Faltigar

O'Hara

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    Principe delle penne

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    Faltigar
    di O'Hara

    «Acc, ma che…?»
    Anita Sciorra guardava perplessa il vino rosso che inzuppava i suoi tarocchi. La boule di cristallo le si era frantumata tra le mani senza ragione apparente.
    Un silenzio improvviso, sua figlia aveva smesso di colpo di gorgheggiare.
    Succhiandosi il pollice ferito da una scheggia, si voltò a osservare Mirta, che stava terminando la sua prima lezione di canto. Lei e Ute Ullman, l’insegnante, erano una di fronte all’altra, e si guardavano come se in mezzo a loro fosse spuntato un dinosauro.
    «Mirta, signora Ullman, tutto bene?»
    L’insegnante si girò verso di lei: «Mi naturale sovracuto» disse la donna con voce trasognata. «Sua figlia ha una scala in sovracuto di potenza straordinaria.»
    «Ah. Bene. E che significa?»
    «Che dovrà stare lontana dai cristalli, quando Mirta farà i suoi esercizi.»


    Mirta Sciorra scacciò il ricordo. Teneva il naso incollato all’oblò dell’astronave. La Timeshift stava per compiere l’ultimo balzo quantico verso l’astroporto di Titano, la luna di Saturno. Il pianeta, sulla destra, calamitava gli sguardi dei suoi compagni di viaggio, ma gli occhi di Mirta erano tutti per la nuova città.
    Faltigar, la Splendente.
    Si aspettava che fosse bella, ma non che le mozzasse il fiato. Faltigar abbagliava, era un nido di luce su quella luna terraformata di fresco.
    “Sono io. Sono io che ho fatto questo” pensò, con gli occhi lucidi.
    Un pensiero ormai familiare mise a tacere l’orgoglio. Il fuoco oscuro di rabbia e frustrazione che la consumava da quattro anni accentuò due rughe fra le sopracciglia.
    Scosse la testa, decisa. Aveva qualcosa da fare, a Faltigar, e l’avrebbe fatta.
    Sistemandosi nell’abitacolo per prepararsi al balzo, chiuse gli occhi e tornò ai ricordi.

    «Non ti guadagnerai la vita spaccando bicchieri con la voce in qualche olocirco da quattro soldi» diceva Anita Sciorra alla figlia. «Il tuo Saturno non lo consente.»
    «Mamma, ancora con quelle sciocchezze!»
    «Che c’è? Qualsiasi madre studierebbe il cielo natale della figlia per aiutarla a trovare la sua strada. Tu hai Saturno nel segno. È il pianeta dell’impegno, del dovere, delle difficoltà da superare.»
    «Ecco. Pesante, no?»
    «Mh. Vero. Gli antichi lo associavano al piombo.»
    «Che meraviglia» rispose sarcastica Mirta. «Non potevi farmi nascere sotto un pianeta più divertente?»
    Anita la osservava, pensosa. Ragazzini strani, quelli del ventiquattresimo secolo. Troppo svegli, troppo precoci, con capacità difficili da incanalare. Come sua figlia.
    «Vieni qui» le disse.
    L’abbracciò.
    «Significa solo che ti dovrai impegnare nelle cose che ti piacciono, e i risultati arriveranno. Però mi sembra che te ne piacciano troppe: la musica, la chimica, la fisica…»
    «Sono la stessa cosa» mormorò Mirta.
    «Come?»
    «Niente. Tanto non capiresti.»
    Anita sospirò. E quando mai le madri erano considerate in grado di capire le figlie adolescenti?
    «Nessuno ti vieta di cantare o di fracassare vetri quando ti pare. Ma lo farai mentre prendi una laurea e ti trovi un lavoro decente.»
    «Ute dice che…»
    «La carriera lirica è incerta. E Ute non è tua madre.»
    Mirta sbuffò e si alzò di scatto.
    «Pensa a quante provette potrai spaccare in un laboratorio» cercò di scherzare Anita.
    Finì per ridere da sola. Sua figlia era uscita dalla stanza sbattendo la porta.


