Lied dei Due Mondi

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    Scrivano supremo

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    Un respiro: polmoni che si riempiono dei molti odori della Selva.
    Grandi alberi e germogli, pioppi, querce secolari, virgulti; prati inondati dal sole, ruscelli dall’acqua gelida. I declivi, dolci o aspri, e le pozze d’acqua nelle quali si specchia l’azzurro terso del cielo.
    Il cavaliere incede quieto, la bardatura del cavallo sferraglia come la corazza, gli schinieri, l’elmo: l’acciaio scintillante del quale entrambi sono coperti.
    Risale il pendio, fin oltre il colle, dove la vista supera i boschi di Agaden e spazia alla pianura: si ferma.
    Occhi celesti osservano, senza timore, lo stendersi del paesaggio, la boscaglia, poi le piane. Il verde e l’azzurro. Il giallo dei riflessi sulle pendici dei Monti Aurati.
    Il grigio, dove finisce la natura e inizia l’Orda.
    Occhi si chiudono, occhi si aprono.
    Un cancro che si estende a perdita d’occhio, coprendo la terra stessa, gettando un’ombra troppo lunga verso ciò che resta del Solland.
    Occhi si velano di mestizia.
    Il cavaliere si volta, lento: la figura che lo osserva, in piedi, ha tratti di donna pallidi su di un corpo avvolto da vesti verde erica. I capelli chiari danzano sotto la carezza dell’aria, così l’abito: immoto, denso, sangue scuro e icoroso le bagna il petto e il lato delle labbra cianotiche.
    Sorride, nonostante tutto, e indica il mondo di laggiù, quello che incombe. Vuoto, deserto.
    È solo un momento, un battito di palpebre, dopo il quale lei non c’è più, svanita: Sire Belanner ha già visto quella donna altre volte, negli ultimi mesi, sempre più di frequente. La vede da molto tempo, forse anche da prima che l’Orda calcasse le terre.
    Il tempo delle angustie, dei dubbi, gli orrori, ormai è passato: non ne avanza più per temere l’inevitabile.
    Un’altra donna attende, solenne, apparsa da oltre gli alberi: questa volta non c’è rimorso né dolore nel suo sguardo, solo sollievo.
    Il corpo di lei è candido, fibroso, segnato dalle cicatrici e in parte coperto da un’armatura a scaglie ramate. I capelli, neri, sono raccolti in fasci di treccine simili a esili serpenti.
    Le sue iridi vibrano, esitano, cercano parole che non troveranno.
    Il cavaliere rimuove l’elmo: il suo viso è giovanile sebbene i capelli, chiari e lunghi alle spalle, tradiscano i primi segni del tempo.
    Davanti a loro rivivono, per breve, le glorie del passato: le cariche selvagge alle Falde del Mezzogiorno; la disfatta di Kvalatad il Tiranno alle pendici dell’Ultenberg; i massacri di pirati Illyri e i loro villaggi costieri dati alle fiamme; l’eccidio degli adoratori di Baal sulla catena dei Diez Coronas, i loro idoli abbattuti e gettati alla polvere.
    Sire Belanner smonta da cavallo. Si avvicina con in volto l’amarezza del tempo trascorso che non può tornare. È il Difensore di Marglanna, capitale del Solland; lei è Nemorah-la-Triste, una Ferale, metà donna metà driade: nessuno dei due cederà alla nostalgia.
    Pongono le mani a croce nel saluto dei Due Mondi, il gesto che unifica le genti, che rappresenta l’armonia dei due piani della realtà: l’orizzontale, il verticale. La Vita, la Morte. La Realtà, il Sogno.
    Sono accanto, vicini, forse troppo.
    Le glorie del passato rivivono ora nell’aspetto di due corpi avvinghiati, di riflessi del fuoco su carne lucida e sudata. Di capelli intrecciati. Di labbra congiunte.
    Occhi s’incatenano, una volta ancora, sulla scena di un mondo che volge al termine.

