Scrittori per sempre

Votes given by G.Leroux

  1. .
    Grazie Leroux :)
  2. .
    Grazieee!
  3. .
    Grazie Leroux :pazzo.gif:
  4. .
    G.Leroux Il finale ha perplesso molti, in effetti. Devo confessare che si tratta di un rimasuglio fossile della prima stesura e non ho fatto troppa attenzione al fatto che non ci azzeccasse più con la versione definitiva. Grazie per il bel commento.
  5. .
    Stavo per scrivere qualcosa di personale sul virus, poi ho pensato che la platea è troppo grande e non l'ho fatto. Comunque apprezzo i vostri interventi.
    Un abbraccio.
  6. .
    La goccia
    Insiste come goccia instancabile
    Nella mia testa il pensiero di te
    Persevera con ritmo cadenzato
    Lentamente trafigge i miei istinti
    Dolce supplizio che non mi dà pace
    Con abilità hai scoccato i tuoi dardi
    Verso la parte nascosta della mia luna
    E ora sento la tua voce che mi cerca nel buio
    Intrepido incedi con i passi galoppanti di cuore
    Non toglierti la maschera di cavaliere
    Non ora che sei vicino
    Non voglio vedere il tuo volto
    Mi basta sapere che sei vero non solo una goccia
    Che corrompe il mio volere
  7. .
    PIOGGIA DI STELLE

