Scrittori per sempre

Votes taken by allerim 4

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    Grazzie Mangal!

    Grazie (vedi con che forza ho digitato)
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    La prima parte mi è piaciuta: bello il sogno premonitore di Gran Canyon, che precede il parto tragico di Tabita. Drammatico e raccapricciante (con venature horror) l’episodio dei due fratelli.
    Dopo la cacciata di Queho dal villaggio, il racconto perde mordente. Vuoi per lo stacco temporale, vuoi per il rapido cambiamento di scena. Mi sembra che ne soffra anche lo stile dell’esposizione.
    La seconda parte (1919) presenta - a mio avviso - due difetti: il lungo elenco delle vittime di Queho; e l’inutile riassunto di quel che già sappiamo da parte del capo villaggio (nel corso della visita dello sceriffo al campo.) L’atteggiamento di Wait sembra distaccato e invece quello poteva essere un momento di grande emozione.
    Segue un altro salto temporale che descrive il ritrovamento dei resti di Queho; Dalle foto viste su internet, constato che la ricostruzione della grotta, degli oggetti e dei resti umani è fedele. Allo sceriffo rimane il dubbio sulla sua paternità.
    Forse bisognava avere più coraggio e romanzare la vicenda (il rapporto padre- figlio, qui inesistente e ridotto al flash di un’apparizione), ma quando ci si ispira a un fatto vero, la fantasia è frenata dalla preoccupazione di falsare la realtà.
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    A me questo racconto è piaciuto molto per la struttura ma anche per la tensione narrativa che riesce a creare.
    Giocato sul non detto, si avvale dell’espediente efficace del telegramma di tre parole (la terza parola compare già nell’esordio) Da subito l’attenzione del lettore è allertata per cercare di risolvere l’enigma: chi lo ha mandato, e perché. Lo scoprirà poco per volta.
    Il momento clou si ha quando Jake getta il fucile al “lavapiatti” del saloon. Lì si capisce che c’è un rapporto tra i due (anzi si conoscono molto bene: «Se sbaglia un solo centro, pago da bere a tutti.») e che Nathan è l’autore del telegramma.
    Vero che non c’è la sparatoria, ma il piano per liberare il paese dai banditi è esposto: “Qualcuno spara prima a chi sorveglia la baracca con gli ostaggi. Fa fuoco di copertura, mentre gli altri si prendono le armi delle sentinelle, poi vanno a riprendersi anche le vostre. Sapete dove le tengono, vero?» Gli spari non li sento e non mi mancano.
    Non mi chiedo cosa vogliano i banditi, perché facilmente intuibile, mentre è lo stesso Nathan, ormai rivelatosi come sceriffo, a dire perché i banditi hanno preso gli ostaggi: «E se prima di andarsene decidessero di non volere testimoni? O di avere bisogno di qualche ostaggio per coprirsi la fuga?». Insomma, non mi pare si possa parlare di vuoti nella trama; c’è un’ellissi, questo sì. Si tratta di una tecnica usata da molti autori. Non si può dire tutto nemmeno in un romanzo, figuriamoci in un racconto.
    Qualcuno si è chiesto chi è il “lavapiatti”(alias Jake) un amico, un collega? La risposta si ha nell’ultima parte del racconto, dove si tocca con mano il rapporto profondo che lega i due. La nudità del corpo, segnato dalle sevizie degli aguzzini, svela i trascorsi drammatici di cui Jake è stato vittima. Non è un’altra storia, è un flash, un approfondimento, più che una storia nella storia (cosa che comunque non mi sarebbe dispiaciuta affatto). Mi piacciono da morire i racconti dove si parla di una storia per raccontarne un’altra.
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    Il racconto entra nel vivo nella seconda parte, (duello – vendetta) (Bennet Tolbert) la parte migliore per azione e intreccio.
    La prima parte è giocata sul cavaliere solitario e sull’interesse che il personaggio desta in Virgil. Francamente non mi soddisfa, perché trovo tutto esagerato. Certo, uno che spara per aria come un pazzo di primo mattino, non può che destare attenzione. Un tipo da starci lontano, però, non certo da farselo amico. Nemmeno dopo che il cavaliere gli ficca la pistola in bocca, a Virgil passa la voglia di conoscerlo meglio.
    Anzi, tralascia pure gli affari e la moglie pur di dedicarsi al nuovo venuto. Tanto accanimento non mi pare motivato. Anzi più che accanimento, per esplicita affermazione del protagonista, è un’ossessione. Ma generata da cosa, non è dato sapere. E forse bisognava inventarselo un motivo.

