Scrittori per sempre

Posts written by Lycia

  1. .
    Partecipo al brindisi e scusate il ritardo!
  2. .
    Vedo che hai attinto anche all'altro racconto che parla di Bullo. Idea molto carina E' un bel e spiritoso benvenuto Grazie.
  3. .
    Grazie per le correzioni, non ho capito solo quella delle vacche.

    Edited by Lycia - 3/1/2017, 09:44
  4. .
    Ho cercato di correggere qua e là le virgole e spero che ora vada bene. Io ho sempre un concetto così trasgressivo della punteggiatura! La infilo come leggerei il racconto ad alta voce e le regole di grammatica vanno a farsi benedire! Grazie per la segnalazione anche delle d eufoniche che spesso dimentico di correggere
  5. .
    Sono contenta che ti sia piaciuto.
  6. .
    Non è tutto oro quello che luccica

    Se ne parlava in paese come di un fatto curioso e straordinario.
    I frequentatori del bar in piazza avevano smesso di litigare sul calcio e di commentare le bellezze locali, per fare ipotesi, commenti, congetture sul perché, sul come e predizioni sull’esito finale. Qualcuno osava, perfino, citare il demonio, facendo riferimento a casi assurdi del passato, peraltro non proprio documentabili agli occhi degli scettici, ( si trattava di bambole parlanti, cavalli imbizzarriti, galline in sciopero di uova e altre piccole mostruosità). Frottole, fantasie, burle, atte a fare uscire dalle noie e dalle malinconie della vita di paese. Tutto sommato: un divertimento anche questa volta.
    Ma c’era chi non si divertiva affatto. Ad esempio, il proprietario di Bullo, il toro più bello, più nero e più dotato del paese e ora al centro dei pettegolezzi. E anche le dieci vacche di proprietà del sunnominato che erano affette da tormenti indicibili, espressi in mugolii tali da spezzare i cuori più induriti. Anche Bullo non se la passava bene e rimuginava i suoi problemi nel testone cornuto.
    Il veterinario, poi, stava trascorrendo il periodo più nero della sua modesta carriera professionale perché era assillato da domande a cui non sapeva rispondere e anche la letteratura scientifica non gli era di aiuto. Un caso del genere non era contemplato. Punto e basta.
    Solo le oche, stranamente, sembravano spassarsela e ridersela. Forse perché, secondo la loro natura di oche, erano incapaci di afferrare la situazione o, al contrario, forse avevano capito tutto, come succede agli esseri più stupidi nei confronti di eventi inconcepibili alle intelligenze comuni.
    Piatto, piatto, il caso era questo: Bullo, il re dell’harem più ambito della zona ( vacche grasse, pelo lucente, occhi languidi), si rifiutava al dovere coniugale.
    Inaudito ! Scandaloso! Incredibile ma dolorosamente vero! Roba da perdere la testa, ma anche i soldi beninteso: vitelli che non nascevano, vacche che dimagrivano, fama di grande allevatore che perdeva smalto.
    Anche il macellaio era perplesso e preoccupato. E se fosse un’epidemia di chissà quale oscura malattia ai primi sintomi? La gente voleva mangiare carne fresca, carne buona. Quello del suo paese non era un popolo da insalate. Volevano la bistecca, e per fortuna che la volevano!
    Però il rimedio c’era: bastava mettersi le mani in tasca e comperare un altro toro. Magari più giovane, meno sofisticato o, come si diceva volgarmente, di “bocca buona”. E l’altro, peggio per lui signor Bullo! Carne da macello! Bei bistecconi da cuocere sulla brace, con il profumo di Bullo su tutta la campagna e le oche a sfotterlo e le vacche a goderci, finalmente soddisfatte e felici!
    ….Povero Bullo però, in fondo il padrone gli voleva bene e ne avrebbe fatto bistecche molto più tardi, alle soglie della vecchiaia, con un bacio sul muso da ben servito. Non ora, in pieno vigore maschile, con il suo grosso “affare” e i testicoli come palle da bigliardo, gonfi di spermatozoi, ansiosi di dare la vita.
