Circo e Sirene

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    Scrivano supremo

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    La verità è che io, quelle bambinette che all’uscita di scuola trovavano le loro mamme ad attenderle sorridenti, sì, proprio quelle che avevano la merenda tutti i giorni e la riga dritta e il dietro delle orecchie sempre pulito, io quelle bambine avrei volute vederle morte. Poi mi passava l’istinto omicida; ogni anno si ricominciava ed erano proprio quelle bambine che ci avrebbero portato soldi.
    Molti soldi, solitamente sufficienti a farci campare serenamente fino alla primavera successiva; quindi ingoiavo il rospo e sorridevo.
    Le bambine perfette adorano il circo; e i loro perfetti genitori smaniano nel portarcele. E il nostro, a onor del vero, è sempre stato un circo di qualità, per quanto miserello.
    Anche quell’anno non avevamo animali. Mantenere gli animali costa, parecchio, e i nostri guadagni ci servivano per tenere le nostre chiappe asciutte. Non potevo certo permettere che la donna cannone dimagrisse, e che diamine. Ci saremmo resi ridicoli, a dir poco.
    Il mio ruolo, da ormai dieci anni, è quello del direttore, nonché domatore in caso di presenza di leoni, o clown in assenza di leoni. Insomma, il factotum della situazione. Sono nato in questo circo e ho preso il posto di mio padre, quando è morto. Per tutti sono il Capo. Anche se ormai mi sono dimenticato di esserlo. Loro sono la mia famiglia, e il circo è l’unica cosa che mi fa sentire vivo, anche se squattrinato.
    Medioman si occupava dei clown; come clown non è proprio il massimo, in realtà fa piuttosto paura. Brutto come la suola di una scarpa che ha pestato una merda, gli mancano le due dita medie. Non si è mai capito come abbia fatto a perderle entrambe. Quell’anno eseguiva un numero strano da pisciarsi nelle mutande, indescrivibile ma terrificante. Poi, quando qualche clown era malato, lo sostituiva. In quei casi era un disastro. La serata era rovinata, e potevamo metterci l’animo in pace: l’incasso sarebbe stato una rovina.
    Jules e Jim, una coppia di francesi appassionata di cinema,erano i nostri acrobati. Non che ci sia un’impalcatura professionale ma loro sono adattabili, dove li metti si librano come uccelli e fanno spalancare la bocca ai più piccoli. Perfetti.
    E Candy Candy, la nostra donna cannone. Un bel donnone, energico e allegro. Una donna esplosiva.
    Gli altri, un contorno che cambiava anno per anno, di alcuni non ricordo neanche il nome.
    Quell’anno Candy Candy aveva qualche problema di famiglia, parenti serpenti e tutte quelle menate lì, e mi aveva chiesto un favore.«Ascoltami, Capo, possiamo ospitare mia cugina per un paio di mesi? È una brava ragazza, ci può dare una mano. E ha bisogno di staccare, sta attraversando un brutto periodo; un aborto e una relazione finita a schiaffoni. Ha bisogno di un posto dove nessuno la giudichi».
    «E che cazzo, non siamo mica un centro recupero donne maltrattate. Dille che non voglio sentire una sola lamentela. Una parola triste, una lagna, e se ne va. Qui siamo già alla canna del gas, non abbiamo bisogno di persone tristi» avevo risposto io, delicato come al solito.
    E così era arrivata Alice. Bella, con un sorriso abbagliante. Dei piedi enormi, sempre chiusi in scarpe colorate. E una voce da far resuscitare Aretha Franklin, se fosse morta.
    Confesso che cominciai a sognare soldi a palate. Il problema è che una che canta così, in un circo, è inutile come un ventaglio al Polo Nord. Quindi, semplicemente, la affidai alle amorevoli cure di Candy Candy e me ne dimenticai. Non avevo tempo, per lei. La stagione era alle porte.