    Mirta respirava l’aria rarefatta di Faltigar. La città si estendeva fra colline dolci, ai cui piedi il progetto di terraformazione avrebbe collocato un mare. Era tutta di cristallo.
    L’insediamento era ancora in costruzione. Gli edifici a un piano aspettavano di crescere; le sopraelevate e i ponti che avrebbero collegato i suoi quartieri non erano ancora stati costruiti, e il progetto per i grattacieli del Centro Direzionale era appena agli inizi. Svettavano solo le guglie dell’astroporto, lontano dalla città.
    Tuttavia le strade erano già piene di coloni e di visitatori da tutta la galassia, che venivano ad ammirare quella che sarebbe diventata una delle meraviglie del sistema solare.
    Mancavano solo i titaniani. Erano stati confinati sull’altro lato del pianeta, protetti da una bolla che conservava la loro atmosfera di metano e azoto. Avevano tutto il necessario e anche di più, diceva la Spacetech.
    Mirta si accodò a un gruppo di terrestri che pendeva dalle labbra di una guida turistica veghiana.
    «In questo plastico potete vedere come diventerà la città» diceva la ragazza azzurra. «Verranno aggiunti molti piani agli edifici e, una volta stabilizzato il mare, sulla costa nasceranno complessi balneari, realizzati con questo cristallo, il corio. Ci vorrà pochissimo, perché il corio è largamente disponibile in natura. Ecologico, leggero, facile da trasportare e da assemblare. E indistruttibile. Prende il nome dallo scienziato che l’ha creato, Corey Hunt. Il dottor Hunt ha deciso di vivere qui. Alle vostre spalle» il gruppo si giro all’unisono «sulla collina di destra c’è la sua villa, vedete? Da lì controlla ogni giorno i progressi del suo lavoro. Dobbiamo alla sua genialità, alla sua…»
    Mirta abbandonò il gruppo di corsa. Non poteva più ascoltare.
    Girò un angolo, colpì una parete col pugno. La lastra lucente emise una debole vibrazione.
    «Corio! Ma per piacere, corio!»