    “No Bullo” disse il padrone, “ Non posso farti questo: Non sarai bistecche. Un’altra è la tua punizione. Vedrai un giovane collega cavalcare nell’Harem al posto tuo e, forse allora, valuterai la perdita per esclusiva tua colpa” E scesero due lacrime salate dalle guance di chi piangeva su tanta virilità sprecata.
    Il giorno seguente quelle lacrime arrivò alla fattoria la nuova stella di quel rustico firmamento: un maschione di due anni, con gli occhi insanguinati, le froge fumanti e la coda nervosa. Pareva preso pari, pari, dal set di “Sangue e Arena”, pronto a fare sfracelli di mucche e cristiani. Roba da innamorarsene subito. Ad essere vacche, intendo. Ma qui casca l’asino, per così dire. Solo vacche? Anche Cristiani ???. Non bestemmiamo per l’amor di Dio! Non così grave la faccenda. Solo…estremamente insolita, qualcuno potrebbe trovarla perfino divertente e, magari, aprire la mente a possibilità nuove…sconcertanti.
    To cut a long story: Bullo se ne innamorò, scoprendo così la sua vera natura, nascosta a lui stesso, per anni.
    Bullo era gay! Perdutamente gay! Disperatamente gay!
    Ora le vacche non erano più solo una fila di anonimi culi, sovrastati da fiocchi di coda irrequieta, ma erano squallide repellenti creature da cui pendevano rosastri aggeggi, lontano ricordo di quando, vitellino, vi si appendeva con famelico ed amoroso trasporto.
    Ora Bullo aveva conosciuto l’amore. Quel cieco trasporto verso mete, talora irraggiungibili, quel sottile tormento dei sensi e del cuore che toglie la pace ma promette felicità ancora sconosciute ma che si possono immaginare con analogie un po’ arrischiate.
    Non diremo qui quali fossero gli sviluppi di questa situazione. Ciascuno immagini a piacer suo o come più gli conviene. Diremo solo che Bullo passò alla storia come il primo toro gay che ebbe la fortuna ( o la sfortuna) di infrangere le regole della società e/o della Natura, dimostrando anche, con le sue palle da biliardo e il suo battacchio di campana, che non è oro tutto quello che luccica.

    Edited by Lycia - 1/1/2017, 20:30
  7. .
    Simpatico addio al '16 e benvenuto al '17 ( che almeno non è bisestile)
  8. .
    AVVENTURA NELLA NOTTE
    La luna uscì spavalda dalla nuvola che tentava di avvilupparla e i suoi raggi inargentarono la piccola pantera nera che s’acquattò timorosa. La neve intorno era ricamata d’ impronte che essa aveva lasciato nei suoi balzi leggeri. Il freddo notturno le aveva irrigidito i baffi. Nei suoi occhi c ‘era ancora il riverbero rosso della fiamma del camino; sul dorso il tepore della carezza del padrone e sulle labbra una goccia di latte raggrumato: tutti segni della sua appartenenza alla “casa” e all’uomo.
    Il suo mondo erano state quattro pareti bianche, un divano di velluto e l’odore di cucina. Vi era approdata avvolta in un pannicello, con gli occhi ancora chiusi ed un bottoncino nero per naso. Tutto ciò che esisteva al di fuori della casa era l’Ignoto, misterioso, pericoloso e affascinante: spazio luminoso o nero al quale essa si affacciava, attraverso il vetro della finestra, per contemplarne il grembo, percorso in ogni direzione da esseri conturbanti che le provocavano uno strano solletico agli artigli.
    Della vita sapeva solo quella quieta felicità domestica, punteggiata dai suoi ron ron. Sapeva il passo del padrone lento e strascicato, il tic tac dell’orologio a pendolo, il trillo elettrizzante del telefono, il fischio della pentola a pressione. La sua unica fatica era digerire i pasti e farsi la quotidiana toilette al pelo con la linguetta rosa, rapida come un motorino.