    Trovo anche un po’ strano che questo “duro” si apra con tanta facilità a uno sconosciuto e ancora più strano che Virgil consideri Clay un amico. Il giorno prima non si conoscevano!
    Non so, la cosa mi convince poco. Si può provare attrazione, interesse, curiosità, simpatia, ma come considerare amico un estraneo con cui non si è condiviso nulla?
    Nel complesso, la storia non è male. Ma non mi entusiasma, come altri racconti che mi hanno letteralmente affascinato.
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    Questo pezzo andrebbe recitato a teatro con i personaggi che si alternano sul palcoscenico, le luci, la musica e gli apparati di scena. Se lo leggo come una sorta di sceneggiatura, dico che è una storia drammatica, affascinante nel suo crudo realismo, eppure non priva di un pizzico di poesia. Ma se lo leggo come racconto trovo la lettura pesantissima per l’alternarsi di sette, otto voci senza soluzione di continuità. C’è un po’ di confusione; la punteggiatura non aiuta. Piuttosto avara o in eccesso. Spazio e tempo si spostano avanti e indietro a scapito della compattezza strutturale del narrato, mentre l’azione rimane affidata alle “voci”. Insomma, faccio fatica a considerarlo un racconto e a gustarlo come tale.
    Però è una bella trama; da non abbandonare. C’è una rabbia furiosa che si scioglie in atti di efferata violenza, ma una violenza “genuina” che giustifica la trivialità del linguaggio. Si tratta di trovare la forma di scrittura più adatta a valorizzare la storia, curandone la grafica per una fruizione più immediata del testo.
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    Grazie Ele per la stima che ricambio. Buona domenica. Felicità!
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    Io ti perdono, Tom – nonostante la scorza dura, ho spalle larghe e grande cuore – perdonati anche tu.

    Viv, era un modo di scusarsi.
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    Grazie per gli applausi!
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    Augurissimi SupeRiccardo, felicità!
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    Congratulazioni vivissime e un abbraccio di quelli che ti sollevano tre palmi da terra!
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    Torno su questo racconto perché mi sembra ingiustamente sottovalutato. Dissento dai commenti che insistono sulla “confusione” della parte iniziale, perciò mi soffermo sull’incipit.