    ***


    L’uomo in tunica e armatura nere cammina in ciò che resta del tempio del Cosmo, distrutto, abbattuto. Il suo volto è squadrato e segnato dalle rughe, i capelli candidi cadono folti sulle spalle.
    Ramiel, il Luminarca del Solland, si ferma innanzi all’ara celeste, alla pala retrostante, affrescata con le imprese dei Guardiani: guerrieri in abiti scuri sotto le cui spade cadono gli empi e i corrotti.
    Ramiel s’inginocchia, la mano guantata brancica la polvere e stringe, in un moto di collera, di rassegnazione: estrae la spada, il suo volto si specchia nella lama, acciaio argentato nel quale si contorcono ancora gli sguardi di decine di eretici, di blasfemi, nell’ultimo istante delle loro miserabili vite. Di mostri e aberrazioni. Le iridi di due bambini, figli impuri di un demone femmina, sono l’ultimo ricordo che balena tra le concavità dell’acciaio. Occhi che gli ricordano quelli di Alysia, sua figlia minore, portata via dai razziatori. Una figlia che lui non era lì per difendere. Una figlia il cui ricordo brucerà nel cuore fino alla fine dei giorni, i pochi che restano.
    Ramiel vorrebbe chiedere agli dei una risposta per quanto sta accadendo, ma la risposta egli la conosce già.
    Il tempo dei Due Mondi è alla fine, l’Orda li renderà Uno soltanto. Un corso di eventi per il quale tutti loro sono responsabili, in egual misura. Per il quale pagheranno il prezzo più alto.
    La spada s’infigge con forza nell’altare: l’ultima preghiera del Luminarca è che un giorno la Vita possa rinascere sulle ceneri del passato.

    ***


    Gridano incitandosi, affrettandosi, i guerrieri Hun nelle loro leggere armature ornate. Imprecano, febbrili, caricando cavalli e bighe col poco che possono salvare dall’insediamento che stanno abbandonando.
    Zhilong ha venticinque anni, denti serrati e volto truce mentre assicura alla sella l’ultima bisaccia di pemmican; continua a voltarsi, mormorando, verso la sua tenda che non c’è tempo di smontare, verso il bottino accumulato in anni di razzie, di incursioni, che ora giace lì, lucente, meraviglioso, e non potrà portare con sé.
    Le corti del Solland, di Glentora, di Auraia chiamano lui e la sua gente predoni, assassini, fuorilegge, ma Zhilong ripete a se stesso che egli è solo un uomo libero, e la sua gente è libera come lui, anarchica, senza padroni, senza leggi scritte, senza dei.
    Il cuore gli si gonfia e sanguina al pensiero di dover lasciare tutto, un’esistenza intera, quanto ha accumulato in anni di gloriose schermaglie, facendosi un nome tra la soldataglia dei regni, decorandosi con sfregi e cicatrici, con la vita quasi perduta ora sulla punta d’una lancia degli ussari, ora su quella d’una freccia nero-piumata dei ranger di Vitria. Fu l’unico a uscir vivo dall’imboscata dei trapper di Czara, quando i suoi due fratelli e tre dei suoi cugini furono dilaniati dalle piro-bombe dei loro assalitori.
    Zhilong balza in arcione con un gesto elegante, grida ai suoi di far presto, di lasciare tutto ciò che non è indispensabile: l’Orda si avvicina.
    Il suo ultimo sguardo, nella tenda rimasta aperta ed esposta come il sesso d’una femmina lasciva, è per Mei-Mei: la giovane nobildonna che ha fatto sua schiava durante i raid nel Solland delle stagioni passate. Piange e supplica, Mei-Mei, di non essere lasciata lì, chiusa in una gabbia per animali come lui ha amato umiliarla.
    Zhilong preferisce guardare altrove, inquieto, agitare la propria lancia incitando i suoi a sbrigarsi: i passi dell’Orda, migliaia e migliaia di piedi in marcia, si sentono persino nel trambusto e nella concitazione di quei momenti.
    Zhilong non ha mai combattuto un nemico che sa di non poter vincere.
    Zhilong non ha mai avuto pietà per un avversario sconfitto, o un supplice, e neppure per le donne non abbastanza belle da diventare schiave. Non ha mai provato misericordia per le genti dei regni, coloro che sono il suo nemico giurato, uomini, donne, bambini che siano.
    Trattiene il destriero che scalpita irrequieto, gridando e incoraggiando i compagni, finché i suoi nervi non cedono: dà di sprone mentre i primi soldati dell’Orda già compaiono dall’ala est dell’accampamento.
    Zhilong galoppa tra gli ultimi dei suoi che ancora si attardano a portar via beni e bottino, ben sapendo che fuggire allungherà solo l’agonia: non c’è rifugio dal male che divora le terre.
    Forse è questo, un residuo di coscienza, un pungolo ancestrale, che lo porta a fermare la cavalcatura, a invertire la direzione. Con la morte nel cuore, Zhilong torna alla tenda che fu la sua reggia per aprire quella gabbia e lasciare libera Mei-Mei.

