannato a farvi delle ronde tutte le notti, e trascinarvi delle catene per impietosire i vivi affinché si ricordassero di lui nelle loro preghiere.”

    Lucibaut è menzionato, inoltre, nell’Enciclopedia dell’illuminista Diderot. Alla voce Noyon possiamo leggere: “Come le altre città, ebbe il suo lutin: temuto dagli adulti e dai bambini, sotto vari aspetti, faceva paventare la sua presenza nelle vie e nelle case. La verità è che Lucibaut, mascalzone incallito, che oltraggiava, picchiava i passanti, era un cantore della cattedrale, e che fu punito. Le Vasseur lo aveva semplicemente scambiato per un fantasma.”
    Nella citazione la parola “lutin” non va oltre il generico significato di essere sovrannaturale. Da non confondere, ovviamente, con quella creatura notturna, tipica delle regioni del nord della Francia, di piccole dimensioni e col caratteristico berretto rosso.

    Nella “Grande Enciclopedia dei lutin” online, infine, leggiamo che “annuncia i decessi abbaiando e ululando. Trascina delle catene e il giorno di Ognissanti divora i bambini monelli sulle strade di Noyon, vicino a Compiègne.”

    Quest'anno ci mancherà un po' il girovagare notturno dei bambini ad Halloween, con i loro dolcetto o scherzetto e le urla di spavento che squarciano la notte. In compenso abbiamo, venuto da un lontano passato, un amico in più, da guardare con sospetto, o meglio da non guardare affatto. Non si sa mai che si offenda.

    Edited by tontonlino - 28/10/2020, 15:29
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    Un bel rompicapo, quella parola. L'ipotesi piemontese è comunque affascinante.
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    CITAZIONE (allerim 4 @ 23/10/2020, 07:52) 
    Interessante davvero e scritto molto bene .Belle anche le immagini che arricchiscono la documentazione.
    Vivi a Parigi TonTon?

    Grazie Mirella. Quell'espressione, "faire le coup du père François", è molto usata. E' un sinonimo di fregatura, imbroglio, raggiro, che però ha delle origini oscure. E' sempre stato un mio pallino capire quali fossero. Quando ne ho intrapreso la ricerca non sapevo che la mia curiosità mi avrebbe portato molto indietro nel tempo fino ai primi thug. E' stato per me come una caccia al tesoro, con indizi e falsi indizi, o un viaggio nel tempo che è valso la pena di fare.

    Come dice il nostro caro amico Vlad avrei potuto non dare al testo il taglio giornalistico e magari trasferire l'indagine a dei personaggi, scrivendo così un racconto anziché un articolo. Si può fare. Intanto, uno dei mie autori francesi preferiti, San-Antonio (pseudonimo di Frédéric Dard) ha scritto un romanzo dal titolo "Le coup du père François", che poi parla di tutt'altra cosa.

    Voglio solo aggiungere che la scrittura ha varie sfaccettature. L'articolo giornalistico ha rispetto al racconto il vantaggio di portare il lettore sul piano della realtà. Quel che scrivi è realmente accaduto, le cose orrende che descrivi sono documentate. Il lettore di articoli sa che quel che dici è vero. I brividi che percorrono la sua pelle non sono quelli confortevoli del lettore di romanzi, anche se per tutto il tempo della lettura i fatti e i personaggi del romanzo sono veri per lui.

    Scusami se ho approfittato della mia risposta per spezzare una lancia a favore di questo genere.

    A proposito, Parigi l'ho solo visitata in qualche occasione. Sono, invece, vissuto in Corsica, a Bastia per la precisione, per una ventina d'anni, i primi della mia ormai lunga vita. Ora vivo in Sardegna, a Oristano, dove ho insegnato Francese fino a un anno fa.

