| E’ bello quando non ti aspetti più niente. Un po’ ti senti vuota, un po’ ti senti libera. E un po’ sola, ma meglio che male accompagnata.
Sai a cosa sto pensando? A quella volta che ti ho scritto una delle mie cose un po’ surreali, un po’ intelligenti, che sapevo che ti avrebbero fatto ridere e riflettere, e tu mi hai risposto il giorno dopo dicendomi che ti avevo quasi tramortito. Mi avevi fatto ridere: io tramortire te… e tu allora, cosa facevi con me e non lo sapevi neanche? Ma poi avevi aggiunto un messaggio, pochi minuti dopo, che era: “Quando ci vediamo?” Ancora mi chiedo come ti sia venuto in mente. Ho pensato che stavo aspettando da tutta la vita che tu mi dicessi una cosa del genere, e, adesso che succedeva, non ci credevo: non poteva essere vero che tu realmente volessi vedermi, chissà cosa avevi in mente mentre lo scrivervi. Ti ho risposto ovviamente buttandola sul ridere, e dicendoti: mah… vediamoci quando vuoi, sei tu quello impegnato, io sono in vacanza… E abbiamo chiacchierato d’altro per altri due o tre messaggi e alla fine non ci siamo accordati per vederci. E non ci siamo visti. Lo sapevo, che credi, non sono scema: lo sapevo che non te ne importava davvero di vedermi, ti ho girato la palla apposta, facendo decidere a te. E tu non hai deciso. Non ci sono rimasta male, non mi aspettavo più niente da te, forse nemmeno avevo davvero voglia di vederti. Eppure. Sai cosa mi chiedo a volte? E se io invece di tergiversare e far decidere a te, ti avessi scritto: “Che ne dici se ci vediamo domani…?” Tu cosa mi avresti risposto? Che scusa avresti trovato per ingoiarti la domanda che mi avevi appena fatto: “Quando ci vediamo?” Scommetto che, condiscendente come al solito, mi avresti detto: “Va bene, passa pure a mezzogiorno.” E’ successo decine di volte in questi anni, poteva succedere anche questa volta, anche se, a differenza delle altre volte, la mia scusa per vederti era un po’ debole, ed eri stato tu a lanciare l’idea. Forse avrei dovuto farlo, e farla finire così la mia non-storia con te: nel tuo ufficio al terzo piano, dove io soffoco sempre dal caldo, e tu invece mi guardi sereno e pacifico, e dirti addio.
Me la immagino quella scena: io che arrivo sfiatata dopo tre piani di scale a piedi e busso alla tua porta. E entro e ti vedo dopo mesi, e mi sembri sempre uguale, come se i decenni non passassero mai. Anzi, come se i decenni ti avessero migliorato da come ti ricordavo. Ti saresti alzato salutandomi, magari baciandomi sulle guance e stringendomi un po’, e facendomi sedere sulla solita seggiola di fronte alla tua scrivania sommersa di scartoffie, cartelle e documenti vari. E tu ti saresti seduto di fronte a me, non dietro la scrivania, ma di fianco a me, davanti alle tre finestre che danno sui tetti della città vecchia e sulle colline. Avremmo parlato di tremila cose come al solito, avremmo riso e detto cose importanti, e sparato cazzate assurde. E poi di punto in bianco te l’avrei detto: “Ti amo, è assurdo ma è così, e non so che farci, perché da anni mi dico che è una cazzata assurda anche solo pensarla una cosa del genere, che non è possibile, che non c’entra con me e te, che non c’è nessun me e te, e che qualsiasi cosa sia deve solo finire, ma il problema è che non finisce mai…” Non lo so cosa mi avresti detto, forse niente, perché ti avrei tramortito davvero, o forse mi avresti detto che l’avevi capito, e che ti dispiaceva, e che dovevamo davvero finirla lì questa non storia: fuori luogo, e fuori tempo massimo. E ci saremmo detti addio. Io ti avrei detto addio, e sarei riuscita a dimenticarti.
Non sono riuscita a farlo, non riuscirò mai a dirtelo, e tu sei destinato a restare un fantasma nella nebbia dell’irrisolto. Ti ho chiuso in un cassetto e in fondo non è difficile: devo solo riuscire a non aprirlo più e tu sarai sparito per sempre. |
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