    ***


    Non c’è da avere paura, sussurra Friedel Roth a Imir, il ragazzino che gli siede accanto. Friedel ha ormai passato i cinquanta, il suo viso è scavato e la barba gli sporca i tratti, anche se, Imir dice, lo fa sembrare ancora più un Tecno-Pioniere.
    Non c’è da avere paura, poiché l’Orda non supererà mai le meraviglie tecnologiche con le quali egli ha protetto la loro modesta torre: il ragazzo sorride, cullandosi in quella certezza effimera, per credere che la vita potrà durare ancora un po’.
    Friedel non ha mai avuto una moglie, e neppure dei figli, ma da quando ha incontrato Imir ha sentito quel richiamo, quel senso d’esser padre, che la natura gli aveva sempre negato.
    Imir ha undici anni e la pelle nera; è fuggito dalla Battriana devastata, dalla sua casa in fiamme e dai suoi genitori inchiodati vivi alle travi del tetto, ma non ha trovato nessuno che lo accogliesse: nessuno eccetto un vecchio inventore senza affetti.
    Non c’è da aver paura, insiste Friedel girandosi tra le dita sfere di ferro grosse come noci: sono una delle sue creazioni più riuscite. Piro-bombe che scoppiano all’urto, deflagrano spazzando via anche un cavaliere in armatura pesante: i più feroci guerriglieri sono caduti sotto la carezza rovente del suo genio, e molti sono i potenti che ne hanno acquistate per le proprie truppe.
    Quand’anche l’Orda arrivasse, detonerebbe sotto una cascata di proietti, che loro due lancerebbero a piene mani, come bambini, dalla terrazza più alta della torre.
    Ride, Friedel, cullandosi nella menzogna consapevole. Ride per non mostrare quella lacrima che cerca la strada tra i suoi occhi cisposi.

    ***


    Era tutto scritto, sibila tra i denti Elantra Biancomanto, regina della Seleucia Meridionale. Il suo volto, ferino, algido, è armonia perfetta con il candore dell’armatura, del cavallo, dei sontuosi paramenti, del diadema cornuto che ostenta fiero sopra il capo.
    Guarda le terre dalla rupe più alta dei Coronas.
    Il disastro poteva e doveva essere prevenuto, immaginato, compreso: una natura razionale, la sua, abituata al freddo calcolo. Elantra ha guidato per anni la sua crociata errante, ha condotto truppe e squadroni alla ricerca del sapere, senza pietà alcuna per chi le si è opposto in nome dell’onore, del calcolo o del caso.
    Si era sentita vicina, mesi addietro, quando aveva invaso la Battriana, individuato lo stregone Bantho cui aveva dato la caccia per anni: quando ha distrutto il suo villaggio, ucciso la sua famiglia e torturato lui, fino alla morte, per estorcergli la verità.
    Una verità che le ha tolto il sonno, consegnandola al livore della sconfitta finale, la consapevolezza della fine, del disastro che non può essere evitato.
    Elantra pone le mani nel saluto dei Due Mondi, una per lungo, una di taglio: il simbolo dei due piani della realtà, quello orizzontale dei Vivi, quello verticale dei Morti, intersecati a metà esatta, come assi che si incontrano lungo un’unica, impercettibile linea. Un equilibrio perfetto che l’artificio di antichi dei aveva reso meccanico, come un orologio, come un’opera d’ingegneria.
    Un equilibrio che gli esseri senzienti hanno poco a poco eroso fino a distruggerlo.
    Per seimila anni le razze degli Uomini, delle Driadi, dei Coboldi e degli Azuré si sono mosse guerra, tra loro o contro i loro simili.
    Per seimila anni le genti hanno risolto qualsiasi contesa con le armi, con l’eccidio, con le operazioni belliche. Regni sono nati e caduti, così città, regioni, interi popoli.
    Per seimila anni i Vivi hanno continuato ad inviare un flusso costante di propri simili ai Morti, senza dare alla natura il tempo di riassorbire le loro entità e continuare il ciclo dell’esistenza.
    Per seimila anni il piano Verticale si è gonfiato sotto i generosi invii dei viventi.
    Adesso, Elantra increspa le labbra, amara, è saturo. Ha raggiunto il punto di rottura.
    In alto sopra le distese della Seleucia, stringendo gli occhi si può scorgere la linea di congiunzione tra i due piani: è come un secondo cielo, color ametista, che s’intravvede di sbieco, per qualche istante e solo da determinate angolature, in contrasto con quello azzurro e terso del mondo dei Vivi.
    Non occorre sforzare la vista per vedere il flusso di anime che cade, cade come una cascata, dalla frattura che attraversa in verticale l’aria. Sono figure umane, incolori, che precipitano dalla volta come fossero acqua, riversandosi infinite, incarnandosi al contatto con la terra e riempiendo la pianura, coprendola con un manto grigio e informe, fatto di ciò che un tempo furono esseri viventi e ora solo una loro parodia.
    L’Orda. I Redivivi.
    Anime morte che si ritrovano nel mondo opposto, animate dallo stesso imperativo che avevano in vita: combattere, uccidere, muovere guerra eterna.
    Elantra sorride appena, cupa, toccata nel profondo dall’ironia che giace dietro quel flagello: che fossero vittime o carnefici, i Morti sono soltanto Morti; non c’è ragione nel loro operato, non c’è scopo, non c’è consapevolezza, solo l’eseguire passivo di quegli istinti ferini che sono propri degli Uomini e di tutte le altre razze senzienti.
    La guerra.
    Eterna, perfetta, infinita guerra.
    E i Morti di seimila anni sono abbastanza da ricoprire le terre, un’armata immensa che continua ad emergere dalla frattura, senza sosta, da mesi. Gli eserciti delle nazioni e dei regni si sono coalizzati, hanno marciato uniti: invano.
    Non puoi sconfiggere un nemico che è infinito, un nemico che ottiene un nuovo soldato per ognuno perso dai suoi assalitori: un paradosso di squisita, orribile crudeltà.
    Non c’è rimedio a questo male, non c’è vittoria contro se stessi e le proprie colpe. Il proprio passato.
    Il mondo dei Vivi si è infine rassegnato.

