Scrittori per sempre

Posts written by Esterella

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    Delizioso questo racconto, la figura di Ipazia viene descritta in maniera appassionata considerando quelle sfumature proprie del genere femminile che offrono il profilo, di una donna forte, decisa, ma anche poetica e sensibile. Brava. :]
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    CITAZIONE (Petunia @ 26/11/2020, 19:08) 
    Grazie Ester. Piacevolissima lettura, la storia sta prendendo corpo.
    Dovresti ridare un’occhiata alla concordanza dei verbi.

    CITAZIONE
    Sentiva la necessità di voler rimanere da solo e il bosco era l’unico posto dove riusciva a smorzare un poco il dolore. Maria lo lasciò andare in silenzio, anche lei doveva affrontare a modo suo la bestia del dolore che la dilaniava per la perdita del marito.

    Trapassato e poi p.remoto. L’ho notato in più di una occasione.

    Bella storia! Aspetto il IV!

    Grazie e contenta che ti piaccia. Presto il seguito. Sappi però che sono XIX, chissà fino a quale capitolo avrai voglia di leggere... :pazzo.gif:
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    Grazie gentilissimo Vittorio. :noviolence.gif:
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    III

    Febo

    Nella contrada di Fontanelle, Maria e Bepi sposati ormai da dieci anni realizzarono il sogno insperato di poter avere un figlio. Per alcuni mesi Maria non uscì di casa; i familiari dicevano a tutti che era incinta e doveva stare a riposo e le imposte rimasero meticolosamente chiuse. Poi Bepi, una notte, uscì col calesse in tutta fretta, ma per rispettare i tempi della presunta gravidanza, solo dopo più di un mese fu annunciato a tutto il vicinato che era nato il bambino: un maschio.
    Le comari, arrivate a far visita alla puerpera, scrutarono con curiosità il piccolo neonato: in realtà sembrava avere già qualche mese, ma tutto poteva essere, visto che Bepi era un pezzo d’uomo, grande e grosso. Avevano però notato che durante la notte, non c’era stato molto trambusto, come di solito avviene in questi casi, e non si era udito alcun vagito nemmeno dalla casa accanto a quella di Maria, per cui le donne erano incerte riguardo alla provenienza del bambino e poi quel ciuffo di capelli rossi che spuntava dalla cuffietta era proprio un mistero.

    – Ha preso da un mio vecchio zio, morto da tanti anni, che non è mai venuto qui in paese – disse l’uomo alle comari, per fugare i loro dubbi. In realtà nemmeno a lui piaceva quel pelo rossiccio, però in fondo era un minuscolo dettaglio.
    Maria le prime sere era rosa dal dubbio e a sua volta tormentava marito.

    – Bepi, che dici abbiamo fatto bene a prenderlo? E se qualcuno lo venisse a cercare?

    – Tranquilla Maria, la comare Faustina mi ha assicurato che la madre è morta di parto. Cerca di non preoccuparti, abbi solo cura del bambino.

    Il piccolo fu chiamato Febo e venne battezzato nella chiesa del paese. Maria, gli voleva un mondo di bene e Bepi, sperava che crescesse sano e robusto in modo da poter essere da sostegno per la loro vecchiaia.

    Fin da piccolo Febo cominciò a dare ai suoi un sacco di preoccupazioni: aveva ormai raggiunto l’età in cui avrebbe dovuto cominciare a emettere i primi suoni, ma lui non voleva saperne. Vedeva i genitori che pendendo dalle sue labbra e lo incitavano a formulare delle sillabe.

    —Febo, dici ma…

    —Febo, pa…

    Lui li guardava con i suoi occhioni curiosi e rimaneva zitto. Per cui il padre cominciò a temere che non avesse il dono della parola.
    Una notte, accanto alla culla del bambino, era successa una cosa strana, senza che Maria e Bepi se ne accorgessero, perché profondamente addormentati. Un’ombra scura si era profilata e un raggio di luna aveva rivelato la presenza di una donna vestita di nero, che, china sulla culla, contemplava il piccolo rapita e gli faceva cenno di stare zitto. Era una donna giovane e bella con lunghi capelli e occhi scuri, che si stringeva in uno scialle vecchio e bucherellato.
    Prese in braccio il bambino e uscì fuori dalla camera. Febo, che si era svegliato, la guardò fisso in viso, ma non pianse; era come affascinato da quella donna che lo carezzava e lo coccolava come faceva sempre Maria.

    – Piccolo mio, finalmente posso vederti. Sono la tua mamma. Mi hai riconosciuta vero? Tra una madre e un figlio c’è un legame così forte che nulla può spezzare, neanche la morte. Io sono qui perché la mia anima inquieta voleva stare un poco con te. Sei il dono più bello che io abbia ricevuto nella mia vita. Volevo vederti.
    Il bimbo le strinse un dito e lei gli baciò la piccola mano, allora lui sorrise.

    – Sei bello sai, se non fosse per quei capelli rossi. Adesso so anche chi è quel vigliacco del tuo padre naturale, ma ha avuto quel che meritava e non potrà più farci del male – disse piano.

