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Siamo sul tetto quando dice che deve andarsene.
È lui a chiamarlo così. Il tetto. Anche se è appena una terrazza all’ultimo piano della clinica, con le inferriate alte. Sembra una gabbia.
Lui non è uno di quelli che si butterebbero di sotto, ma non si sa mai.
Poi lo ripete: “Se resto un altro giorno, finirò di impazzire”.
Senza volerlo ha detto una cosa divertente, ma è un pezzo ormai che ci siamo scordati di quel che ci faceva ridere.
Si accende un'altra sigaretta e per un po’ non dice nulla. Poi mi guarda, la spegne e si scusa.
È la terza volta che lo fa stasera. Quando ci siamo conosciuti, gli ho chiesto di smettere, ma chi ci ha più pensato da allora.
Il cielo è coperto, lontano verso la città lampeggia. Non che si veda, dietro a quelle sbarre così alte, ma da qualche parte c’è.
“Al diavolo le stelle”, dice.
“Beh, non so”, dico io. “C’è tempo, no? Possiamo restare ancora un po’ ”. Anche se so che non servirà a nulla.
All’inizio mica ci pensava, ad andarsene. Da qualche settimana ha iniziato a non parlare d’altro.
Altri lampi, poi una raffica di vento che passa sopra le nostre teste e scompare. Il cielo ha una strana sfumatura viola e le nuvole sembrano lenzuola stropicciate.
Dice di sentirsi meglio. Dice: “È passata”. Nemmeno fosse la folata di un attimo fa.
Ma è come la cicatrice di un morso. Ci fai l’abitudine, ma non se ne andrà più.
Forse dovrei dirgli che quella che rischia di impazzire sono io. Mettermi a piangere, che ne so. Oppure dirgli siamo al manicomio, o quello che è, cristo santo, non è che lo decidi tu quando andartene. E poi urlargli contro e tornamene di sotto, firmare per uscire e non venire più. Lasciarlo lì sul tetto, a domare i suoi leoni immaginari, nell’attesa che ne trovi uno vero e riesca ad aprirgli la bocca e scomparirci dentro.
Ma non lo faccio. Sto zitta e con gli occhi gli faccio segno di continuare.
Quando vengo a trovarlo mi porta sempre quassù. Allora penso che c’è un motivo se la nostra storia è ancora in piedi, se è me che porta sul tetto. C’è un motivo per cui continuo a venire a trovarlo, anche se faccio fatica a ricordarmi qual è.
“È per le stelle”, dice lui.
All’inizio mi sembrava una cosa romantica. Ora non so. Le conta. Non è che gli piacciono o altro. Le conta e basta. Un po’ serve a calmarlo. Forse gli ricorda il tizio che era prima di mettersi in testa di essere qualcun altro. Prima di mettersi in testa di essere un domatore di leoni, o qualunque cosa sia.
Ne conta a centinaia prima di trovare il coraggio anche solo di prendermi per mano. E quando le stelle finiscono, me la stringe talmente forte da farmi male.
Le prime volte pensavo avesse paura che lo lasciassi. Poi ho capito che quello che aveva paura di sparire era lui.
Ora quella paura gli è passata. Dev’essere così, se dice di volersene andare. O magari l’ha soltanto dimenticata, come una storia che ti cuci addosso fino a dimenticarti che è di qualcun altro, fino a confonderla con la realtà. La paura è scomparsa, come stelle sotto un lenzuolo stropicciato di nuvole.
È pronto a tornare nella gabbia.
“Hai detto che vorresti andartene”.
Ripeto le sue parole. Ci giro attorno, cerco un varco. È una cosa che mi hanno insegnato. È come se lo addomesticassi ogni volta.
La malattia è dentro ogni cosa che dice e allo stesso tempo non c’è e non devo per forza vederla. Trovare l’equilibro è difficile. Ma me la sono andata a cercare in fondo. Se infili la testa dentro la bocca di un leone può anche succedere di ritrovarti i suoi denti sul collo.