    CITAZIONE
    Oddio, a Parigi, negli ultimi anni si rischia anche la "decapitazione deambulante"...
    Ma torniamo al testo.
    Un saggio, in realtà, la soddisfazione di una curiosità lessicale che sfocia nella ricostruzione culturale che ne è alla base.
    In realtà, con qualche accorgimento, l'invenzione di soli due/tre personaggi potrebbe venir fuori un gran racconto senza provarlo della parte, come dire, didattica.
    Godibilissimo e interessante anche per merito delle riproduzioni visive
    Chapeau!

    Ricordo invece una tua ricerca, quella sulle misteriose origini della parola "scugnizzi". Difficile venirne a capo, anche se non impossibile, ma bello tentare, cercare, e se dalla ricerca non fosse possibile generare una storia e dei personaggi, pazienza, sarà stato bello lo stesso. Si rinuncia a creare un mondo, è vero, ma ne riporti alla luce un altro, così come sono riemerse le città sepolte dal tempo. Sono altrettanto belli, specialmente quando, porti con te le prove, immagini o citazioni che siano. Fare delle indagini sulle origini di un'espressione è dare al passato una seconda possibilità perché, come sai benissimo, la storia non si ripete mai.
  14. .
    CITAZIONE (Dafne @ 21/10/2020, 21:26) 
    Molto interessante. In questo momento a Parigi puoi circolare indisturbato. Male che vada ti becchi una multa stratosferica per avere violato il coprifuoco. Sempre meglio che finire strangolato... ;)
    Bye.

    Non ci giurerei. I tempi bui sono tornati e con i tempi bui la gente losca dallo sguardo fuggente. Ombre minacciose che scivolano dietro di noi, individui dal dubbio sorriso e le numerose vetrine con in bella mostra cinghie di cuoio e fazzoletti enormi...

    CITAZIONE (tommasino2 @ 22/10/2020, 10:37) 
    Grazie, tonton, letto con piacere

    Grazie Tommasino.
  15. .
    Una delle cose che più temo passeggiando per le vie di Parigi, o di una qualsiasi altra città francese, è “le coup du père François” (la mossa del père François).
    Al dire il vero, l’espressione non significa oggi che una fregatura, un tiro mancino. Ma fino a pochi anni fa quando a uno facevano quella mossa non sempre ne usciva vivo. Di che cosa si trattava?

    Immaginiamo un pacifico turista attardatosi in una via deserta ad ammirare le vetrine illuminate della ville lumière. Nessuno in giro, ad eccezione di quel tizio che si avvicina, sigaretta tra indice e medio, e gli chiede: “Vous avez du feu?” (ha da accendere?). Nel mentre un complice si apposta dietro il turista, gli passa una cinghia intorno al collo e, spalla contro spalla, lo solleva da terra così come farebbe con un sacco di patate. È chiaro che il povero turista cercherà in tutti i modi di liberarsi dalla cinghia che gli stringe il collo senza pensare minimamente al portafoglio che gli gonfia la tasca dei pantaloni. Il primo malandrino avrà così tutto il tempo che gli serve per frugare ben bene le tasche della vittima. Una volta il furto portato a termine non rimarrà ai due mascalzoni che darsela a gambe e abbandonare il malcapitato, spesso più morto che vivo, davanti alla sua cara vetrina, diciamolo pure, male illuminata.

    Sì, è una mia fobia. È vero, sarebbero tanti i modi di fregare un turista, dal “tesoro spagnolo” al “furto all’americana” passando per il classico borseggio nei mezzi pubblici, ma questo è quello che temo maggiormente, tanto più che in passato è documentata a Parigi l’esistenza di gang che avevano la malsana abitudine di strangolare i poveri passanti per alleggerirli dei loro amatissimi portafogli. I titoli dei giornali avevano spesso questo tenore: “La gang degli strangolatori”, oppure “Il coup du père François a Parigi”.

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    Ma poi chi era questo père François?