    «Ah ah ah. Ma la vuoi piantare?» rideva Mirta, cercando di allontanare l’uomo da sé.
    Lui smise di farle le pernacchie sul collo, l’afferrò e la strinse forte.
    «Smettila, basta. Devo lavorare» si divincolò lei.
    «Guarda che mi hai invitato tu nell’antro della strega.»
    «Lo so. Mi mancavi.»
    Mentre si rivestiva, Mirta guardava la persona a cui doveva sei mesi di felicità assoluta.
    «A che punto sei?» chiese lui dal divano su cui era rimasto disteso. «Fai sempre la misteriosa, sul tuo lavoro.»
    «Certo. Nessuno ne sa niente. E se dico nessuno, è nessuno. Ho ottenuto anche un vecchio pc scollegato dall'intranet. L’ho chiesto io. Perché quando avrò finito scoppierà una vera bomba.»
    «Davvero? Mi devo preoccupare?»
    «Solo se ti scoccia che la tua ragazza vinca il Nobel a trent’anni» lo sbeffeggiò lei.
    «Bum!»
    Mirta, che stava avviando il computer, si voltò lentamente.
    «Ah, sì? Vieni qui. Vieni qui, ho detto.»
    Lo prese per un braccio e lo trascinò davanti al tavolo dei test.
    «Cosa vedi?» gli chiese.
    «Una lastra di vetro.»
    «Una lastra di vetro. Ossignore. Una lastra di vetro, dice. D’accordo. Dalle un pugno.»
    «Cosa?»
    «Colpiscila. Dalle un pugno.»
    «Poi mi porti tu al pronto soccorso?»
    «Forza, fifone.»
    L’uomo colpì. Il vetro vibrò ed emise un suono puro e leggero.
    «Wow» esclamò.
    «Adesso prendila, cerca di spezzarla.»
    «Sicura? L’hai testata bene? Non vorrei…»
    «Tranquillo. Manca solo un controllo. Ma è più uno scrupolo che altro. Dai.»
    Lui prese la lastra, meravigliandosi della sua leggerezza. L’afferrò ai lati e la colpì al centro con il ginocchio. La lastra vibrò più forte, emise un altro suono armonioso e continuò a brillare intatta.
    Mirta sfogava l’entusiasmo in un balletto scombinato.
    «Fantastico. Cos’è ‘sta roba?»
    «Mirtio. “Quella roba” avrà il mio nome. E quello che chiami vetro, ignorantone, è cristallo. Cosa sai del cristallo?»
    «Che è un vetro che si è montato la testa. E che ci si beve dentro lo champagne.»
    «Asino. Il cristallo è un miracolo della sabbia. Sabbia, minio, carbonato di potassio. E silicato di piombo. Lo diresti mai che un elemento pesante come il piombo possa creare una delle cose più belle e fragili della terra?»
    «Appunto. Fragile. Com’è che questa non si rompe?» chiese lui mentre ci prendeva gusto, e sottoponeva la lastra a tutte le violenze possibili.
    «Ho aumentato la percentuale di piombo al 70 per cento. Ho calibrato i componenti, e poi…»
    «Tutto qui?»
    Mirta esitò. Aveva sempre osservato il massimo riserbo, sul suo progetto. Neanche il Rettore ne sapeva granché. Ma Corey Hunt era speciale. Voleva che fosse orgoglioso di lei. E dopotutto era un ingegnere, ci capiva poco di chimica e fisica.
    «… e poi, ta-da! Nanoparticelle supersimmetriche. È l’interazione degli spin che tiene insieme tutto. Cristallo supersimmetrico.»
    Mirta brillava, Corey sorrideva.
    «Geniale.»
    «Già. Sembra facile, ma mi ci sono consumata i neuroni per anni.»
    Corey si avvicinò, l’abbracciò, le diede un bacio lungo e profondo.
    «Quando potrò dire a tutti che la mia ragazza è un genio?»
    «Manca poco. L’ultimo test. Te l’ho detto, per scrupolo.»
    «Sicura che devi lavorare proprio adesso, genio?» chiese Corey con la voce che sapeva già la risposta.
    «Posso sempre alzarmi presto domattina» rispose lei, tirandolo verso il divano.
    Si alzò presto, difatti.
    Il mirtio era sparito, il computer svuotato, Corey volato chissà dove. Non lo rivide più.


    Lo vedeva adesso, Corey.
    Intratteneva gli ospiti nella sua villa piena di luci, che illuminavano la notte di Titano. Il cielo era buio, occupato quasi interamente da Saturno.
    “L’uomo della mia vita”, pensò Mirta con una smorfia.
    Corey era in ottima forma. Sorridente, fascinoso, faceva il cascamorto con una ragazza bella e molto giovane, porgendole qualcosa da bere.
    I quattro anni trascorsi non erano stati altrettanto gentili con Mirta. La delusione e le difficoltà le avevano disegnato un volto più vecchio della sua età.
    Il tradimento di Corey aveva colpito duro. Era rimasta a contemplare le macerie della sua vita sentimentale e professionale per molti mesi.
    Poi si era rimboccata le maniche. Aveva dovuto riprendere il lavoro daccapo, e con fondi propri, che si procurava con esibizioni vocali spericolate negli olocirchi di mezzo sistema solare. Alla fine ce l’aveva fatta.