    ***


    Forse l’incontro voluto, cercato, non è che un pretesto per illudersi, pochi momenti soltanto, che ci sia ancora del buono nella fine dei tempi. Gli Uomini e le altre razze del creato sanno odiare ma in fondo anche amare, e loro ne sono stati un segreto esempio.
    Sire Belanner non crede e non ha mai creduto in una via diversa da quella della spada: ma molte delle sue certezze sono svanite di fronte alla donna, la guerriera, che ha innanzi, per la quale ha fatto molto, ma non abbastanza.
    Rimembrano in poche e delicate parole quel che fu, e che non tornerà. Passione, o come può esser chiamato il sentimento che li ha uniti, malgrado l’affronto che essi rappresentano.
    Nemorah-la-Triste ricorda il voto di disamore, quando entrambi i suoi figli sono stati passati a fil di spada dai Guardiani e i loro armigeri nerovestiti. Quando un pezzo della sua anima è morto con loro. Solleva la corazza e la scarna veste per mostrargli il petto, lì dove un tempo tondeggiava il seno e ora solo due grandi cicatrici a guisa di croce: l’amputazione rituale, un segno di vergogna, di madre sconfitta. Di innocenza perduta.
    Il loro ultimo abbraccio è coronato dal sole che scende nel tardo pomeriggio e, si dice, non sorgerà di nuovo.

    Il destriero trotta, inquieto, tra le rovine invase dall’edera che furono un posto di guardia. La natura, intorno, ha i suoni dei volatili e degli insetti più melodiosi.
    Sire Belanner ha l’elmo indosso ma le armi nel fodero: sa chi lo aspetta, ormai da molto.
    La donna dal vestito verde è lì, incorniciata da un architrave ormai corroso dal tempo, le mani in grembo e lo stesso sangue scuro, limaccioso, a insudiciarle l’abito. La ferita aperta sul costato.
    Si dice che l’Orda, i Redivivi, appaiano ai viventi come una sequenza infinita di volti e corpi senza identità, tutti uguali, la pelle del colore della cenere, avvolti in armature che non rispecchiano quelle di alcuna nazione, oppure le ricordano tutte assieme.
    Ma si dice pure che ogni singolo Redivivo in realtà appaia come chi era in vita agli occhi di chi lo aveva conosciuto, per aggiungere dolore e lutto alla catastrofe che incombe: Sire Belanner sa, da molto ormai, che questo corrisponde al vero.
    Il cavaliere ha solo un chinare del capo, amaro, verso l’ombra che fu sua moglie.
    In quegli occhi di donna, velati, non c’è rancore, né rabbia. Non c’è dolore: solo l’attesa indifferente del tempo che ancora manca. Un tempo che, Sire Belanner promette, sarà breve.
    Non c’è vendetta né perdono sul volto di lei, come non avessero più importanza un marito infedele, una morte prematura, un figlio mai nato.
    Una vita che aveva sognato con lui, durata troppo poco.
    Mani d’uomo guantate di ferro, premurose quanto spietate nel prendersi la vita dei nemici del Solland.
    Nel prendersi la sua: per restare libero, per amare, stavolta forse davvero, un demone femmina. Una Ferale.
    Se c’è una lacrima sul volto del cavaliere, l’elmo la porta via nell’incavo della celata.
    La fine incombe, ma forse è giusto così.