“Sì. Troverò un lavoro”, fa lui. “All’Istituto Zoologico. Gli farà comodo qualcuno che pulisca le gabbie”.
Non si ricorda di averlo già fatto, mesi fa.
“È pur sempre un inizio, non credi?” E sorride, mentre lo dice. Non si rende conto che ogni inizio coincide con la fine di qualcos’altro.
Quando l’ho conosciuto parlava poco. Il sorriso era lo stesso però. Qualunque cosa se lo sia portato via, non si è presa tutto quanto di lui.
Quando lo hanno assunto allo zoo per un po’ è andato tutto bene. Nemmeno mi sfiorava l’idea che qualcosa potesse andare storto. Non lo conoscevo affatto, dopo tutto. Era solo un tizio con cui andavo a letto. Laureato in astronomia, cattolico, senza un lavoro. Mi stavo anche innamorando di lui, un po’. A ripensarci è stata la banalità di tutta quanta la storia a fregarmi.
Il lavoro era semplice. All’ora di pranzo i leoni entravano in uno spazio ristretto per mangiare e lui chiudeva la porta. Così aveva libero accesso alla gabbia per pulirla.
Un giorno si sono accorti che la porta era aperta. Appena una fessura, ma abbastanza per permettere a uno dei leoni di uscire. Hanno pensato a un errore. Forse ci ha pensato persino lui.
Anche se la testa è la tua, ci metti un po’ a capire che la stai perdendo.
Poi la cosa ha iniziato a ripetersi e nessuno si è più fatto illusioni.
Lo hanno cacciato. Ma lui continuava a tornare. Si sedeva di fronte alla gabbia. Voleva entrare a tutti i costi.
Un giorno si è spezzato qualcosa e siamo stati costretti a portarlo qui.
Non che adesso lo conosca di più. Quanto a innamorarmi non so. Forse l’amore è come quella porta. Non puoi fare a meno di lasciare uno spiraglio, anche se oltre non c’è nulla di buono.
“Metterò su uno spettacolo”, dice. “La gente resterà a bocca aperta, vedrai.”
E ancora: “Diventerò famoso. Aprirò la bocca a quelle dannate bestie con le mani e ci infilerò la testa dentro, uno di questi giorni. Riesci a vederlo con i tuoi occhi?”
Io no. Io vedo solo che ci perderà la testa del tutto.
La sua stanza al piano di sotto sembra il rifugio di un ragazzino. Un posto segreto, di quelli che tieni nascosti agli adulti, che servono a tenere a bada la paura di diventare come loro. Fino a quando non lo diventi davvero e ti rendi conto che l’unica paura è quella del fallimento e niente di quello che ti può avere spaventato da ragazzo regge il confronto.
Le pareti sono coperte di disegni.
C’è il profeta Daniele dentro alla gabbia. I leoni gli stanno attorno ma non sembrano così interessati a mangiarselo. Un po’ ti fa pena, a guardarlo. O forse sono quelle bestie a metterti tristezza.
Dovrebbe esserci anche un angelo, lì da qualche parte, qualcuno che lo protegga. Ma non c’è. Forse crede di non averne bisogno.
In altri c’è Isaac Van Amburgh.
“Isaac. Come me. Capisci? Si chiama come me”, mi ripete lui ogni volta.
Io nemmeno sapevo chi fosse quel Van Amburgh. Ora la sua storia la conosco a memoria. Pare sia stato il primo a infilare la testa nella bocca di un leone. Cosa cercasse là dentro, non lo so. Ci ha fatto una fortuna con quelle bestie. Per anni la gente è andata ai suoi spettacoli aspettandosi di vedere la sua testa staccarsi dal collo. Ma è morto nel suo letto. Un infarto. Come se gli spaventi che non si era preso nella gabbia fossero tornati indietro tutti insieme, emersi dal nulla come un applauso dal silenzio.
“Il giorno che morirò qualcuno scriverà di me, lo sai?”