    Mirta lisciava la gonna del tailleur di rappresentanza. In due anni di duro impegno aveva ricostruito il percorso di ricerca, migliorato il prodotto e ripetuto i test. Finalmente aveva preso coraggio, e si era presentata al Centro Progetti della Spacetech con un chip di memoria e una lastra del suo cristallo.
    Il valutatore stava studiando i dati sul pc neurale, carezzandosi il mento, la fronte aggrottata. Mirta cercava di smorzare la tensione, ripassando a mente le fasi di lavoro che avevano reso il mirtio perfetto. Con un aggiustamento della percentuale di piombo era davvero indistruttibile.
    L’uomo smise di esaminare le formule e la fissò.
    «Singolare, dottoressa Sciorra.»
    Mirta sorrise.
    «Grazie. Ho scelto la Spacetech perché so che siete impegnati in diversi progetti di terraformazione. Il cristallo supersimmetrico si presta a una molteplicità di impieghi nel vostro campo, e…»
    «Credo che lei abbia frainteso» la interruppe il valutatore.
    «Come?»
    «Vede, dottoressa Sciorra, la Spacetech ha già acquistato questo brevetto. Due anni fa. In questo momento stiamo usando il cristallo su Titano.»
    Mirta smise di respirare.
    «No, le percentuali non…» balbettò. «Non ne sapevo niente, e…»
    «Certe cose vanno trattate con la massima riservatezza. C’è sempre il rischio che qualcuno si faccia venire strane idee. Conosce la strada, dottoressa Sciorra.»
    Adesso l’uomo la fissava gelido.
    Mirta non seppe reagire. Cercò di congedarsi con dignità, ma non le riuscì. La sua fu più che altro una fuga.
    Corse da Ute, il suo unico rifugio dopo la morte della madre.
    «Capisci? Quello mi stava accusando di spionaggio industriale. Di aver rubato il mio lavoro.»
    «Potevi dirgli di Corey Hunt.»
    «Certo, come no. Raccontare a quello là che mi sono giocata il Nobel per una notte di sesso? Che mi sono comportata da idiota? Non ho prove, Ute, non ho niente. Quelli…»
    «Ho capito. Quando sei così agitata ci vuole qualcosa di serio. Scalda la voce, ragazza. Proviamo Scala al Paradiso.»
    «No, Ute, proprio non…»
    «Adesso.»
    «Ma è tutta in sovracuto!»
    «E da quando in qua ti spaventano i sovracuti? Concentrati, al resto penserai dopo.»
    Ute osservò Mirta che iniziava gli esercizi di respirazione. Sapeva che cantare era l’unica cosa che potesse calmarla. Non si era mai rassegnata al fatto che, con quella voce, non avesse scelto una carriera artistica vera e propria. La ragazza aveva lottato, ma non abbastanza.
    “Corey Hunt è un bastardo, ma il tradimento più grande è quello di Mirta verso se stessa” pensò.
    Ma, come le aveva fatto notare Anita Sciorra durante un colloquio tempestoso, lei non era sua madre. Non aveva potuto farci niente. Si rilassò sul divano, pronta a guidare Mirta. Forse l’unica persona al mondo in grado di affrontare l’aria più impervia della lirica del ventitreesimo secolo.


    Mirta aveva impiegato altri due anni a mettere insieme la somma per arrivare su Titano. Se l’era guadagnata facendo “il fenomeno da baraccone”, come avrebbe detto sua madre.
    Alzò la testa verso il cielo. Saturno le fece tornare in mente quel giorno in cui lei leggeva il suo cielo natale e le parlava di quel pianeta severo, dell’impegno e del piombo.
    “Che dici, mamma? Se avessi dato retta a Ute sarei a questo punto, adesso? Ho lavorato duro come dicevi tu. Come dice quella stupida palla con gli anelli, lassù. Ma non è servito. Il tuo Saturno è una gran fregatura. Se ne infischia altamente, di me. Sarà un caso che tutto debba finire proprio qui? No, non è un caso. Tu diresti che niente è mai casuale.”
    Distolse gli occhi dal pianeta che tagliava il buio con l’orlo crudele degli anelli. La sua bellezza non le era di alcuna consolazione. Tornò al presente, e alla villa di Corey Hunt.
    Corey aveva fatto le cose in grande. L’edificio di cristallo era armonioso, con volumi articolati, arredato di verde e di luci suggestive. Dall’entrata principale si snodava un viale fiancheggiato da sculture astratte dello stesso materiale. Segnavano un percorso che si collegava alle prime propaggini di Faltigar, come se volessero ricordare a tutti che era da lì, dal proprietario di quella casa fantastica, che nasceva tutto.
    Esitò, ferma sul punto di non ritorno. Poteva ancora lasciar perdere.
    Poi il desiderio di seppellire quell’uomo sotto i cocci di una vita cui non aveva diritto prese il sopravvento.
    Estrasse il piccolo dispositivo che aveva assemblato in molte notti di lavoro. Una scatoletta nera, che entrava in una tasca.
    Avrebbe preferito distruggere Corey Hunt a voce nuda - la sua voce, qualcosa che nessuno poteva rubare - ma temeva che l’aria rarefatta di Titano influisse sul risultato. Perciò l'aveva registrata e potenziata.
    “Sei stato precipitoso, Corey. Dovevi aspettarlo, l’ultimo test. Il mio ultimo controllo per scrupolo. L’ho fatto, sai? Quello della resistenza al suono. Il piombo deve essere al 75%, o il cristallo non regge. Il tuo misero corio è una truffa. Benvenuto nel club dei perdenti.”
    Direzionò l’apparecchio sulla villa, sul punto preciso che aveva scelto.
    Attivò il disconnettitore di supersimmetria, regolò la frequenza e liberò il suono.
    Nell’aria leggera di Titano si diffusero le note estreme di Scala al Paradiso.

