| Al mio babbo piaceva tanto la pasta fatta in casa. Adorava le tagliatelle e i tagliolini. Io ho sempre mangiato poco e detestavo i tagliolini. In genere venivano cotti nel brodo e mangiarli era davvero complicato. Bisognava utilizzare cucchiaio e forchetta. Si doveva mettere il cucchiaio nel piatto pieno di brodo caldo e pasta e, con la forchetta, fare un rotolino dentro allo stesso cucchiaio. A me il brodo non piaceva e non riuscivo mai a fare il rotolino nella maniera giusta. Il risultato era che ogni volta mi scottavo il mento con qualche filo di pasta bollente che non riuscivo a portare alla bocca e, con la scusa della scottatura, smettevo di mangiare. Tutto questo mi costava diversi minuti della stessa cantilena. Prima partiva la mamma: - Questa cittina non mangia niente. Bisogna portarla dal dottore. Poi era la volta del babbo: - Macché, questa cittina fa solo le bizze. Vedrai che quando avrà fame mangerà. Deve imparare a mangiare le cose buone e non solo tutti i “putinicci”. I cosiddetti “putinicci” altro non erano che qualche “Fiesta” che la mamma comprava molto raramente e un po’ di pane e succedaneo del cioccolato, quello che vendevano dal droghiere a fette mezze bianche e mezze marroni, dolcissimo e con un gusto liquoroso. I miei putinicci preferiti, pressoché introvabili, erano i biscotti “Urrà” della Saiwa, golosissimi wafer ricoperti di cioccolato fondente. L’unico aspetto positivo dei tagliolini era che finivano presto. Infatti, erano ricavati tagliando a strisce sottili i resti della sfoglia che rimaneva dopo la lavorazione delle tagliatelle. Anzi dei “maccaroni” come si chiamavano a casa mia. La mia mamma aveva sempre avuto problemi di salute e così, per non farla affaticare, il mio babbo chiamava una sua conoscente, una parente alla lontana di origini anghiaresi, a fare la pasta a casa nostra. Era una donnina alta quanto me che avevo circa otto anni, con un vocione roco e profondo che stonava con la gracilità del suo corpo. Aveva mani grandi, con le dita grosse e un po’ torte dai dolori e mi invitava sempre a starla a guardare per imparare. “Se me guardi bene, poi gliela fe’ te la pasta al tu babo”. E io la guardavo eccome! La mamma le faceva trovare tutto l’occorrente. Dodici uova fresche comprate dal contadino, un chilo e mezzo di farina presa “sciolta” dal fornaio, un po’ d’olio d’oliva e sale. Doveva essere “spenta d’ova” ossia, impastata senza aggiungere acqua. Avevamo una grande spianatoia di legno che, da quanto era larga, debordava un po’ dal tavolo della cucina e un mattarello lunghissimo. La donnina, che si chiamava Maria di Tamburino, (Tamburino era il soprannome che i miei avevano dato a suo marito) prima di mettersi al lavoro, una volta finiti i convenevoli di rito, andava a togliersi le scarpe e si metteva un paio di ciabatte così piccole che avrei potuto usarle per una delle mie bambole. Poi, si legava alla vita la pannuccia che le arrivava fino ai ginocchi e si lavava ben bene le mani col sapone di marsiglia, quello da bucato perché era più igienico. Infine, con sacralità, prendeva “lo staccio” , il grande setaccio in legno e rete finissima, e stacciava la farina. Con gesti esperti imprimeva a quello strumento il ritmo di una danza e la farina si depositva finissima e senza grumi sulla spianatoia, pronta per essere lavorata. Poi, faceva la fontana cercando di tenere bene alti i bordi “perché sennò quando ci metti l’ova, ti scappano tutte”. Io non capivo proprio come potessero scappare delle uova schiacciate. Non avevano mica i pulcini dentro! Una volta preparata la fontana “scocciava” le uova una ad una, ripassando ben bene l’interno dei gusci con le dita in modo che neppure una goccia di albume andasse perduta. La mamma la seguiva passo passo e ripuliva via via gli strumenti che alla Maria non servivano più. Alla fine, in mezzo a quel vulcano bianco, c’erano delle uova di un bel colore arancio, lucide come gioielli e pareva davvero un peccato doverle rompere. Un bel pizzico di sale e poi, via di polso con la forchetta a sbattere. La Maria aveva una sua tecnica ben precisa, faceva calare la farina dal bordo della fontana piano piano e la impastava senza mai fermarsi fino a quando l’impasto raggiungeva una consistenza abbastanza solida e poteva essere lavorato senza correre il rischio di vederlo scivolare fuori dalla spianatoia. A quel punto, quando la farina era stata tutta assorbita, si poteva cominciare a lavorare la pasta. L’impasto era grande e Maria ci metteva tanta forza. Mi sembrava la nonna quando lavava i panni. Impastava bene prima da un lato, poi rovesciava il tutto e lavorava vigorosamente anche dall’altro finché la pasta si presentava bella liscia, di un colore giallo vivo e poteva essere divisa in tre grandi palle che venivano prima unte con l’olio d’oliva e poi coperte con un canovaccio pulito di bucato. Solo a quel punto, quando la pasta riposava, la Maria si metteva a sedere e la mamma le offriva un mezzo bicchiere di vino rosso. Dopo questa breve pausa, il lavoro riprendeva e la Maria, in dialetto anghiarese, chiedeva: - Come le vu tagliete? Pappardelle o Maccaroni? - Maccaroni - rispondeva la mamma e poi aggiungeva: - Me raccomando, anche un po’ di tagliolini. - Se me ci scappano. Lo so che a Bartoccio gli pieciono. Bartoccio era il mio babbo. Il suo vero nome era Bartolomeo ma io l’ho scoperto che ero già grandicella. Odiava quel nome e infatti tutti lo conoscevano come “Giorgio”. Solo alla Maria di Tamburino era consentito di chiamarlo col suo vero nome, addirittura storpiato. Io rimanevo tutto il pomeriggio incantata a guardarla lavorare. Le palle di pasta venivano tirate con maestria e vigore. L’impasto roteava velocemente sul mattarello e, quella che prima era una palla, si schiacciava assumendo la forma di un cerchio prima spesso, poi sempre più sottile. Maria avvolgeva l’impasto sul matterello e lo accarezzava con entrambe le mani, cominciando dal centro per poi arrivare fino ai bordi, La sfoglia pareva cedere a quelle carezze diventando sempre più sottile. Man mano che si allargava, Maria la faceva schioccare fino a che quel grande cerchio, liscio e senza buchi, debordava dal matterello. Una volta finito di stendere era diventato largo quanto la spianatoia di legno. Infine, la sfoglia veniva spostata e lasciata asciugare prima di essere tagliata. Anche il taglio era divertente da osservare. Il cerchio veniva idealmente diviso in due e si procedeva ad arrotolare la pasta verso il centro da entrambi i lati e poi a tagliarla a strisce con un grande coltello. Non so come potesse riuscirci, ma i “maccaroni” della Maria erano perfetti, sembrava che usasse il righello tanto erano precisi e tutti della stessa misura. A lavoro finito, io ero stata così attenta che ero certissima di avere già imparato tutto quanto. - La prossima volta non c’è bisogno di chiamare la Maria di Tamburino. La faccio io la pasta, tanto è facilissimo ho visto tutto per bene! Peccato che non mi abbiano creduta. La prima volta che ho potuto “mettere le mani in pasta” ho capito quanto fosse brava la Maria di Tamburino.
Edited by Petunia - 18/7/2020, 08:03 |
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