Scrittori per sempre

Votes taken by tontonlino

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    Quasi nel podio! L'importante era di farvi fare una bellissima risata e penso di esserci riuscito. Ringrazio chi mi ha votato e, più in generale, chi ha riso e chi stava per farlo.
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    Era il mio quarto preferito anche per via della via Togliatti
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    Il riferimento a Togliatti sa di memoria storica e di nostalgia. Alcuni elementi sembrano indicare, anche se approssimativamente, l'età del protagonista. Il medico, o l'infermiere che gli infila qualcosa in bocca gli appare come un "ragazzone" il che fa pensare che il nostro eroe non lo sia più e il fatto che egli non cerchi più lavoro lo inserisce all'incirca nella fascia dei sessantenni e più. Lo stesso direi per la paura attualmente più tipica delle persone che cominciano a fare i conti con i dolori articolari e gli acciacchi di una certa età che delle nuove generazioni.
    Ecco, la paura, la grande tensione che genera, esplode nella linguaccia e quindi nella risata.
    L'aderenza alla canzone a me pare lampante anche se aggiungerei un "non" all'incipit: non è affatto cretino cercare di fermare le lacrime ridendo.
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    Confermo: molto bella. Non ho potuto reprimere qualche brivido perché ormai faccio parte di quelli che sentono sulla loro pellaccia il trascorrere del tempo. Dolori, acciacchi, cataratta, analisi del sangue non troppo regolari, montagnetta di medicinali da assumere quotidianamente... E mi fermo qui.
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    Con i trapassati non sono mai andato d’accordo. Un po’, lo ammetto, mi fanno paura. E così li evito, li scanso, trattengo il fiato, mi faccio piccolo, chiudo gli occhi e, tremante, li lascio passare. Specialmente i trapassati remoti. Non capisco perché ma nei miei scritti non ne troverete mai.
    CITAZIONE (Vlad @ 10/8/2020, 08:04) 
    I nomi della tua isola sono pieni di fascino.
    E di storia.
    Più di una volta ho pensato di ambientare una storia dalle tue parti, che so, a Perdasdefogu, dove mio padre ha lavorato come direttore didattico, ma il timore reverenziale di scrivere castronerie ambientali e caratteriali me lo ha sempre sconsigliato.
    Bada, ho scritto degli antichi egizi, degli assiri, della biblioteca di Alessandria e della Gerusalemme di Gesù, di Stalingrado e della Napoli del '45...e di tanto altro, mai della Sardegna.
    Territorio proibito.
    Come te lo spieghi (e me lo spieghi)?🤔
    Terrore dei Mamutones?😉

    Per quanto riguarda i nomi dei paesi sardi prendiamo il caso di quei poveretti che ogni santa mattina, dopo avere visitato nei loro sogni dei luoghi dai nomi pronunciabili, devono affrontare il trauma di risvegliarsi a MATZACCARA, a GONNOSTRAMATZA, a BAUNEI o a ESTERZILI, per non parlare dell’inferno di PERDASDEFOGU. Per queste persone ogni giorno è un ritorno ai tempi dei sacrifici umani e ai sentimenti primordiali. Sei non sei sardo, ci rimani secco.


    CITAZIONE (tommasino2 @ 10/8/2020, 08:40) 
    Li capisco, gli studenti.
    Quel posto, spiritoso o spiritato, avrà rappresentato una sorta di liberazione, dopo tante nozioni di storia.
    Le gite lasciano ricordi strani. , Di una a Firenze, nel secondo anno di ragioneria, circondato da una miriade di compagne di classe, ricordo l'assurdo pellegrinaggio di un ragazzo gay conosciuto in un bar limitrofo. E basta.