    Nulla sapeva delle sue lontane antenate, figlie della selva, che erravano fameliche, con i sensi all’erta e le orecchie dritte per cogliere i fruscii, i battiti d’ala, il rumore di una bacca sgranocchiata nel buio di una tana. Non sapeva gli agguati tra le fronde degli alberi e il balzo dei corpi tesi e il grido di morte delle prede. E gli occhi fieri della vittoria. E il tepore delle carni insanguinate tra i denti affilati. E gli amori selvaggi con i maschi ferini nelle notti di luna e la resa spossata e felice dopo i lunghi, rituali inseguimenti. E il palpito della nuova vita nel ventre. E la ricerca di un luogo sicuro, riparato dalle intemperie e dalle presenze indiscrete. E lo scivolare caldo-umido dei corpiccioli dal buio dell’utero alla luce verde del bosco.
    Né sapeva delle sue ave più prossime, figlie della strada. Del loro vagabondare sui tetti e lungo i muri. Di come le zampe ruvide scavavano tra i rifiuti. Degli agguati ai topi e agli uccelli. Delle fughe , con il cuore in gola, all’apparire dei cani. Della fame cronica che ne scavava i fianchi e di quel raro ma meraviglioso senso di sazietà nei giorni della fortuna. Delle notti d’amore con i maschi spelacchiati. Del perenne stato di allerta. Della carezza calda del sole primaverile sul pelo umido della rugiada del primo mattino. Dell’intimità materna con i cuccioli nel buio delle cantine, dei cortili, dei sotto-scala. Del contatto emozionante delle loro zampette, dai cuscinetti rosa, con le mammelle gonfie. Di tutta una vita di spasimi e di delizie, di tormenti e di speranze, di pericoli e di avventure: una vita all’altezza della dignità delle discendenti della nobile razza felina.
    Tutto ciò non sapeva. Giaceva sepolto nei suoi geni in attesa del “risveglio”.
    E in quella notte magica di luna piena il suo padrone aveva lasciato, per errore, la porta socchiusa ed un raggio era penetrato attraverso la fessura. E la piccola pantera flessuosa, seguendo il filo di luce, si era trovata all’aperto in quella bianca immensità gelata.
    Il silenzio era rotto soltanto dai battiti del suo cuore e dal richiamo intermittente di un uccello notturno. Al di là della spianata bianca cominciava il bosco fitto di alberi dalle chiome chiare e dal fusto nero. Lì l’inverno aveva fatto le sue vittime e la neve ne aveva ricoperto le spoglie. Ma, nascosto nei buchi degli alberi, nelle gallerie sotterranee, sotto i sassi, tra le radici aggrovigliate dei cespugli, tutto un popolo di superstiti attendeva la primavera centellinando le ultime energie. Occhi gialli o fosforescenti lampeggiavano nell’ombra. La gatta, chiamata da una voce più forte della paura, vi si diresse imboccando il sentiero che si inoltrava nel folto. Le narici vibravano per cogliere gli odori che il gelo non era riuscito, del tutto, a domare. Sentiva, “sapeva” che sotto quel finto silenzio si celavano prede e predatori, insidie e promesse. Il suo piccolo cuore felino si gonfiò di desiderio, di felicità e di orgoglio: era arrivata alle radici del suo essere. In lei le antenate gridarono il canto della verità raggiunta.
    Per un attimo almeno, la gatta “fu”.
    Poi, da lontano, si udì la voce dell’uomo che la chiamava disperatamente.
    Fece dietro front e imboccò la strada del ritorno.
    Dal camino della casa usciva un filo di fumo. La porta era spalancata come una bocca aperta che la inghiottì

    Edited by Lycia - 31/12/2016, 14:52
  9. .
    Se Dio è morto , sta a noi risuscitarlo.
    Bella poesia!
  10. .
    Confesso umilmente di non avere capito niente. (c'è pure la rima)
  11. .
    Grazie Al, ben trovato!
  12. .
    Grazie per il commento. Prendo nota.
  13. .
    IL SILENZIO
    La piccola città era avvolta nel silenzio estivo e il giardino di pruni e di ciliegi era il cuore ombroso e verde di quel silenzio.