    ***


    Il sole cala in un tripudio di colori caldi, si dice per l’ultima volta.
    L’Orda è un mare infinito, che conta milioni, miliardi di cadaveri che imitano la loro vita perduta. Miliardi di guerrieri senza causa e senza bandiera che camminano, privi della fretta che avevano da vivi, per muovere guerra a qualsiasi creatura senziente incontrino sulla via.
    La pianura volge al termine prima di eclissarsi nei boschi di Agaden, il fiume Ventoso scorre placido, silente, colorato dell’arancio del crepuscolo.
    Un singolo cavaliere in armi, la lancia tenuta alta, attende poco prima del limitare degli alberi. La sua corazza argentea scintilla nella luce, così diverso dal grigiore informe dell’Orda.
    Sire Belanner non teme l’ora finale.
    Sire Belanner non è solo.
    Al suo fianco, due spade ricurve nelle mani, una Ferale osserva sprezzante il cancro che consuma il mondo: neppure lei ha paura.
    I boschi di Agaden fremono al passaggio di uomini armati, rilasciano il candore di un’ala di cavalleria mentre la regina Elantra e la sua Bianca Crociata prendono posizione nella piana.
    A destra, un guerriero in armatura nera appare dalla selva, tra le mani l’antico sigillo dei Guardiani e una spada lucida quanto uno specchio.
    E poi ancora, più oltre, una torma di guerrieri Hun traversa il declivio e agita le lance in una cruenta, bellicosa sfida: li guida un ragazzo sfregiato.
    Non c’è nulla che quella forza improvvisata possa fare contro il più grande nemico nella storia dei Due Mondi, un nemico che in fondo è solo l’altra faccia di loro stessi. Un nemico tra i cui ranghi ci saranno volti e nomi che tutti loro avranno già incontrato, e sconfitto, in un altro tempo.
    È il paradosso, l’ironia, che antichi dei o chi per loro ha sancito per porre fine ai Due Mondi, unificarli in Uno soltanto.
    Un mondo nel quale non c’è più guerra, dove i Morti non possono che spendere l’eternità in pace, indifferenti, assenti, vuoti.
    Soli.

    Da qualche parte a sud del fiume, uno stagionato inventore e suo figlio adottivo ridono e scherzano mentre lanciano dalla terrazza piro-bombe sui Morti affollati ai piedi della torre, e commentano questa o quella esplosione, quei grigi fantocci che saltano in aria e si smembrano spargendo lapilli in nuvole.
    Ridono anche quando le piro-bombe finiscono e si passa ai fuochi-di-drago, che inceneriscono decine di loro alla volta; e poi le sfere polarizzate, che scagliano fulmini sinuosi tra i ranghi dell’Orda e abbattono ora cinque, ora dieci avversari alla volta.
    Friedel ride, perché gli dei gli hanno concesso l’amore di un figlio, a lui, che l’amore non l’ha mai conosciuto. Ride, col ragazzo, anche quando il portone cede sotto i colpi dei Redivivi ed essi si riversano su per le scale un distorto passo alla volta.
    Ridono, entrambi, perché è l’ora del più grande trucco pirotecnico, quello che lui aveva promesso a Imir ormai da tempo.
    Basta un tocco dell’acciarino, sorride Friedel, con le lacrime in viso e non solo per il gran ridere: un tocco e le polveri s’accendono.
    Tiene la mano di suo figlio mentre la porta della terrazza cade e i fantasmi di carne dell’Orda arrancano verso di loro.
    Solo un attimo di vuoto, un attimo nel quale le orecchie fischiano all’impazzata, poi la torre deflagra in un fungo di fuoco e con essa tutti i suoi occupanti.