    Fluido il manto nero della notte
    mi veste e piovono le stelle
    da cieli profondi e distanti
    ignare illuminano gli amanti
    belle come desideri mai sognati
    e avare e fredde come lame
    che abbagliano lucenti
    e affilate affondano fendenti
    stelle amiche della poesia
    com’è che mute mi guardate
    della vostra indifferenza
    posso io morire
    eppure vivo
  8. .
    Vi avevamo promesso una sorpresina per Natale ed eccola qua. Certo, questo è solo un assaggio, chiamiamola presentazione, ma a breve arriveranno regole e indicazioni.
    Flash è nato come un concorso con incipit, ossia da una serie di frasi da noi indicate se ne scegliava una con cui iniziare la storia.
    Lo scorso anno abbiamo rovesciato il piatto e indicato gli excipit, ossia frasi con le quali concludere una storia da voi inventata.
    Quet'anno abbiniamo le due cose e presentiamo Bicipit.
    Verranno dati una serie di incipit e una di excipit con i quali iniziare e concludere i racconti.
    Nei prossimi giorni ne saprete di più, intanti dite cosa ne pensate, se vi va, rispondendo qua sotto.
    ciao a tutti.
  9. .
    Grazie Leroux! Spero di rileggerti presto presto 😊
  10. .
    Probabilmente quello che volevi raccontare non sei riuscit* a racchiuderlo nelle 200 parole ma alla fine mi è risultato poco comprensibile; eppure l'inizio è molto bello e promettente, forse troppo per quello che segue dopo
  11. .
    Danilo, mi fa piacere che tu ti fidi di noi e racconti tutte le tue esperienze scolastiche e familiari.
    Su SPS la maggior parte sono insegnanti, e sono convinto che perdonerànno le tue esternazioni. Tu sei uno a cui non si può non volere bene.
    Un abbraccio.
  12. .
    Al mio babbo piaceva tanto la pasta fatta in casa. Adorava le tagliatelle e i tagliolini.
    Io ho sempre mangiato poco e detestavo i tagliolini. In genere venivano cotti nel brodo e mangiarli era davvero complicato. Bisognava utilizzare cucchiaio e forchetta. Si doveva mettere il cucchiaio nel piatto pieno di brodo caldo e pasta e, con la forchetta, fare un rotolino dentro allo stesso cucchiaio. A me il brodo non piaceva e non riuscivo mai a fare il rotolino nella maniera giusta. Il risultato era che ogni volta mi scottavo il mento con qualche filo di pasta bollente che non riuscivo a portare alla bocca e, con la scusa della scottatura, smettevo di mangiare. Tutto questo mi costava diversi minuti della stessa cantilena. Prima partiva la mamma:
    - Questa cittina non mangia niente. Bisogna portarla dal dottore.
    Poi era la volta del babbo:
    - Macché, questa cittina fa solo le bizze. Vedrai che quando avrà fame mangerà. Deve imparare a mangiare le cose buone e non solo tutti i “putinicci”.
    I cosiddetti “putinicci” altro non erano che qualche “Fiesta” che la mamma comprava molto raramente e un po’ di pane e succedaneo del cioccolato, quello che vendevano dal droghiere a fette mezze bianche e mezze marroni, dolcissimo e con un gusto liquoroso. I miei putinicci preferiti, pressoché introvabili, erano i biscotti “Urrà” della Saiwa, golosissimi wafer ricoperti di cioccolato fondente.
    L’unico aspetto positivo dei tagliolini era che finivano presto. Infatti, erano ricavati tagliando a strisce sottili i resti della sfoglia che rimaneva dopo la lavorazione delle tagliatelle. Anzi dei “maccaroni” come si chiamavano a casa mia.
    La mia mamma aveva sempre avuto problemi di salute e così, per non farla affaticare, il mio babbo chiamava una sua conoscente, una parente alla lontana di origini anghiaresi, a fare la pasta a casa nostra. Era una donnina alta quanto me che avevo circa otto anni, con un vocione roco e profondo che stonava con la gracilità del suo corpo. Aveva mani grandi, con le dita grosse e un po’ torte dai dolori e mi invitava sempre a starla a guardare per imparare.
    “Se me guardi bene, poi gliela fe’ te la pasta al tu babo”.
    E io la guardavo eccome!
    La mamma le faceva trovare tutto l’occorrente. Dodici uova fresche comprate dal contadino, un chilo e mezzo di farina presa “sciolta” dal fornaio, un po’ d’olio d’oliva e sale. Doveva essere “spenta d’ova” ossia, impastata senza aggiungere acqua.
    Avevamo una grande spianatoia di legno che, da quanto era larga, debordava un po’ dal tavolo della cucina e un mattarello lunghissimo.
    La donnina, che si chiamava Maria di Tamburino, (Tamburino era il soprannome che i miei avevano dato a suo marito) prima di mettersi al lavoro, una volta finiti i convenevoli di rito, andava a togliersi le scarpe e si metteva un paio di ciabatte così piccole che avrei potuto usarle per una delle mie bambole. Poi, si legava alla vita la pannuccia che le arrivava fino ai ginocchi e si lavava ben bene le mani col sapone di marsiglia, quello da bucato perché era più igienico.
    Infine, con sacralità, prendeva “lo staccio” , il grande setaccio in legno e rete finissima, e stacciava la farina. Con gesti esperti imprimeva a quello strumento il ritmo di una danza e la farina si depositva finissima e senza grumi sulla spianatoia, pronta per essere lavorata.
    Poi, faceva la fontana cercando di tenere bene alti i bordi “perché sennò quando ci metti l’ova, ti scappano tutte”. Io non capivo proprio come potessero scappare delle uova schiacciate. Non avevano mica i pulcini dentro! Una volta preparata la fontana “scocciava” le uova una ad una, ripassando ben bene l’interno dei gusci con le dita in modo che neppure una goccia di albume andasse perduta. La mamma la seguiva passo passo e ripuliva via via gli strumenti che alla Maria non servivano più. Alla fine, in mezzo a quel vulcano bianco, c’erano delle uova di un bel colore arancio, lucide come gioielli e pareva davvero un peccato doverle rompere. Un bel pizzico di sale e poi, via di polso con la forchetta a sbattere. La Maria aveva una sua tecnica ben precisa, faceva calare la farina dal bordo della fontana piano piano e la impastava senza mai fermarsi fino a quando l’impasto raggiungeva una consistenza abbastanza solida e poteva essere lavorato senza correre il rischio di vederlo scivolare fuori dalla spianatoia.
    A quel punto, quando la farina era stata tutta assorbita, si poteva cominciare a lavorare la pasta.
    L’impasto era grande e Maria ci metteva tanta forza. Mi sembrava la nonna quando lavava i panni.
    Impastava bene prima da un lato, poi rovesciava il tutto e lavorava vigorosamente anche dall’altro finché la pasta si presentava bella liscia, di un colore giallo vivo e poteva essere divisa in tre grandi palle che venivano prima unte con l’olio d’oliva e poi coperte con un canovaccio pulito di bucato.
    Solo a quel punto, quando la pasta riposava, la Maria si metteva a sedere e la mamma le offriva un mezzo bicchiere di vino rosso.
    Dopo questa breve pausa, il lavoro riprendeva e la Maria, in dialetto anghiarese, chiedeva:
    - Come le vu tagliete? Pappardelle o Maccaroni?
    - Maccaroni - rispondeva la mamma e poi aggiungeva:
    - Me raccomando, anche un po’ di tagliolini.
    - Se me ci scappano. Lo so che a Bartoccio gli pieciono.
    Bartoccio era il mio babbo. Il suo vero nome era Bartolomeo ma io l’ho scoperto che ero già grandicella. Odiava quel nome e infatti tutti lo conoscevano come “Giorgio”.
    Solo alla Maria di Tamburino era consentito di chiamarlo col suo vero nome, addirittura storpiato.
    Io rimanevo tutto il pomeriggio incantata a guardarla lavorare.
    Le palle di pasta venivano tirate con maestria e vigore. L’impasto roteava velocemente sul mattarello e, quella che prima era una palla, si schiacciava assumendo la forma di un cerchio prima spesso, poi sempre più sottile.
    Maria avvolgeva l’impasto sul matterello e lo accarezzava con entrambe le mani, cominciando dal centro per poi arrivare fino ai bordi, La sfoglia pareva cedere a quelle carezze diventando sempre più sottile. Man mano che si allargava, Maria la faceva schioccare fino a che quel grande cerchio, liscio e senza buchi, debordava dal matterello. Una volta finito di stendere era diventato largo quanto la spianatoia di legno.
    Infine, la sfoglia veniva spostata e lasciata asciugare prima di essere tagliata.
    Anche il taglio era divertente da osservare. Il cerchio veniva idealmente diviso in due e si procedeva ad arrotolare la pasta verso il centro da entrambi i lati e poi a tagliarla a strisce con un grande coltello. Non so come potesse riuscirci, ma i “maccaroni” della Maria erano perfetti, sembrava che usasse il righello tanto erano precisi e tutti della stessa misura.
    A lavoro finito, io ero stata così attenta che ero certissima di avere già imparato tutto quanto.
    - La prossima volta non c’è bisogno di chiamare la Maria di Tamburino. La faccio io la pasta, tanto è facilissimo ho visto tutto per bene!
    Peccato che non mi abbiano creduta.
    La prima volta che ho potuto “mettere le mani in pasta” ho capito quanto fosse brava la Maria di Tamburino.