    Rannicchiata dietro un cespuglio, chiuse gli occhi e si rassicurò con un mantra di sua invenzione.
    “Il suono è un’onda potente. Il suono colpisce. Il suono crea i mondi, il suono li distrugge. Il suono è un’onda potente, il suono colpisce, il suono…”
    Aprì gli occhi al primo scricchiolio. Una crepa nell’angolo di giunzione fra due lastre portanti.
    Sentì nascere un sorriso crudele, di cui non si credeva capace. Gli invitati alla festa si guardavano intorno. Non erano preoccupati. Solo curiosi.
    L’intera costruzione tremò. Apparve, per un momento sospeso, come deformata da uno schermo d’acqua.
    La vibrazione cresceva, si trasmetteva alle sculture del viale d’accesso, correva giù per la collina, giù fino a Faltigar. Mirta aveva occhi solo per Corey Hunt.
    Poi la villa esplose.
    Mirta si protesse la testa. Quando la rialzò, l’immagine di Corey, fermo in mezzo alla devastazione della sua casa, le diede un senso di malinconica pienezza.
    Non esultò, come credeva che avrebbe fatto.
    Vide gli invitati. Erano feriti, molti sanguinavano.
    Tutti guardavano verso la città.
    Fu allora che Mirta sentì le altre esplosioni. Avevano un suono argentino, quasi gioioso. Il suono del cristallo in frantumi.
    Si voltò verso Faltigar.
    L’onda sonora che aveva scatenato stava distruggendo, in sequenza, tutti gli edifici toccati dalla vibrazione che si era propagata dalla villa.
    In pochi minuti, due terzi di Faltigar erano rasi al suolo.