    Non occorrono squilli di tromba o grida d’incoraggiamento: Sire Belanner abbassa la celata poi la lancia, e dà di sprone. La sua è una cavalcata liberatoria, un’ultima corsa incontro al sole che cala. Nemorah-la-Triste corre al suo fianco, i passi quasi non toccano l’erba, viticci e steli fremono al suo passaggio.
    Ramiel il Luminarca incede nella pesante armatura, intorno a lui vibra e si contorce l’aria, preghiere scandite con voce stentorea lo ammantano di luce e rettitudine, nei suoi occhi brucia l’ultimo fuoco dei Guardiani.
    Come una bianca marea, la crociata errante segue la propria regina, Elantra Biancomanto, nella carica finale.
    A destra, la disordinata ressa degli Hun si getta all’assalto con grida di guerra stridule, i paramenti a ronzare nel vento: Zhilong lo sfregiato non vuole più bottino, solo gloria. Effimera, inutile gloria.
    Le ultime genti del Solland sono stanche di scappare: non c’è rifugio dall’Orda, dalla fine del loro tempo.
    Le ultime genti del Solland caricano selvaggiamente milioni di Redivivi ammassati nella piana, unico scopo quello di abbatterne il più possibile prima di spegnersi per sempre. Prima di unirsi a loro.
    Le ultime genti del Solland salutano così la propria esistenza, facendo l’unica cosa che hanno sempre saputo fare: combattere.
    Fare la guerra.
    Morire.

    Il sole cala, il crepuscolo irradia le terre. Nello spazio di un paio d’ore torna il silenzio alle pendici dei boschi di Agaden.
    I Due Mondi sono diventati Uno.
     
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    Il tema è indubbiamente centrato: hai proposto una storia avvincente con una trama complessa.
    Personalmente ho fatto molta fatica a seguirne lo svolgimento: il linguaggio (volutamente) pesante mi costringeva a procedere parola per parola per non perderne il senso.
    L'assenza di dialoghi da una parte lo rende un testo molto particolare ma, nel contempo, non ha aiutato la lettura.
    La storia è descritta vividamente, tanto che la si può facilmente "vedere" con gli occhi della mente, ma lo stile narrativo non è nelle mie corde.
    Comunque un gran bel lavoro.
     
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    Questo racconto è una specie di grandioso affresco, pieno di cose, di persone, di descrizioni da cui mi sento sopraffatta e in cui io, sinceramente (limite mio, lo ammetto) mi stanco e mi perdo. Capisco che il tutto è fatto e scritto in modo voluto e consapevole, con una buona perizia tecnica, ma, per i miei gusti, c’è troppa roba, e io mi devo mentalmente sforzare per starci dietro, non riesco ad abbandonarmi al piacere della lettura.
    Il pezzo che fila via meglio è quello centrale della spiegazione di ciò che sta succedendo.
    L’inserimento di elementi del “nostro” mondo (pemmican, ussari, ranger, trapper) mi ha fatto a tratti pensare a un’ucronia.
     
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    Sono d'accordo con Stefia e Arianna. Racconto veramente notevole (wow!) ma la vicenda complessa, i tanti nomi e la ricchezza delle descrizioni mi hanno costretta a rileggere più volte il testo per apprezzarne ogni particolare.
     
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    Che goduria! Bellissimo. Avevo i brividi a fine lettura, eppure invece di leggere commenti entusiastici leggo di persone perplesse. Il che rende perplesso anche me. Insomma, in questo step si deve votare il più bel racconto fantasy, giusto? E questo è un racconto Fantasy, con la F maiuscola. Ha tutto, è epico, coinvolgente, lirico, eroico, i personaggi sono completi, precisi, netti. È addirittura riuscito a rielaborare in chiave non banale un tema abusato come quello dei non morti. Che altro si deve volere da un racconto fantasy?
     
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    Penna furiosa

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    Sotto il profilo del contenuto e dell’articolazione della trama, il racconto consta di più parti non perfettamente amalgamate tra loro: Il cavaliere Balomer/la preghiera di Ramiel/i guerrieri di Hun/Friedel e ‘mir/Eleutra e l’orda dei redivivi.
    Il testo mi lascia l’impressione di un progetto di scrittura per un bel romanzo fantasy e, in effetti, per raccontare quanto hai sintetizzato, sarebbe stato necessario più spazio. Avrei anche talune perplessità sullo stile, specie nella prima parte, dove a un ritmo lento fa riscontro una sintassi ”sincopata” fatta di frasi brevi e spezzate (immagino per economizzare le battute) e l’utilizzo di ripetizioni: “occhi che: /si chiudono/si aprono/si velano di mestizia/si incatenano/ricordano…”
    In definitiva, pur ritenendo valida l’idea, non ho apprezzato molto la realizzazione.
     