    È una sacrosanta verità Tommasino, delle gite scolastiche, raramente rimangono nei ricordi le visite ai musei, ai vari scavi o ai palazzoni di qualche nobile del luogo. Ci si ricorda piuttosto di cose non programmate, di aspetti mai presi in considerazione che comunque meriterebbero degli approfondimenti. Parigi, ad esempio, che viene denominata la città dell’amore, sai che cosa mi ha colpito l’ultima volta che ci sono stato? L’odore di pipì per le strade e le strisce di orina che attraversavano perpendicolarmente i marciapiedi. Che non sia il fatto dei soli clochard o della movida del sabato sera ma anche di gente insospettabile?

    Analizzando due delle strisce in questione su un marciapiede (dopo un po’ si diventa esperti) mi accorsi un giorno che una era di origine maschile, l’altra femminile. Ho immaginato allora una coppia di innamorati che mano nella mano, cuore nel cuore, mentre camminavano felici su quel marciapiede. Improvvisamente, rispondendo simultaneamente allo stesso stimolo (l’amore fa di questi scherzi), uno si appoggia al muro, l’altra si accovaccia. E siccome i marciapiedi di Parigi sono pieni di quelle strisce e puzzano terribilmente è facile immaginarsi una folla di passanti che tra una parola e l’altra, nel bel mezzo di una discussione, si voltano, si accovacciano, provano delle posizioni nuove e, felici, si schizzano a vicenda come fossero al mare. Tutto questo nella mia mente, ovviamente. Anche a Parigi la gente porta in cani a passeggio.
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    Per me il lettore è uno che intraprendendo la lettura di un racconto decide un po’ di scalare una montagna e ne accetta la sfida.
    Non credo che legga nell’intenzione di dare comunque una sua interpretazione personale all’opera, anche se questo molto spesso succede. Il suo scopo primario è quello di capirla per come è stata concepita. Quando questo non succede non è detto che se ne accorga. Penserà spesso di esserci riuscito, anzi, di essere uno dei pochi ad avere capito il racconto.
    Sarebbe allora una cosa buona che l’autore prendesse le cose in mano e gli dicesse: “Senti, Lellè, me sembra che tu stai camminando accanto alle tue scarpe…”
    Siccome non si nasce imparati, come si dice dalle mie parti, ben venga allora un po’ di didattica. Come a scuola quando l’insegnante di lettere (incastrato da un concorso a cattedre) cerca di presentare alla classe i Malavoglia (gli svogliati degli ultimi banchi) di Verga o i promossi sposi (quei due pomicioni in fondo e a destra) di Manzoni.
    Sì, si impara a leggere, così come si impara a scrivere, a parlare e ad ascoltare. Aggiungerei che, essendo la lettura un’abilità diversa dalla scrittura, il suo apprendimento, l’educazione alla lettura, deve avvenire in modo diverso.
    Lo scrittore, quando il messaggio non arriva, si porrà la domanda: sono io o è lui? Nei due casi solo interloquendo col lettore potrà dare una risposta.
  7. .
    Penso che un racconto possa essere letto in tanti modi diversi. Milla concas milla barritas recita un detto sardo: mille teste mille berretti. Questo significa che posso dare a una storia dei significati diversi rispetto a quelli dati dall’autore, e per tante ragioni. Nel racconto posso, ad esempio, proiettare una mia esperienza personale, dare a una parola una certa importanza mentre potrebbe passare inosservata ad un altro lettore. Potrei non capire bene una frase, una battuta, un qualcosa di fondamentale perché magari mi sono creato delle aspettative diverse, o più semplicemente mi sono distratto.
    Da una copia originale i lettori creano a loro volta delle versioni personali, un po’ come su Youtube quei giovani che si cimentano nelle varie cover di canzoni più o meno famose adattandole alla loro voce e al loro ritmo.
    Un racconto potrebbe essere per me una delusione, un flop totale mentre per un altro è un capolavoro assoluto.
    Ci sono anche i lettori indecisi, di cui faccio costantemente parte, che non sono sicuri di avere interpretato bene il testo e cercano nelle critiche più o meno ufficiali o autorevoli la risposta ai loro dubbi.
    Ecco, essendoci quindi tanti potenziali racconti quanti sono i lettori mi viene da chiedermi: ma l’autore cosa dice? Ho preso una cantonata nel dare questa interpretazione?