    C’era da domandarsi dove fossero finiti gli uccelli. Quanto agli uomini, erano in vacanza, inscatolati nelle loro quattro ruote, cucinati dal sole con acqua e rena, abbracciati alle rocce ruvide, attenti alle scarpe dei loro compagni in fila indiana. Perfino i ladri avevano abbandonato il loro ufficio di appartamenti vuoti, proprio nel periodo di punta del loro lavoro, forse per un sopravvenire di pigrizia e di languore.
    Il mio cane sturò il suo biondo champagne mattutino e ne formò una pozza che si disperse, lentamente, nella terra prosciugata. Si lanciò, quindi, alla ricerca di tracce di colleghi. Gli invidiavo l’entusiasmo con il quale compiva gli stessi gesti ogni mattina, come fossero nuovi. Lui non conosceva la noia d’Agosto. Quando giaceva, inerte e abbandonato, con il pelame sparso a raggiera, pareva il figlio del Riposo e i suoi occhi socchiusi mandavano lampi di quieta felicità canina, mentre io, poco più su, nel letto rovente, smaniavo di inquietudine e insoddisfazione. Una notte, gli avevo detto: “prestami l’anima!”. Aveva aperto un occhio arrossato, mugolando dolcemente. So che mi avrebbe donato non solo l’anima ma anche la vita, la sua modesta vita di cane: la ciotola d’alluminio con il brodo di avanzi, il didietrino odoroso delle cagnette, l’angolo fresco in cui ama dormire, la pallina rossa dei suoi giochi, le lunghe carezze sul dorso, il gatto inafferrabile della vicina di balcone. Tutto mi avrebbe donato in cambio di niente, secondo la sua natura di cane.
    Camminando lentamente, arrivai alla vasca dei pesci rossi. Seduta sul bordo, mi specchiai: la mia faccia, tremolante sull’acqua, era ornata di foglie cadute dagli alberi vicini. Mi parve nuova ed estranea nella sua indeterminatezza. Quasi un’altra me stessa, figlia dell’acqua e del silenzio. Con la mano, la sommersi di ondine per vederla riapparire dopo poco.
    Mi sentivo strana, come fossi in attesa di qualche prodigio, in quell’ora estiva e nel cuore del cuore della città abbandonata. Un grillo saltò nell’acqua e navigò su di una foglia tra i cadaveri di molti moscerini. Spruzzai d’acqua il mio cane per vederlo rabbrividire di piacere. Poi feci una barchetta, con un foglio di quaderno abbandonato, e la guardai affondare mentre l’inchiostro sciolto colava in rivoli blu. Decapitai una margherita, sgualcendola con rabbia. Lì, non accadeva niente, nessun prodigio, neppure piccolino, tipo un grillo che parla, una lumaca dalla bava d’oro, un cappello da principe azzurro, scordato su di una panchina…o anche, piuttosto che niente, qualcosa di agghiacciante come uno scheletro impiccato, una vedova nera con otto scarpe rosse, un coltello da macellaio piantato nella corteccia di un albero…
    Nulla di nulla, di nulla!
    Mi venne voglia di urlare per dare la sveglia al mondo. Che cosa è questo silenzio innaturale? Dove sono gli uccelli? Tornate uomini e macchine e rumori di ogni genere! E piova per favore! Voglio sentire le gocce che cadono sulle foglie! Gli scrosci sulle tegole!La grandine e i tuoni! Un pianto di bambino! Due piatti rotti dal signore incollerito!
    Invece di urlare, presi da terra un grosso sasso, lo scagliai con forza al centro della vasca producendo un tonfo che gettò nel panico i pesci rossi.
    Un cane, da lontano, abbaiò; altri gli risposero. Sentii ronzare un’ape. Una voce di donna chiamò il bambino che giocava in cortile.
    Ecco il prodigio: avevo rotto il silenzio.
    Io
    Potevo tornare a casa, ad annoiarmi.
    Naturalmente.
6718 replies since 30/12/2016
.