    Una delle teorie più accreditate ci fa risalire fino a metà XIX° secolo, quando un certo Arpin, colosso savoiardo, seminava il terrore tra gli avversari che l’avevano imprudentemente sfidato nella sua specialità: la lotta greco romana. Era soprannominato “il terribile savoiardo” ma anche “le père François” e sappiamo che in quella disciplina gli strangolamenti sono all’ordine del giorno.

    Questo per l’origine del nome, ma la tecnica di strangolamento non risale certamente a questo Arpin.

    Apprendiamo dalla rete che il nome originario del coup du père François era “le charriage à la mécanique”. Qui siamo in piena argot parigino. “Charriage” possiamo tradurlo con “caricamento”, e “mécanique” con “spalla”: praticamente l’espressione significherebbe qualcosa come “caricamento a spalla”. C’era però una differenza: il “charriage à la mécanique” non era praticato con una cinghia ma con un fazzoletto.

    Sentiamo che cosa ne diceva Vidocq nel suo “I veri misteri di Parigi”, del 1844:
    “Ben prima che si parlasse in Francia di Burke e dei resurrezionisti di Edimburgo [che tra il 1827 e il 1828 uccidevano e vendevano il cadavere delle loro vittime al dottor Knox ai fini di studi e vivisezioni] dei scellerati i cui nomi sono spesso citati negli annali della polizia, i vari Nifflet, Casque, Filoufi, Postillon, Lorgnebé, Lasonde, Brasseur e Barbaro, avevano fatto professione di rubare i cadaveri recentemente inumati, per venderli ai chirurghi e agli studenti di medicina. Ma molto spesso, prelevando di notte questi cadaveri, prendevano un vecchio al posto di un adolescente, un soggetto maschile anziché uno femminile; allora i loro clienti non volevano più pagare loro il prezzo pattuito: da cui la delusione di questi scellerati che intascavano soltanto due o tre monete di cinque franchi mentre si aspettavano a una somma ben più consistente.
    Per potere servire la loro clientela a dovere cominciarono allora a strangolare la prima persona, corrispondente ai desideri del cliente, che incontravano di notte per strada. Fu allora che fu inventato il charriage à la mécanique. Avevano una duplice opportunità: la prima, i beni della vittima; la seconda, la vendita del suo cadavere.”


    Frugando in rete tra gli articolisti che trattano l’argomento “Coup du père François” leggo la seguente frase: ”l’attuale regno unito avrebbe importato la tecnica dalle Indie, ispirandosi alla setta dei Thug, la cui missione è di ridurre il numero degli abitanti della Terra, senza versare il loro sangue, e per fare questo hanno messo a punto delle tecniche originali e molto efficaci.”
    Leggiamo in Wikipedia quanto segue: “L'attività principale dei thug era la depredazione di carovane di pellegrini o di mercanti. La loro tecnica consisteva nell'unirsi al gruppo e prestare servizio per conto di essi, vincere la loro diffidenza e conquistarsi la loro fiducia per poi ucciderli nel sonno e derubarli di tutti i loro beni. Gli appartenenti alla setta uccidevano le loro vittime per strangolamento (si dice tramite un laccio, ma pare si trattasse invece di una sorta di sciarpino a fazzoletto, chiamato infatti rumal, che in bengali moderno significa appunto "fazzoletto") e poi nascondevano i loro corpi.”

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    Guarda l’uccellino!



    Ci sono tutti gli elementi: distrazione della vittima, attacco furtivo da dietro e strangolamento. C'è però qualcosa che non convince. Manca il caricamento a spalla, e quando manca il caricamento a spalla non è più il “coup du père François”.

    Ne evinciamo che il "charriage à la mécanique" e la sua variante il "coup du père François" sono invenzioni francesi o forse più semplicemente parigine.

    E Parigi, senza "coup du père François" non sarebbe più Parigi.

    Edited by tontonlino - 23/10/2020, 08:54
791 replies since 1/11/2011
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