    Mettiamo ora che il mio autore preferito torni tra i vivi e mi risponda. Beh, io qui intendevo dire questo, qui invece intendevo dire quest’altro. Mi viene da pensare che così come nei tribunali gli imputati hanno diritto di replica, gli autori possano spiegare l’agire dei loro personaggi. Non voglio parlare qui dei concorsi e dell’anonimato. Non mi ci infilo neanche in quei discorsi.
    Una volta il concorso terminato e decretato i vincitori, si potrebbe (sempre che accetti) dare la parola all’autore di uno qualunque dei racconti in gara e chiedergli gentilmente qual è la sua interpretazione personale di quanto ha scritto e soprattutto quali tecniche narrative ha utilizzato. Sarebbe per me l’occasione d’imparare qualcosa come lettore e magari d’insegnare qualcosa in quanto autore.E ci potrebbero stare anche le situazioni invertite:il lettore ha l'occasione d'insegnare qualcosa all'autore e quest'ultimo di apprendere dal suo lettore. Insomma, m'avete capito.
    Magari ora qualcuno mi risponde e mi dice: "Guarda Lino questo di dare la parola all'autore si fa già da un pezzo!" Al solo pensarlo divento rosso come un peperone rosso di Andalusia.
  8. .
    Anch'io concordo con quanto scritto da quietriot. Le lingue si evolvono continuamente e per tantissime ragioni. Una di queste potrebbe consistere nel fatto che nella lingua ricevente non esiste un termine tale da esprimere tutte le sfumature di quello importato. Ad esempio, ho letto più su che SHOPPING potrebbe essere sostituito vantaggiosamente da SPESA, ACQUISTI o COMPERE, ma di questo non sarei del tutto sicuro perché per le donne della mia famiglia fare shopping non vuol dire andare al mercato dei pesci e comprare calamaretti da preparare con i piselli, ma solo fare compere da Bershka, Nuna Lie e altri negozietti di vestiti o di regali. E' una sfumatura che nella nostra lingua non esiste. Parimenti, perché i francesi avrebbero preso a prestito "a capo", "largo" e altri termini musicali? Era possibile usare parole francesi conservando i significati delle parole d'origine?
    Andiamo in campo informatico: non abbiamo avuto bisogno di importare la parola TASTIERA perché ce l'avevamo già dai tempi della macchina per scrivere o dal clavicembalo, ma con BUFFER, SPOILER, CHIP e mille altri come l'avremmo messa?
    E' pur vero che in molti casi importare un termine da un'altra lingua è perfettamente inutile ma forzare la lingua italiana nell'immobilità è sbagliato. In Sardegna, alcuni strenui difensori della lingua sarda, che si erano opposti agli italianismi, avevano candidato, al posto di TELEFONO, la fantastica (e ridicola) espressione di FAEDDA ATTESU (il PARLALONTANO). I francesi, che hanno vari territori oltremare e hanno avuto in passato delle colonie, non rinuncerebbero mai alle loro varietà linguistiche, che considerano "un tesoro di riccheza infinita" (Yves Duteil).
    Un'altra causa del prestito linguistico potrebbe essere il prestigio della lingua da cui si importano i termini, nel nostro caso dell'inglese. Quando diciamo lingua inglese forse ci riferiamo più a quella americana che a quella della Gran Bretagna. Comunque sia, l'inglese per noi è la lingua dei Beatles, di Bob Dylan, dei fast food, di Kerouac, in una parola di un universo culturale che ci ha affascinato e che continua ad affascinarsi forse quanto Shakespeare aveva affascinato i nostri avi. Ci voglismo rinunciare?
  9. .
    Quella mattina, il gabbiano Levinson coprì la breve distanza che separava l’Ospedale di Riabilitazione di Quiberon, di cui era primario, e il suo scoglio lasciandosi cullare dalle tiepide correnti oceaniche. Ad attenderlo, una decina di gabbiani.
    “Bene, bene” disse il dottor Levinson non appena le sue zampe toccarono la roccia bagnata dalle onde. “Come stanno procedendo i nostri pazienti?”
    Dal gruppetto di gabbiani si staccò il dottor Fring, un mito nel campo della medicina riabilitativa.
    “Gli ammalati delle camere diciotto, ventitré, trenta e trentuno sono stati dimessi questa mattina, completamente guariti e, stando alle analisi, quasi tutti fanno dei progressi. Solo i ragazzi della camera undici sono stazionari.”
    “Chi è stato assegnato alla camera undici? No, non ditemi niente! Si tratta di Paolone, per caso?” chiese il dottor Levinson.
    “Temo proprio di sì” rispose il dottor Fring.
    “Vieni avanti, Paolone” ordinò il dottor Levinson.