Vede già tutta la sua vita, fino alla fine. Come se fosse una storia scritta in un libro. Non importa se è la storia di qualcun altro. O se finirà di farsi ammazzare molto prima di quel che crede.
È così che le cose si combinano insieme, penso guardando quei disegni.
È di questo che sono fatti certi sogni. O certe follie. Il confine è sottile come un foglio di carta.
Storie che ascolti, immagini che ti passano davanti agli occhi, parole che si allungano nell’aria come la frusta di un domatore.
Sul momento sembra che non abbiano nulla a che fare tra loro. Come certe stelle, luci isolate nel cielo. Poi qualcuno decide di unirle con una linea immaginaria e farne costellazioni.
È così che sono i sogni. Unisci i puntini luminosi e con la fantasia ci vedi un leone.
“Torniamo di sotto?”, gli chiedo. E poi lo abbraccio, o almeno ci provo. Lui si stacca come se avesse preso la scossa.
Mi mancano i suoi morsi sul collo, le unghie sulla schiena.
Si accende un’altra sigaretta. Questa volta la fuma fino in fondo.
Delle notti lo sogno. Se ne sta nella gabbia, circondato dai suoi leoni. Fuori dalla gabbia c’è un mondo intero di persone che aspettano. File e file che si perdono fin dove arriva il mio sguardo.
I leoni nella gabbia lo osservano. Sembrano annoiati e aprono la bocca solo per lasciarsi andare a grandi sbadigli.
Mi avvicino alle sbarre e gli chiedo Isaac perché non esci da lì e andiamo via? Fuori è pieno di stelle, non vedi? Non ti va di insegnarmi i loro nomi?
Ma lui dice che il suo posto è lì. E allora capisco. Il mondo là fuori gli fa più paura. Non c’è niente in quella gabbia che possa spaventarlo allo stesso modo.
Forse dovrei parlare al suo medico di quel che mi ha detto, del fatto di volersene andare.
O forse no. Domani ci saranno delle stelle da contare e se ne starà tranquillo.
Magari quella dei due che se ne andrà sarò io.. -
LEG.
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Questo è il primo che leggo . Ben scritto, non c'è che dire, la disperazione della malattia e di chi vive affianco emergono in modo chiaro. Come il tema del leone.
Capisco che la ragazza voglia lasciarlo per paura di farsi trascinare nella follia, ma non ho capito bene quale sia il problema che lo affligge (anche se spieghi che l'hanno internato quando ha cominciato a dare segni di squilibrio); per curiosità mi sarebbe piaciuto conoscere qualche dettaglio in più.
Bravo/a.. -
wyjkz31.
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Ben scritto, hai catturato la mia attenzione fino alla fine.
La pazzia di lui (o quello che è, non sento la mancanza di un approfondimento in questo senso) descritta per gradi come lei l'ha percepita.
Bella l'idea di lui che preferisce i leoni al mondo esterno sia in senso assoluto sia come sviluppo del tema del concorso.
una cosaCITAZIONELaureato in astronomia, cattolico, senza un lavoro.
Laureato in astronomia quaglia con la passione per le stelle, senza un lavoro con il fatto che a lei non sembri strano che un laureato in astronomia lavori allo zoo; ma perché è importante sottolineare che è cattolico?. -
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Che dire?
Ben condotto, descrizioni misurate ma sufficienti per costruirci la nostra storia dentro la tua storia.
C'è un piccolo mondo, in questo racconto, che si snoda al di fuori del testo, nel prima, nel dopo. Oltre.
Questa atmosfera che riesci a creare invita la riflessione.
Grande racconto.. -
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Bravissimo, semplicemente perfetto . -
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Primo racconto che leggo, e visto che di tempo ce n'è a iosa mi prenderò il lusso di leggerli tutti almeno due volte, prima di dire se un racconto mi è piaciuto o meno.
Anche perché, mettendo del tempo tra una lettura e un'altra, si scopre quale racconto ti ricordi meglio, quale ti resta in testa di più...