    L’esordio comincia con un’invocazione che potrebbe essere pronunciata da una qualunque (o da più di una) delle prigioniere del tempio, “le risposte all’invocazione furono cattive…”
    La scena vuol essere corale (“tutte dovevano essere abituate… i loro abiti… le loro mani… i loro visi), da questo coro di donne disperate, spossate e frignanti si leva una voce: “Lasciatela stare…”
    (chi parla è Ghala, la protagonista del racconto, lo si dice una riga più giù)
    “ E tu chi saresti?” (la domanda è posta da una gigantessa (Lamithia, coprotagonista del racconto)
    “L’altra donna, che si chiamava Ghala, risponde: - A questo punto quel che sono stata sin qui è del tutto relativo: l’unica cosa veramente importante è chi dovrò diventare da ora in poi…”
    Poco dopo l’intervento di un’anziana, parla una giovane; così si scopre chi ha pronunciato l’invocazione dell’incipit: “Galha sorrise alla ragazza e, disse: - ora siamo sole.”
    - Dilah misericordioso, proteggici tu!
    “La bella giovane ripeté l’invocazione…”
    Francamente non vedo gran confusione, apprezzo anzi l’immediatezza con cui l’incipit ci fa entrare nel racconto.
    Inoltre la scena delle prigioniere non è raccontata, ma mostrata attraverso lo sguardo di Ghala:” La persona che era intervenuta le aveva osservate con grande attenzione, cercando di cogliere ogni minimo particolare di ciascuna; a giudicare dall’aspetto, tutte dovevano essere abituate a un trattamento speciale, fatto di agi e rispetto: lo dicevano i loro abiti, per quanto ora fossero gualciti o strappati, le loro mani morbide e curate, i loro visi dalle sopracciglia perfettamente disegnate…”
    Non si può dire che manchino i particolari.
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    Ci sono assenze che non passano inosservate. Bentornato!
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    Ho voluto rileggere dopo la “dritta” di Fante.
    Cosa abbiamo in definitiva? Una serie di “pezzi” che lasciano trapelare alcuni indizi attraverso i quali è possibile ravvisare un collegamento. Opinabile ma, diamo per scontato che ci sia un legame, il racconto è un enigma da risolvere?
    Tocca al lettore il disvelamento di parti nascoste?
    Chiaro che non tutto può essere esplicitato, ma qui i vuoti sono troppi.
    Difficile da digerire questa trama “sbocconcellata” in poco spazio, priva di dialoghi e affidata a descrizioni su descrizioni – ben curate nella forma, per carità – però il contenuto rimane vago.
    Un altro difetto: il finale è anticipato fin dall’unizio.
    “Il tempo dei Due Mondi è alla fine,
    l’Orda li renderà Uno soltanto… l’ultima preghiera del Luminarca è che un giorno la
    Vita possa rinascere sulle ceneri del passato.”
    L’idea è buona, ma la storia mi sembra ancora da scrivere.
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    L’esordio presenta un vecchio rudere con una torre metallica a spirale, vi giungono tre ragazzi Dado, Mac e Baffo. Poi prendono un taxi. Questo elemento mi suona stonato. L’autore sta già delineando un’atmosfera fantastica che sa di mistero, il taxi la interrompe: «Dove vi porto ragazzi?» «Portaci al confine nord della città, nella landa degli invincibili.”
    In effetti i tre sono già in un’altra dimensione («Otello è sempre bevuto e spesso dimentica anche come si chiama. Già siamo stati fortunati che ci abbia raccontato con precisione il modo di passare in questa dimensione.”) e l’incontro col tassista serve a spiegare i termini della prova che intendono affrontare, quindi è un infodump. Ma poi, perché un tassista e non un passeggero?
    Comunque a questo punto quel che è stato raccontano finora (la parte migliore) diventa quasi superfluo, quanto meno si percepisce come un lungo prologo. Anche perché i termini della competizione vengono spiegati dalla donna serpente all’interno della sfera di cristallo che si materializza a un tratto davanti ai tre ragazzi ( e che si poteva materializzare anche prima, dopo il passaggio della porta disegnata.) Mi sembra che il tono del racconto cambi nel corso della descrizione della battaglia – che perde drammaticità perché raccontata come un evento agonistico, “dentro scoprirono che quello era una sorta di stadio o di palazzetto sportivo. Le tribune, assiepate di spettatori, coprivano pressoché tutta l'area della sfera.”- si nota lo sforzo di inserire elementi fantastici nella descrizione dei concorrenti, senza però raggiungere l’atmosfera misteriosa dell’inizio.
    In definitiva, in questo racconto trovo un mix di ambientazioni ed elementi diversi, perciò Lo stile mi sembra disomogeneo. Complimenti, invece, per la fantasia.
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    Piaciuto. Un fantasy con i requisiti del genere. Se comincia in un modo e finisce in un altro è perché la storia ha il suo sviluppo; moltissimi racconti sono scritti così. Un’altra caratteristica è la trasformazione del personaggio, una tecnica narrativa molto presente, ad esempio, nei romanzi di formazione. Nel fantasy diviene metafora. In questo racconto la metamorfosi di Ghala e il suo volo simboleggiano la conquista della libertà.
    L’esposizione mi pare coerente, nel complesso abbastanza lineare, molto meno ingarbugliata di altri racconti che pure hanno suscitato entusiasmi. La trama si articola nei tre momenti: prigionia/fuga/ libertà. Non ho incontrato difficoltà nella lettura.
    Riguardo alla crudezza di alcune parti, trovo che la commistione di generi, specie con l’horror, nel fantasy sia abbastanza frequente.
109 replies since 5/7/2013
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