    Il gabbiano Paolone era piuttosto piccolo e, forse per questa ragione, timoroso. Temendo di essere chiamato a rapporto, si era appostato dietro i colleghi nel vano tentativo di nascondersi e di sfuggire al giudizio del suo primario. Si fece avanti.
    “Allora Paolone, cosa vogliamo fare? Tu sai che i nostri pazienti necessitano di supporto psicologico e hanno bisogno di noi per ritrovare la serenità e il sorriso che hanno perduto. Guarda Arturo! Lui fa le imitazioni e i suoi pazienti ridono, e ridendo guariscono. Tu che fai? Canti delle canzoni rap? Capisco la tua passione, ma ora basta con queste canzoni deprimenti. Non puoi insistere. Ti ricordo che gli umani non capiscono la nostra lingua e che neanche si accorgono che stai cantando. Per loro le parole e le canzoni cantate da noi sono solo dei versi animaleschi. Ma se così non fosse, se contrariamente alle apparenze, gli uomini ci comprendessero perfettamente, ti pare che un paziente che ha già dei problemi per conto proprio abbia tutta questa voglia di sentirsi cantare queste cantilene? Non voglio più sentire parlare di rap! Gli ammalati sono qui per guarire, non per deprimersi ulteriormente. D’ora in poi mi fai Charlot, d’accordo?” disse il dottor Levinson.
    “Ma io Charlot non lo so fare!” si scusò il gabbiano Paolone.
    “Se non fai Charlot mi fai Totò, il tuo compaesano. E se non vuoi fare Totò, fai un numero da pagliaccio. Fring, dai un nasino rosso a Paolone” ordinò il dottor Levinson. Fring si avvicinò a Paolone e gli consegnò il nasino. “E ora, tutti al lavoro!” aggiunse il dottor Levinson.

    Paolone fu l’ultimo a lasciare lo scoglio. Cos'ha il rap che non va? Possibile che sia deprimente? si chiedeva mentre raggiungeva, in pochi battiti d'ali, l’Ospedale di Riabilitazione e si ritrovava davanti alla finestra della camera undici. Stava per posarsi, come al solito, sul davanzale quando, alle sue spalle, sopraggiunse la figura nera di un’aquila. I suoi artigli si conficcarono nell’ala destra del gabbiano, ma l’aquila, troppo veloce, andò a sbattere contro il doppio vetro della finestra e mollò subito presa. Stordita dal colpo, non insisté e se ne andò. Il gabbiano, terrorizzato da un possibile ritorno del predatore, non riusciva a chiamare aiuto. Non potendo gridare, fece l’unica cosa che gli riusciva bene: si mise a cantare un rap:
    "Aprimi, aprimi e aprimi la porta
    Tu sai che non ne posso proprio più
    E se tu ci sei, aprimi la porta
    So che non sai com'è stato laggiù"
    (1)

    La finestra della camera si aprì e due mani calde lo portarono in salvo.