    Edited by Petunia - 18/7/2020, 08:03
  13. .
    Insomma questo negozio dell'amore mi ha fatto incontrare tanti amici affettuosi e cari che approfitto di salutare.
  14. .
    In questi giorni di Coronavidus, in questi giorni di permanenza obbligata in casa, in questi giorni di discorsi e contro-discorsi, abbiamo la testa un po' confusa. Si fa fatica a capire, a selezionare le informazioni giuste, a programmare il nostro futuro, molto insicuro. Il presente è opprimente e un po' ossessivo.Viviamo sospesi.Non possiamo però dimenticare il passato e trascurare date che sono la base della nostra storia. Il 25 Aprile è alle porte, quest'anno non ci saranno feste e convegni, incontri e parole, fiori e canti, ma non dovrà mancare il nostro pensiero a memoria di chi quel giorno era lì per noi per renderci liberi . Ciascuno può pensarla in modo personale non concordare, ma non può negare che la libertà di cui oggi godiamo ( spero per sempre) non appartiene a un gruppo, ma a tutti. E' un giorno storico che non va confuso con altri, né annacquato con parole e gesti che non hanno attinenza. Scusate, non voglio annoiare, ma lasciamo al 25 Aprile la sua peculiarità.

    Maddalena
  15. .
    Ciao, ho trovato il racconto davvero gradevole. Come se fosse uno squarcio di vita al quale potrei affacciarmi nella mia vita.
    Non ho nulla da dire sulla punteggiatura mentre ho trovato molta scientificità nelle scelta di alcune parole ma senza averle mai trovate artificiali.
    Il racconto mi è davvero piaciuto per ciò che lascia e per il suo essere scorrevole nonostante si venga catapultati all'interno di un caleidoscopio con decine di immagini da rimirare.
    Congratulazioni
37 replies since 29/9/2018
.