Ecco, ho la sensazione che questo mi rimarrà in testa per un bel po'.... -
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Il tema è forte. La scrittura – pur con qualche ingenuità, come qualcuno ha notato – esprime una voce propria. “Qualunque cosa se lo sia portato via, non si è presa tutto quanto di lui” “Il mondo là fuori gli fa più paura. Non c’è niente in quella gabbia che possa spaventarlo allo stesso modo.”) Tuttavia vuole andarsene. Serpeggia qui e là un’ansia verso una realtà altra, forse una speranza… “lontano verso la città lampeggia. Non che si veda, dietro a quelle sbarre così alte, ma da qualche parte c’è.” Bravo/a! . -
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tema senza dubbio interessante
direi ben presentato e sviluppato
la narrazione è ottima, ma la ritengo troppa
mi spiego meglio: è vero che pare un flusso di coscienza, come ha scritto qualcuno, ma lo trovo troppo raccontato
ci sono ottime descrizioni, certo, ma due dialoghi in più avrebbero, a mio parere, snellito il racconto
in ogni caso è un lavoro più che buono
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Le vicende narrate dal racconto potrebbero rappresentare anche una metafora sulla libertà. Alla fine il guardiano dei leoni, che aveva preferito rinunciare alla sua sanità mentale, decide di farsi internare visto che lui non può dare la vera libertà ai leoni. O almeno così mi è sembrato. L'unica fuga sono i sogni.
Nel film Instinct - Istinto Primordiale c'è Anthony Hopkins che dice "Vedi, anche se tu aprissi la gabbia, queste scimmie non scapperebbero. Non si ricordano più della libertà, per loro è qualcosa che hanno solo sognato". E lui alla fine sogna, ma all'inizio cerca di regalarla questa libertà ai leoni.
Voglio inaugurare un nuovo modo di commentare e cercherò di completare il mio commento ad una annessa canzone che possa interpretare il mio pensiero e quello che ho visto nel racconto in questione.
Video. -
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Mi piace la perquisizione del cielo, mi piace la conta delle stelle, mi piace questo amore.
Perchè di amore si tratta e l'amore aggiunto alla follia ne fa due di follie, ne fa tre, ne fa mille.
Potrei non leggere più niente, questo racconto è un vasodilatatore naturale per chi non riesce a vivere neppure l'amore normale e si commuove di fronte a quello di un pazzo, o per un pazzo.
Chiudo il libro, per me hai già vinto, amico/a mia.
Ma piantala di scrivere così bene, ci fai morire.. -
Lupoalfa.
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Non so se ha già vinto come ha scritto Tò, ma sicuramente è uno dei racconti più belli.
Si deve aver sofferto per scrivere un racconto come questo.... -
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Mi dispiace, Autore, ma la malattia mentale è un argomento che non voglio-posso trattare. Da quando ho capito di cosa stavi parlando ho letto a volo radente.
Comunque se mi hai colpita così a fondo significa che ti debbo tanto di cappello. Brav. -
ASTARTE.
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Un racconto ben scritto, ma non sono sicura che sia in tema, nel senso che il tema è, diciamo, ingabbiato e improbabile.
Mi viene, comunque, in mente che per qualcuno, semplicemente per caso, potrebbe spuntare una Divina Commedia mescolando le lettere dell'alfabeto.. -
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Non male. Non è tra quelli che mi hanno colpito di più e non mi ha preso sin dalle prime righe. Ma andando avanti mi è piaciuto. Al punto che ho preferito leggerlo una seconda volta, per cogliere ciò che mi era distrattamente sfuggito nelle prime battute.
Non so, mi è parso di cogliere anche un leggerissimo velo di ironia in alcuni passaggi. Non so se è veramente presente, e se è voluto o meno, ma qualunque cosa sia mi ha alleggerito la lettura di questa triste storia.
Anche a me è piaciuto il parallelismo tra la gabbia e il manicomio, agli occhi di chi - forse perché pazzo o fin troppo savio - riscopre la libertà stando rinchiuso, mentre la vera prigione è la fuori, in mezzo alla gente e in mezzo al caos.
Un buon lavoro..