    “Che cos’è?” chiese Bernard, la coperta tirata sino agli occhi.
    “Un gabbiano” rispose Martin. “È ferito! Credo che sia stato attaccato da un’aquila, o forse un falco. Sanguina.” Martin fissava il gabbiano che teneva con le due mani come non sapendo come si dovesse comportare. Era in un ospedale con delle regole molto severe in materia d’igiene e dove gli animali non venivano assolutamente ammessi.
    “Apri la finestra e lascialo libero” suggerì Bernard.
    “È ferito. Non può volare. Ha bisogno di cure. Vedi qui quanto sangue!” Poi, rivolgendosi al gabbiano: “Ascolta, non ti farò del male. Ora ti metto qui nell’armadio e tu stai buono buono. D’accordo? Io vado a cercare un po’ di disinfettante e una benda.” Il gabbiano fece un cenno col capo come se avesse capito le parole del ragazzo. Martin aprì l’armadio, posò delicatamente il gabbiano su un ripiano e richiuse le ante. Ora Paolone era nel buio. Solo un po’ di luce passava attraverso il buco della serratura senza chiave.
    “Chi c’è qui?” si senti chiedere da dentro l’armadio.
    “Chi sta parlando?” chiese a sua volta il gabbiano.
    “Io. Sono Ernest. Lavoro con l’equipe del Dottor Boris” disse la voce.
    “Mai sentito” disse Paolone. “Ma tu fatti vedere.
    Gli occhi del gabbiano, che avevano cominciato ad abituarsi al buio, scorsero la sagoma di un essere piccolo, talmente piccolo che poteva trattarsi di un topo. Sì, era proprio un topo.
    “Che ci fa un topo in un ospedale?” chiese.
    “Che ci fa un gabbiano?” replicò il topo più a suo agio nell’oscurità.
    “Faccio parte dell’equipe del dottor Levinson. Ne avrai sentito parlare?”
    “Mai!” rispose il topo.
    “Sei ferito pure tu?” chiese Paolone.
    “E che è, questo? L’armadio dei feriti? No, io ci dormo. Ora stavo facendo un riposino, ma tra un po’ dovrò uscire a intrattenere i pazienti” rispose Ernest.
    “Quale tipo di terapia usate per guarire gli ammalati?” chiese incuriosito il gabbiano.
    “Ognuno il suo stile, ma drammi soprattutto. Roba che scriviamo noi. Non so se conosci 'Fabio e Clarissa'. No, non conosci, e neanche i miei pazienti a quanto pare. Tempi bui… E tu che fai?”
    “Canto delle canzoni rap.”
    “Come quella canzone orrenda che ho sentito poco fa?”
    “Come sarebbe a dire canzone orrenda?”
    “Credi davvero che quelle canzoni possano guarire una persona depressa?”
    “E tu credi che le tragedie che reciti tu rendano la vita degli ammalati meno tragica?”
    “Non ti permettere, gabbiano!”
    Martin tornò con del disinfettante analcolico, del cotone e un termometro e riaprì le ante dell’armadio. Temendo che quest’ultimo gli fosse destinato, il gabbiano cercò rifugio negli angoli più bui dell’armadio.
    “Non temere” disse Martin, “il termometro è per me.”

    Tranquillizzato, il gabbiano si lasciò curare la ferita. Quando Martin si allontanò, Paolone, accorgendosi che Ernesto si era ritirato su un ripiano inferiore, chiese: “Ma lo sanno loro che tu dormi qui?”
    “Non credo! La sera, quando finisco la mia recita, fingo di andarmene e poi di nascosto torno nell’armadio. Forse non lo sanno… o, se lo sanno, fanno finta di non saperlo.”
    “Mi faresti sentire una scena del tuo dramma?”
    “Perché?”
    “Perché? Non lo so! Perché sono ammalato, ecco perché!”
    “Mi sembra una buona ragione. Tieniti forte, ti faccio la scena finale.”