    *******

    «Alice è proprio carina, non credi?» Medioman si sfiorava i moncherini, guardandomi di sottecchi.
    «Sì, lo è. Quindi? Cosa vuoi Medio? Non vedi che ho da fare?» sommerso dalle scartoffie, stavo costruendo il nostro successo. Il Comune di Roma aveva lanciato una manifestazione estiva, “Il circo al Colosseo, una notte da sogno”, e noi eravamo nella lista dei partecipanti. Avevo riscosso un vecchio favore che mi doveva un assessore alla cultura un po’ frivolo. Un sogno che si avverava. Ma sistemare i miei quattro scornacchiati non era impresa semplice. Specialmente organizzare un numero d’impatto che ci facesse fare una porca figura e ci riempisse di pubblico fino a settembre. Sognavo un inverno in un’isola, al caldo; con qualche bella donna sulla quale allungare le mani.
    «Che ne dici se la inseriamo nel numero di apertura per il Colosseo?»
    Cazzo, geniale. La inseriamo nel numero di apertura, vestita di verde menta, a cavallo (appunto mentale: trovare un cavallo bianco, o nero, o pezzato; un cavallo che cammini) mentre canta Roma non fa’ la stupida stasera; e nel mentre, in aria volteggiano Jules e Jim, vestiti di rosso (appunto mentale: cazzo, ma abbiamo tutti ‘sti vestiti di questi colori? Quanto mi costeranno? E dove li faccio volteggiare? Ci serve un’impalcatura. Oddio).
    «Sì, mi pare una buona idea» avevo abbozzato. «Cosa pensavi di farle fare, Medio?»
    «Onestamente mi interessa poco, cosa farle fare. Mi interessa solo che lo faccia lei. Quella ragazza mi piace, Capo».
    «Ti piace in che senso?» avevo alzato gli occhi dalle scartoffie, perplesso. Medioman mi ha sempre dato l’idea di una persona senza sessualità, ed ero sorpreso. Non saprei dire se piacevolmente o meno. Direi di no, a essere sincero.
    «Mi piace nel senso che è una persona che piace, ha carisma. Secondo me, lei può darci quel tocco di leggiadria che ci manca. Lei è… speciale, ecco. Non saprei dire perché. Ma dove c’è lei si sente la differenza».
    «Ok. Senti un po’ che ne pensi della mia idea».
    Medioman era entusiasta, sprizzava buon umore da tutti i pori. Faceva anche un po’ impressione, a dirla tutta.
    «Non preoccuparti delle impalcature, ci penso io. Tu avvisa Alice. Te la mando, va bene? Grazie Capo, vedrai che diventeremo famosi, me lo sento dentro, me lo sento».
    In effetti ero quasi certo che Alice ci avrebbe fatto svoltare. Non più circo di serie B. E magari avremmo potuto ingaggiare qualche guest star nel futuro. La mia mente lavorava a folle velocità.
    «Ciao, Giorgio. Roberto mi ha detto che mi stavi cercando».
    Sì, Alice era proprio diversa. Lei i soprannomi non li usava, mai. Li trovava poco personali. I nomi di scena, li definiva. Sorriderle fu spontaneo. E io sorrido raramente.
    «Ciao Alice. Abbiamo pensato di inserirti nel numero di apertura che si farà tra quindici giorni al Colosseo. Che ne pensi?» avrebbe potuto anche rifiutare, a dire il vero. La conoscevamo così poco.
    «E cosa dovrei fare, esattamente? Non mi sembra di avere doti circensi.»
    «La tua voce è una cosa spettacolare, e tanto ci basta. Non ci basta proprio del tutto, in effetti… Sai andare a cavallo?»
    «Sì, a cavallo me la cavo. E cantare mi piace. Se devo fare solo queste due cose, direi che si può fare. Se questo può dare una mano al circo, lo faccio con piacere».
    «Benissimo, Alice. Questo è lo spirito giusto, brava». Avevo spiegato anche a lei cosa avevo in mente per il numero, con una certa emozione. Era da parecchio che non mi sentivo così fiducioso. Meno di un’ora prima cercavo di far quadrare il mio misero staff per mettere su un numero almeno dignitoso e adesso mi si offriva un jolly come Alice. Avevo la pelle d’oca fino ai peli delle orecchie.
    «Ho un abito del colore giusto, Giorgio. Domani mattina te lo faccio vedere. E mi pare che mia cugina abbia della stoffa rossa, io so cucire, quindi possiamo fare anche gli abiti per Jules e Jim. Niente di complicato, però, che sono un po’ arrugginita»
    «Benissimo, fammi un favore, mia salvatrice: dimmi che non sto sognando. Sei straordinaria».
    Lo avevo detto con una sincerità disarmante, e Alice era arrossita ed era scoppiata in una risata.
    Una risata squillante e allegra. Sarebbe andato tutto bene, me lo sentivo.

