| IL SILENZIO La piccola città era avvolta nel silenzio estivo e il giardino di pruni e di ciliegi era il cuore ombroso e verde di quel silenzio. C’era da domandarsi dove fossero finiti gli uccelli. Quanto agli uomini, erano in vacanza, inscatolati nelle loro quattro ruote, cucinati dal sole con acqua e rena, abbracciati alle rocce ruvide, attenti alle scarpe dei loro compagni in fila indiana. Perfino i ladri avevano abbandonato il loro ufficio di appartamenti vuoti, proprio nel periodo di punta del loro lavoro, forse per un sopravvenire di pigrizia e di languore. Il mio cane sturò il suo biondo champagne mattutino e ne formò una pozza che si disperse, lentamente, nella terra prosciugata. Si lanciò, quindi, alla ricerca di tracce di colleghi. Gli invidiavo l’entusiasmo con il quale compiva gli stessi gesti ogni mattina, come fossero nuovi. Lui non conosceva la noia d’Agosto. Quando giaceva, inerte e abbandonato, con il pelame sparso a raggiera, pareva il figlio del Riposo e i suoi occhi socchiusi mandavano lampi di quieta felicità canina, mentre io, poco più su, nel letto rovente, smaniavo di inquietudine e insoddisfazione. Una notte, gli avevo detto: “prestami l’anima!”. Aveva aperto un occhio arrossato, mugolando dolcemente. So che mi avrebbe donato non solo l’anima ma anche la vita, la sua modesta vita di cane: la ciotola d’alluminio con il brodo di avanzi, il didietrino odoroso delle cagnette, l’angolo fresco in cui ama dormire, la pallina rossa dei suoi giochi, le lunghe carezze sul dorso, il gatto inafferrabile della vicina di balcone. Tutto mi avrebbe donato in cambio di niente, secondo la sua natura di cane. Camminando lentamente, arrivai alla vasca dei pesci rossi. Seduta sul bordo, mi specchiai: la mia faccia, tremolante sull’acqua, era ornata di foglie cadute dagli alberi vicini. Mi parve nuova ed estranea nella sua indeterminatezza. Quasi un’altra me stessa, figlia dell’acqua e del silenzio. Con la mano, la sommersi di ondine per vederla riapparire dopo poco. Mi sentivo strana, come fossi in attesa di qualche prodigio, in quell’ora estiva e nel cuore del cuore della città abbandonata. Un grillo saltò nell’acqua e navigò su di una foglia tra i cadaveri di molti moscerini. Spruzzai d’acqua il mio cane per vederlo rabbrividire di piacere. Poi feci una barchetta, con un foglio di quaderno abbandonato, e la guardai affondare mentre l’inchiostro sciolto colava in rivoli blu. Decapitai una margherita, sgualcendola con rabbia. Lì, non accadeva niente, nessun prodigio, neppure piccolino, tipo un grillo che parla, una lumaca dalla bava d’oro, un cappello da principe azzurro, scordato su di una panchina…o anche, piuttosto che niente, qualcosa di agghiacciante come uno scheletro impiccato, una vedova nera con otto scarpe rosse, un coltello da macellaio piantato nella corteccia di un albero… Nulla di nulla, di nulla! Mi venne voglia di urlare per dare la sveglia al mondo. Che cosa è questo silenzio innaturale? Dove sono gli uccelli? Tornate uomini e macchine e rumori di ogni genere! E piova per favore! Voglio sentire le gocce che cadono sulle foglie! Gli scrosci sulle tegole!La grandine e i tuoni! Un pianto di bambino! Due piatti rotti dal signore incollerito! Invece di urlare, presi da terra un grosso sasso, lo scagliai con forza al centro della vasca producendo un tonfo che gettò nel panico i pesci rossi. Un cane, da lontano, abbaiò; altri gli risposero. Sentii ronzare un’ape. Una voce di donna chiamò il bambino che giocava in cortile. Ecco il prodigio: avevo rotto il silenzio. Io Potevo tornare a casa, ad annoiarmi. Naturalmente. |
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