    Il topino recitava modulando la voce a seconda delle repliche e immedesimandosi talmente tanto nelle parti dei due infelici protagonisti del suo dramma da riuscire a commuovere il gabbiano. Non sapeva se la cosa fosse buona o no. Commuoversi alla fin fine potrebbe giovare al morale dei ragazzi, ma non commuoversi fino alle lacrime, pensava. In un certo senso, le sue canzoni erano come le tragedie dei topi: troppo tristi o monotone non andavano bene. Alla fine della recita, Paolone disse: "Ora metti il muso in questa pallina rossa e ricomincia da capo."
    “Perché?”
    “Forse viene meglio” mentì Paolone.
    Il topo era molto perplesso, ma acconsentì. Come in precedenza, recitò come meglio sapeva fare, solo che ora aveva una buffa e immensa pallina rossa nel muso e la voce nasale. Questa volta, il gabbiano rideva.
    “Ma perché ridi?” chiese il topino.
    “Ascolta” disse il gabbiano, “prometti di non offenderti!”
    “D’accordo, non mi offenderò, ma tu dimmi perché ridevi!”
    “Voi topi siete convinti che per far guarire gli ammalati basti rappresentare delle tragedie. E io, fino a oggi ho cantato delle canzoni rap con la stessa convinzione, ma mi sbagliavo. Gli ammalati hanno bisogno del buon umore. Devono ridere, ridere e ridere. Tutti i nostri studi portano a questa conclusione, ma io persistevo nel mio errore. Ora fai una prova: recita quella scena con la pallina rossa davanti ai ragazzi.”
    Il topo, tentennante, uscì dall’armadio, salutò Martin e Bernard con la zampetta e si mise a recitare.
    I ragazzi assistettero alla rappresentazione senza reagire. Il topo se ne stava tornando, deluso, nell’armadio quando un’esplosione di risate lo raggiunse. Aveva funzionato! Il suo numero da clown aveva fatto ridere i suoi pazienti che ora ballavano di gioia! Nel mentre, Palone s'avvicinò al topino, gli strappò il nasino, vi piantò il proprio becco e, con voce nasale, cantò. Le risate raddoppiarono, triplicarono
    “Venite”, disse Martin, “andiamo nella stanza qua vicino! Lo devono vedere anche gli altri!” Nell’altra stanza, stesso successo. Gli ammalati, al colmo della felicità, si trasferirono tutti in una terza camera, poi in una quarta e in una quinta. Alla fine della giornata, il topino aveva recitato davanti a tutti i pazienti dell’ospedale stipati nell’ultima stanza dell’ospedale. Martin e Bernard, che avevano assistito a tutte le rappresentazioni, fecero quella notte i sogni più allegri della loro vita.
    Tre giorni dopo, la buona notizia: le analisi per la prima volta indicavano che stavano guarendo. Anche l’ala di Paolone stava guarendo ed era ora di andarsene.

    Raggiunse il suo scoglio, proprio quando il dottor Fring parlava dei progressi dei pazienti della camera undici.
    Il dottor Livinson guardò lungamente il nuovo arrivato e chiese: “Mi pare di capire che il naso ha funzionato!”
    “Il naso, il teatro e il rap hanno funzionato” precisò Paolone. Poi infilò il proprio becco nel naso rosso e cantò:
    "Un topo e un gabbiano rinchiusi in un armadio
    Ascoltano la radio e si stringono la mano
    Canto di gabbiano per vedere il mare
    Occhi di topo come un pizzico di sale
    Tu chiamami se vuoi a tutte le ore
    Un cuore di topo per sentirti ancora..."