    In un angolo del suo giardino, Mirta versava un prosecco nel calice di Ute. Un modo come un altro per ignorare il suo sguardo accusatore.
    «Tu eri lì.»
    Ute si era presentata senza preavviso. Rifiutava di sedersi e pretendeva risposte.
    Mirta non aveva voglia di ascoltarla, non aveva voglia di pensare a quello che era successo a Faltigar. Da quella notte beveva troppo ed era sempre stordita.
    Se la città si fosse sviluppata in altezza, sarebbe stata una strage. Niente morti, invece, però molti erano rimasti feriti, alcuni in modo grave. Non era questo che aveva voluto.
    “La colpa non è mia. La colpa è di quel bastardo di Hunt” continuava a ripetersi, ossessiva.
    «Mi rispondi o no? Eri lì. Come hai fatto ad andartene?»
    Mirta sbuffò, insofferente.
    «Come gli altri. Ero ferita anch’io. Schegge. Sono andata all’astroporto e mi sono imbarcata sul primo volo. Come hanno fatto in tanti. C’è qualche vantaggio quando nessuno ti conosce.»
    Ute ignorò il tono amaro. Sedette sulla poltrona di vimini e si mise a girare un dito umido sul bordo del flȗte di cristallo per trarne il suono, ma pensava ad altro e non esercitava la giusta pressione. Il bicchiere rimaneva muto.
    «Qualche cretino ha pensato ai titaniani, ma ci vuole poco a capire che non c'entrano niente, visto che non possono neanche respirare fuori dalla bolla. Arriveranno a te, Mirta. Basterà mettere insieme la lista dei passeggeri dell’astronave e quella musica che alcuni testimoni affermano di aver sentito, prima del disastro. Non ci vorrà molto perché qualcuno riesca a darle un titolo. Scala al paradiso, vero? Ti rendi conto che sei una delle poche persone al mondo capace di cantarla?»
    «Ho avuto una buona maestra.»
    «Oh, piantala! Non giocare con me. Te l’ho insegnata io, quell’aria, certo. Ma non per fare ciò che hai fatto. E metti che quel valutatore della Spacetech abbia parlato alla Sicurezza della tua visita.»
    «Non mi ha denunciato. Sono passati due anni, l’avrei saputo, ti pare?»
    «Può darsi. Ma è possibile che abbia segnalato la cosa. Hai presente il vecchio due più due?»
    «Certo che mi sei di grande aiuto.»
    «Che diavolo di aiuto posso darti, ormai?»
    «Mi dispiace per Faltigar, va bene?» sbottò Mirta. «Mi dispiace davvero. Ma quell’infame di Corey ora non sa più dove nascondersi. Tutti si sono accorti di colpo che è un imbroglione, un irresponsabile che ha messo a repentaglio la vita di migliaia di persone. È questo che importa. Questo e nient’altro. Perché il corio non era testato a sufficienza, mentre il mio mirtio è davvero indistruttibile. Non capisci, Ute» continuò Mirta esaltata. «Io mi sono ripresa la mia vita. Ho ripreso ciò che mi appartiene. Aspetterò qualche tempo, poi tornerò alla Spacetech. Devo dirglielo che con il 75% di silicato di piombo il mirtio è davvero indistruttibile. Mi dovranno ascoltare.»
    «Tu sei ossessionata. E anche ubriaca.»
    «Bisogna solo aspettare che si calmino le acque. Faltigar potrà essere ricostruita più bella e più sicura di prima. Perché sarà fatta col mirtio. Il mio mirtio, non quello stupido corio.»
    Riprese fiato: «Andrà tutto bene, Ute. Vedrai, andrà tutto bene.»
    «Niente andrà bene, ragazza mia» disse piano Ute, gli occhi fissi sull’entrata del giardino.
    Mirta seguì il suo sguardo, puntato su un uomo dimesso, fermo davanti al cancello. Indossava un impermeabile sgualcito e un cappello strapazzato. Mostrava un distintivo attraverso le sbarre.
    “La Sicurezza è una di quelle cose che non cambiano mai” pensò Ute.
    «Mi hai denunciato?» chiese Mirta torva, la voce appena un sussurro.
    Ute Ullman guardò la donna dura e amara che aveva davanti. Cercò nei suoi tratti la ragazza curiosa del mondo, la giovane donna pazza per la musica, convinta che fossero le sue vibrazioni a tenere insieme la materia e i mondi. Che la scienza e la musica fossero una cosa sola.
    Non la trovò.
    «No» sussurrò di rimando. «Avrei dovuto, ma non l’ho fatto.»
    Mirta annuì. Cercò l’ultimo aiuto da Ute, ma lei fissava il vuoto e continuava a girare il dito sull’orlo del bicchiere.
    L’uomo al cancello aspettava. Paziente. Inesorabile.
    «Scala al Paradiso, già. Avrei dovuto scegliere un altro pezzo» disse Mirta scuotendo la testa.
    Si alzò per andare ad aprire.
    Ute non volle guardare mentre andava via.
    Continuò a carezzare il bordo del bicchiere.
    Il cristallo cantò.
     
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  2. wyjkz31
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    Principe delle penne

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    A parer mio uno dei più bei racconti di SETTE...
     
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