    *****

    Il giorno della resa dei conti era arrivato in un battibaleno.
    Corpi e menti di tutto lo staff erano allo stremo, al limite. Stavamo per cedere tutti. Ma il grande giorno era arrivato e Alice era perfetta, e Jules e Jim erano perfetti, e anche il cavallo aveva un suo certo fascino equino.
    Il pubblico pigiato dentro al Colosseo stringeva le nostre gole in una morsa di ansia. Mi sentivo una secchezza delle fauci che neanche nel deserto, e le gambe molli e senza ossatura. In alcuni momenti pensavo che ci avrei lasciato le penne. L’allestimento era spettacolare, il comune di Roma aveva fatto le cose in grande e anche il tempo, in quella serata tiepida di giugno, sembrava voler dire: dài che ce la fate. Questa è la vostra occasione. Dài.
    Quando avevo visto venire verso di me Candy Candy con in mano una cosa verde menta e il viso gonfio di lacrime, avevo compreso che tutto era andato a puttane.
    «Che succede? Dove cazzo è Alice?»
    Lei mi aveva allungato un biglietto minuscolo: Devo andare. Lui mi ha trovata. Devo scappare subito. Perdonami Giorgio. Perdonatemi tutti. Questo c’era scritto, sul biglietto.
    «Cazzo, ma questo stronzo proprio adesso doveva arrivare? Ma tu lo hai visto, Candy?»
    «È arrivato un’ora fa. Io ho coperto Alice mentre usciva, non so dove fosse diretta. Credo alla stazione. Lui sono riuscita a tenerlo qui fino a dieci minuti fa. Mi spiace, Capo. Non sono riuscita a fermarla».
    «Che sfiga pazzesca… Ma io la vado a riprendere alla stazione. Tu stai qui, la risolvo io questa situazione. E dì a quelli della scaletta di spostarci per ultimi. »
    «Da quando sei un eroe, Capo?» Candy Candy aveva un sopracciglio alzato e un’espressione piuttosto stupita.
    «Da quando toccano i miei affari e i miei affetti. Con il Capo non si scherza. Discendo da una famiglia di minatori e pugili, anche se non mi ricordo un cazzo di quello che mi raccontava mia nonna. Ma non importa, buon sangue non mente… »
    La verità è che me la facevo sotto dalla paura, ma quella era la mia serata e nessuno poteva rovinarmela. Avevo chiamato un taxi per arrivare a Roma Termini di corsa. Non sapevo come avrei fatto a trovare Alice in quel marasma di gente, ma quello doveva essere il mio giorno buono perché l’avevo vista subito, in coda alla biglietteria. Si guardava intorno come una bimba che ha perso la mamma, bellissima nel suo lungo abito blu elettrico. Era una macchia di colore in mezzo al grigiore della folla. E infatti un uomo si stava avvicinando a lei. Aveva cominciato a strattonarla per portarla fuori dalla fila. Doveva essere lui, il porco. Mi ero reso conto che era piuttosto possente, con spalle larghe e una statura invidiabile. Ma ormai ero già partito in difesa della pulzella, che a onor del vero non era poi così indifesa. Gli aveva già assestato un calcione sui gioielli di famiglia con un certo vigore.
    «Alice, smettila. Andiamo dai, torna a casa… C’è la tua vita, lì. La nostra vita…»
    Avevo sentito l’uomo che cercava di ammansirla mentre mi avvicinavo, per quanto fosse ripiegato su sé stesso come un bugiardino.
    «Lasciami stare, Lucio. Io non ci torno a casa. Io voglio essere libera, tutti voi mi state uccidendo. Lasciami stare» Alice aveva un’espressione sconvolta, e continuava ad agitare le mani, colpendo a casaccio il porco, l’uomo, Lucio. Che a dirla tutta era piuttosto tranquillo, rassegnato quasi. C’era qualcosa che cominciava a puzzarmi in tutta la storia. Mi avvicinai un po’ di più e intervenni.
    «Ciao Alice. Scusate se vi interrompo. Gentile signore, Alice avrebbe un numero di apertura al quale partecipare, una cosa veramente importante. Potrebbe essere così comprensivo e rimandare le discussioni a un momento più consono?»
    Mi guardavano entrambi, come un alieno capitato in mezzo a loro. Alice fu la prima a riscuotersi.
    «Giorgio, mi perdonerai ma devo partire, capisci. Non voglio avere nulla a che fare con lui»
    Lui, con la testa bassa e un’espressione di dolore sul viso, mormorò: «Vai a fare il tuo numero, Alice. Poi, però, mi dovrai parlare. Me lo devi. Ce lo devi, non credi?» Quell’uomo non era un violento, realizzai in un momento. Quell’uomo amava Alice come la sua vita e c’era un mistero che nessuno pareva voler chiarire. Ci avrei pensato dopo. Dopo lo spettacolo.
    «Andiamo, tutti. Dopo cercheremo di capire cosa non va qui. Ma dopo il numero. Per favore.» La mia voce aveva un che di lamentoso, e sortì l’effetto desiderato: entrambi si mossero, annuendo e spingendomi letteralmente verso l’uscita della stazione.
    Bene, il circo era salvo. Dopo avremmo salvato anche quei due tipi strani che continuavano a guardarsi di sottecchi.