    Note:
    (1) Parole ispirate a "L'Italien" di Serge Reggiani

    Edited by tontonlino - 18/3/2015, 14:17
  10. .
    Il 2014 non mi ha regalato niente di speciale. Nessun fatto degno di nota. Solo il peggioramento di quanto già andava storto.
    Il 2015 non avrà per me niente di speciale. Non ci sarà nulla di buono. Mi sono stancato di sognare.
  11. .
    In genere ho qualche difficoltà a valutare e a analizzare l'opera di un altro. Ognuno di noi è diverso dagli altri, e questo si riflette in quel che scrive. Quindi la prima regola per me è di non mettere in discussione né il genere, né il registro o lo stile, niente. L'autore decide di scrivere il suo racconto così e a me deve stare bene. In teoria, tutti i racconti essendo congrui con chi li ha scritti, per me sono perfetti. Forse qualcosa posso, nei miei commenti, consigliare per migliorare il risultato, ma sempre nel quadro di quelle che sono state le intenzioni dell'autore, coscienti o meno.
  12. .
    Io dico sempre ai miei giovani collaboratori: "Quando fate un sondaggio, pensate bene a come formulate la domanda. Spesso il modo di porre una domanda è più importante della domanda stessa!"
    E mi piace ricordare l'inizio della mia carriera, quando mi commissionarono il mio primo sondaggio.
    Chiesi: "Che cosa fate mentre leggete il giornale?" Si voleva sapere se la lettura del giornale interrompesse le varie attività, costituendo in qualche modo una pausa, o se si leggesse durante queste attività.
    Bene: il 90% rispose: "Mentre leggo il giornale sono seduto sul cesso"
    Il 10%: "Mentre leggo il giornale bevo il caffè. Poi vado al cesso"

    Ora che ci penso: voi che fate mentre leggete il giornale? Io bevo il caffè.

    Domanda sussidiaria: che cosa fa il mio avatar?
  13. .
    Nello zodiaco di uno sperduto popolo neozelandese i segni zodiacali sono dodici, come nel nostro, solo che invece di averne solo dodici ne hanno altri dodici di riserva: dodici titolari e dodici in panchina. Ci sarebbero pure altri ventiquattro segni apocrifi ma la cosa non è certa.
    Si sa, invece, che uno dei segni è l'ornitorinco. L'ornitorinco è un animale che definire strano è poco: è un ibrido di circa cinquanta altre specie animali, con le loro caratteristiche fisiche e caratteriali. E' l'animale più completo che ci sia in circolazione.
    Il segno dell'ornitorinco ricopre meno di una giornata, dalle 09:01 alle 23:16. Con ascendente dodo chi è di quel segno è portato per il tiro alla fune, con ascendente kiwi non sopporta il casu marzu. Con ascendente ornitorinco sei la persona più completa che ci sia al mondo e il tuo sangue sarà del gruppo 0, quello del donatore universale.
    Il mio consiglio è questo: scrivete un racconto che abbia per tema l'ornitorinco. E' il segno che comprende tutti i segni. Fate come vi ho detto e, quando Ecly rivelerà il segno del prossimo step, fate le dovute sostituzioni e voilà.
  14. .
    Non chiara l'attinenza al tema, ma poi, andandomi a informare in rete, ho visto che i piccioni fanno sempre due uova e, di conseguenza, due gemelli. Per quanto riguarda le caratteristiche del segno, leggo qua e là che hanno una fame insaziabile di sapere, ragionano molto rapidamente e sono impazienti di conoscere tutto e in fretta. Mi sembra che rispetto a questo, ci siamo. Sono, inoltre, un segno d'aria: per due volatili è il colmo.
    Il racconto fila liscio sino alla dirittura d'arrivo. Occupa tutto lo spazio disponibile, forse superandolo pure, ma non annoia.
    Grammaticalmente non rilevo nulla, tranne alcune virgole mancanti.
  15. .
    Rimangono la Vergine, il cancro, la bilancia, i pesci e gli animali con corna capricorno, ariete, e toro.
    Allora,
    1) la Vergine la vogliono tutti: Ecly ce la servirà nelle ultime posizioni
    2) i Pesci non seguiranno l'Acquario perché sarebbe troppo banale
    3) la Bilancia non seguirà i Pesci perché pesci e bilancia fanno pensare a una pescheria
    4) gli animali con corna si alterneranno con i segni precedenti
    5) Ariete sarà messo a distanza di rispetto dalla Vergine per un'evidente questione di pudore.
    6) Lo stesso vale per il Toro

    Avremo: Ariete - Bilancia - Capricorno - Cancro - Toro - Pesci - Capricorno - Vergine
32 replies since 1/11/2011
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