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    Scrivano supremo

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    Ciao Aut-

    Innanzitutto complimenti per aver scelto di scrivere un High Fantasy. Lo stile è molto lento e tutto orientato alla narrazione. Dato l'elevato numero di personaggi e l'assenza di dialoghi, l'effetto risultante è che sembra il riassunto di un romanzo. Ho notato gli accenni ad alcune mitologie che più o meno conosco quasi solo per nome, mi fa pensare che forse le citazioni sono molte di più di quelle che ho colto. Forse ci sono anche allegorie, hm... Devo rileggere sulla base di questa intuizione estemporanea: forse ogni episodio è l'allegoria di un continente? Chissà. Dal testo in chiaro non si evince, tra le righe (ma molto tra le righe) forse sì.

    Un esempio di come la compressione del racconto sia andata a discapito della trama: accenni a tre diverse specie senzienti ma il racconto è umanocentrico. Gli altri senzienti ci sono, ma sono rimasti nella tua testa per mancanza di spazio.

    Ecco cosa mi scrisse Asbottino l'anno scorso, riguardo il mio racconto per INK 1:

    CITAZIONE (asbottino @ 19/11/2016, 11:33) 
    Romanzo compresso a forza. Non è un problema della forma racconto: è che sono due cose diverse. Due campi da gioco diversi. Forse addirittura due sport diversi. C'è grande talento, qui, abilità, una visione ampia, ma il tutto è applicato a qualcosa che invece dovrebbe vivere di piccoli sguardi, di poche parole che pesano come macigni.

    Lo riporto qui proprio perché è ciò che penso di questo tuo racconto.
     
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    Penna suprema

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    Concordo con Achi, e poi la bravura esagerata allontana il lettore, lo intimidisce, lo annulla,
    non riesce a identificarsi con niente.
    Qualche anno fa in un paese vicino Roma vinsi una gara di corsa con notevole distacco.
    Gli organizzatori rimasero talmente sorpresi da non volermi premiare, per loro ero un fuoriclasse
    che non avrebbe dovuto gareggiare con i miserabili corridori locali.
    Gli scrittori di SPS non sono miserabili, e tu, autore, meriti ogni lode, ogni premio.
    Perché stai superando gente forte.
    O che almeno pensa di esserlo.
     
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  9. Foglia nel vento
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    Innanzi tutto ti faccio i complimenti per il modo in cui scrivi: lo trovo stupendo.
    Mi trovo d'accordo con Akimizu: questo è un Fantasy con tutti i crismi.
    Il limite è quello degli altri bei racconti di questo step, ovvero il numero dei caratteri. Hai inserito una magnifica serie di personaggi e ognuno avrebbe meritato approfondimento maggiore, anche riguardo al "vissuto". Così sono molto, molto sacrificati. A mio avviso, qui siamo addirittura a livello di saga. La citazione più ovvia riguarda ovviamente "Game of thrones": per il resto, qui, di ovvio non c'è nulla.
     
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    Penna furiosa

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    Pur non essendo un esperto di genere devo dire che "tecnicamente", per come è impostato è il racconto più a tema. Certo che l'assenza di dialoghi, le descrizioni minuziose e il susseguirsi di vari personaggi rendono palesemente ostica la lettura e questo è il grosso limite di quest'opera. Tuttavia ci tengo a ribadire nuovamente il mio apprezzamento per la sicurezza e competenza che hai dimostrato nel dare vita ad un lavoro così complesso.
     
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    Tanto di cappello ad uno scrittore così bravo! Anche se il fantasy non è il mio genere, ho apprezzato molto questo racconto che dice tanto da molti punti di vista. E' una specie di cattedrale costruita da un ottimo architetto Lo rileggerò per capire e gustare come merita. Intanto: complimenti.
     
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    Teropode assennato

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    Un lavoro certamente ispirato ai grandi classici dell'high/heroic fantasy.