    *****

    Quello che ricordo chiaramente dello spettacolo sono le luci che illuminavano il Colosseo e Jules e Jim che volteggiavano in aria, rondini colorate e giocose. E la voce di Alice, come il canto delle sirene, che aveva ammaliato tutto il pubblico. Avevo sorpreso Lucio, in piedi accanto a me, mentre si asciugava gli occhi con la manica della giacca. Ridicolo, ma molto tenero.
    E io pure, a onor del vero, mi ero ritrovato a tirare su con il naso. Forse un po’ di allergia, chissà.
    I due innamorati feriti si erano ritrovati dopo lo spettacolo, li avevo osservati da lontano. Lei si era fatta abbracciare e baciare, e lui l’aveva sollevata tra le braccia. Insieme erano entrati nella roulette di Candy Candy, che mi aveva tirato una gomitata.
    «Mi ospiti stasera, Capo?»
    «Ma non sei preoccupata per Alice? Non mi hai detto tu che era appena uscita da una storia di aborto e schiaffoni?»
    «Casomai mi preoccupo per Lucio. Gli schiaffoni se li è presi lui, quando le ha detto che l’amava e che ci avrebbero riprovato, ad avere un bambino. Alice è molto severa con se stessa. Ma la sua vita è a Torino, con Lucio e il suo lavoro di maestra. I bambini sentono tanto la sua mancanza. Ma lei non riusciva più a guardarli senza pensare che nessuno di quelli era un suo piccolino, dopo aver perso il bambino».
    «Be’, mi pare che si siano riappacificati. Alice si merita di essere felice, cazzo. Ma secondo te, verrebbe a cantare qualche volta per noi?»
    «Sei proprio incorreggibile, Capo. Allora, me lo offri un bicchiere della staffa prima di andare a dormire?»
    «Certo. La serata è stata un successo, non credi? Ce li facciamo ancora due passi per il Colosseo? Vado a prendere una bottiglia per festeggiare».
    «Sì, una serata stupenda. Corri a prendere la bottiglia».
    Passeggiammo insieme per l’Anfiteatro, a braccetto come una vecchia coppia di coniugi. Mi sentivo felice come non mai. Non so se dipendesse dal successo della serata, o dal fatto di potermi sentire fiero di me stesso, in generale. Un sentimento che raramente avevo sentito nei miei confronti.
    Ci sedemmo osservando gli operai che smontavano il palco, modernità e antichità in un incrocio meraviglioso e inquietante. Quel posto rendeva la notte magica.
    «Sai Giorgio, da oggi ti chiamerò così. Credo che Capo sia troppo impersonale, ha ragione Alice» Candy mi stringeva la mano.
    «Basta che non mi diventi una romantica lamentosa, Luisa. Sai che la mia pazienza è inesistente».
    La sua risata era squillante e gioiosa, come la risata di Alice. E la sua mano calda faceva di me un uomo felice.

    ***

    I grossi ingaggi non arrivarono mai, solo qualcosa in più e tanta notorietà sui giornali del giorno dopo.
    Ma quell’estate, quella serata, erano state per noi il punto di svolta. E aspettavamo che Rebecca, la figlia di Alice e Lucio, diventasse grande. Aveva già un vocino da piccola sirena.
    E lì sì, che il nostro momento sarebbe arrivato.
     
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  2. wyjkz31
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    Ma che bello che è questo racconto!

    Uno di quelli che guadagnano moltissimo nell'essere svincolati dal tema del concorso.
     
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    Penna suprema

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    Lo voglio leggere con calma, mi sa che è un sacco bello.
     
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