    Quello che mi ha colpito è la presenza di un elemento che collega, in circolo, tutte le vicende dei vari personaggi.
    Tolto la prima, quella del cavaliere e della driade,
    - nel pezzo del Luminarca si menziona una figlia rapita dai predoni;
    --> nel pezzo dei predoni compare una ragazza aristocratica diventata schiava (a posteriori immagino sia la figlia del Luminarca) e si fa menzione alle bombe che hanno ucciso i parenti di Zhilong;
    --> nel pezzo successivo compare l'inventore delle suddette bombe con un ragazzino di pelle nera che ha perso la famiglia durante un massacro;
    -->nel pezzo successivo la regina ricorda il massacro di uno stregone dalla pelle nera e la sua famiglia per ottenere la verità sui due mondi;
    --> infine si ritorna al cavaliere e la driade, e quest'ultima rammenta i suoi due figli uccisi dai Guardiani, che sono gli stessi menzionati nel pezzo del Luminarca (che nella sua spada rivede i due volti di bambini "figli di un demone femmina").

    Tutti i personaggi si ritrovano poi nella battaglia finale.

    Ha ragione Achillu, ci sono cose nascoste tra le righe, la faccenda dei continenti potrebbe avere il suo perché.
    Molto molto fantasy e da rileggere con occhio critico, cosa che rifarò.
     
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    Fante, credo che tu abbia reso un grande servizio all'autore, trovando la traccia del filo rosso che unisce i diversi quadri. Hai reso il racconto più leggibile a tutti noi, quindi anche più apprezzabile. Io avevo percepito che dietro c'era un disegno unitario, ed era evidente che tutti i personaggi si ritrovassero poi nella scena finale, ma ci voleva il tuo occhio molto più attento e la tua rilettura più di fino per prendere in mano gli accenni, in ogni scena, ai collegamenti.
    Avevo già scritto che in questo pezzo c'è della perizia tecnica; aggiungo che è molto "intellettuale", richiede al lettore un certo impegno, considerato che richiede alla mente del lettore di fare avanti e indietro, di viaggiare tra eventi complessi, che sente nominare per la prima volta, senza perdersi. Allora, forse, sarebbe necessario sfrondare un po' il fitto bosco, per poi cogliere meglio certi dettagli, che magari si perdono nell'insieme, per cui si trae dalla lettura una certa sensazione di affaticamento.
    Però, ci tengo a ribadirlo, bella tecnica, grande perizia nel tenere in mano il tutto (io certe cose non riuscirei mai a scriverle).
     
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    Ho voluto rileggere dopo la “dritta” di Fante.
    Cosa abbiamo in definitiva? Una serie di “pezzi” che lasciano trapelare alcuni indizi attraverso i quali è possibile ravvisare un collegamento. Opinabile ma, diamo per scontato che ci sia un legame, il racconto è un enigma da risolvere?
    Tocca al lettore il disvelamento di parti nascoste?
    Chiaro che non tutto può essere esplicitato, ma qui i vuoti sono troppi.
    Difficile da digerire questa trama “sbocconcellata” in poco spazio, priva di dialoghi e affidata a descrizioni su descrizioni – ben curate nella forma, per carità – però il contenuto rimane vago.
    Un altro difetto: il finale è anticipato fin dall’unizio.
    “Il tempo dei Due Mondi è alla fine,
    l’Orda li renderà Uno soltanto… l’ultima preghiera del Luminarca è che un giorno la
    Vita possa rinascere sulle ceneri del passato.”
    L’idea è buona, ma la storia mi sembra ancora da scrivere.
     
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    Penna suprema

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    E qui siamo davanti al rischio che ritenevo concreto in questo step.
    L'Autore dimostra inequivocabilmente di sapersi muovere nel genere: è a proprio agio, ha scritto altre volte fantasy, di sicuro lo legge abitualmente.
    E proprio per questo la mannaia delle ventimila battute si abbatte sciaguratamente sopra di lui, senza pietà.
    Premettendo che il racconto risulta quasi illeggibile per un non amante del genere o comunque per chi non ne ha dimestichezza (ma di questo ci deve importare quasi nulla, visto che lo step è dedicato al fantasy e chi c'è si accolla l'onere), la compressione di un intero mondo fantasy così ben presente nella tua testa non riesce a emergere nelle battute a disposizione; e così, da un lato abbiamo chi è arrivato a fatica alla fine, più per obbligo di Regolamento che per proprio diletto, mentre dall'altro lato abbiamo chi è deluso dalla velocità quasi pressappochista con la quali dipani tutto il plot, negando giustizia ai tuoi personaggi e agli eventi che narri.
    E io devo penalizzare quello che forse è il racconto più fantasy di tutto lo step per via di una trama non godibile nello svolgimento e per dei personaggi buttati via.
    Però non lo so se lo penalizzerò davvero... :diavolo.gif:
    :appaluso:
     
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