    Poi cominciò a cullarlo e a cantare sottovoce fino a che si riaddormentò e andò a rimetterlo nella culla. Com’era apparsa così se ne andò, svanendo attraverso la fessura della finestra sotto forma di un filo di fumo scuro, senza lasciare tracce della sua presenza.
    Tornò spesso a trovarlo, facendo attenzione che i due sposi dormissero, e Febo amava talmente quei momenti che trascorreva con lei, e quel gesto che lei faceva di farlo stare zitto, che continuava a non parlare durante il giorno anche se era in grado di farlo. Voleva bene ai genitori che erano nei suoi confronti molto teneri e protettivi, ma era rapito da quella presenza che si rivelava a lui durante la notte. Quando si rifiutò, per l’ennesima volta, di rispondere agli incitamenti dei genitori a parlare, il padre spazientito borbottò: — Questo figlio è una maledizione, non dovevamo prenderlo per forza! Non volevo crederci, ma me ne sto convincendo. Avevi ragione tu, Maria! È come se in qualche modo fossimo stati puniti.

    Questa volta, però, fu Maria a negare quella che pareva l’evidenza. Stravedeva per quel bambino.

    – No, ti sbagli Bepi! Vedi lui non è come gli altri bambini. È speciale, e ha bisogno di più tempo.

    Da allora la donna vestita di nero non comparve più presso la culla e il bimbo pensò che la sua amica non volesse più giocare con lui, per cui decise di parlare: le parole gli parvero improvvisamente un gioco nuovo col quale stupire i genitori. Si esercitò per conto suo e quando vide sua madre apparecchiare la tavola per il pranzo disse: –Ho fame! – e la donna gridò al miracolo. Guardava il figlio soddisfatta, Il tempo le aveva dato ragione: il bambino non aveva il benché minimo difetto fisico, era solo un poco particolare.
    Tutti i giorni, Maria non faceva altro che preparare manicaretti apposta per lui. Aveva accolto quel figlio con tutto il cuore e adesso era così felice che non faceva altro che viziarlo e proteggerlo, a dispetto dei rimproveri aspri del marito.

    – Non puoi trattarlo come se fosse di vetro. È un ragazzino e deve avere anche la sua dose di sculacciate – diceva continuamente l’uomo alla moglie.

    Lei per tutta risposta cominciava a piangere e stringeva a sé Febo.

    – Te ne pentirai, Maria, un giorno te ne pentirai.

    Intanto Bepi cominciò a portare con sé il figlio a caccia, con l’intento di fargli conoscere la natura e i boschi dei dintorni. Gli spiegava come riconoscere i nidi e gli uccelli e Febo era molto contento e si appassionava a tutto, ma suo padre aveva l’impressione che anche se fisicamente il bambino era lì accanto a lui con la mente lo sentiva distante.

    Il fatto che parlasse soltanto quando voleva e guardasse spesso il cielo, faceva pensare a sua madre che fosse costantemente assorto e che nascondesse chissà quale mente geniale, ma in realtà il ragazzino pensava a Menica che gli diceva di stare zitto, e a quando lo salutava e la sua ombra scura svaniva nel cielo. Sperava di vederla comparire un giorno o l’altro, per questo tra le nuvole cercava di cogliere qualche segno che gli parlasse di lei.

    Intanto cresceva e andando a scuola cominciarono i problemi. Stando all'ultimo banco, alla prima occasione apriva la finestra e saltava giù. Andava a sedersi sotto un albero e faceva l'unica cosa che sembrava non costargli fatica: guardare il cielo. Ora che stava diventando grande, però, non cercava più nel cielo tracce della donna vestita di scuro, che aveva accantonato insieme ai suoi sogni infantili, ma in quella striscia azzurra che vedeva lassù, cercava le rispose alle domande che cominciava a porsi.
    La sua mente in continuo lavorio cominciava a chiedersi: chi sono io veramente? Sentiva dentro sé una voglia irrefrenabile di libertà, un istinto selvaggio che lo incitava a perlustrare i boschi nei dintorni, se vagabondare fosse stato un mestiere l’avrebbe scelto per sé. Era una dimensione unica, nella quale si sentiva tutt’uno con un mondo fatto di verde, di pietre sformate e di animali: scoiattoli, istrici e volpi, che comparivano improvvisi, come per magia e poi veloci scappavano a nascondersi tra i cespugli e fra gli alberi.

    Quando suo padre gli chiedeva che lavoro volesse fare da grande, lui alzava le spalle, ma Maria interveniva dicendo che era ancora troppo piccolo per decidere e che sicuramente sarebbero stati orgogliosi di lui quando avrebbe scelto.
    Bepi che non sapeva più cosa proporgli, una sera, mentre erano a tavola, gli disse: – Guarda figliolo che c’è Meo, con la falegnameria in piazza, che ti prenderebbe come garzone, quando avrai deciso cosa fare ce lo dirai, sappi però che io e tua madre non siamo eterni.

    – Ci penserò, padre, magari più in là, intanto visto che adesso che è il periodo giusto, perché non mi mandate a raccogliere frutta? –

    In realtà non gli sarebbe dispiaciuto imparare il mestiere di falegname che considerava creativo, però nei frutteti sarebbe stato all’aria aperta e lui sentiva di averne davvero bisogno.
    Suo padre allora concordò con un fattore che cominciasse con qualche lavoretto stagionale. Era tempo di raccolta delle mele e Febo andò a raccoglierle nella contrada vicina, felice di poter stare a contatto con la natura.

    I lavoranti erano tutti giovani che affrontavano le ore di lavoro con buonumore, e lo precedevano, lesti, lungo i sentieri. Gli alberi, carichi di mele, profumavano l'aria; lui però guardava quei pomi rossi, stranito, assente. Avevano un profumo dolce, ma si chiedeva se non fosse un delitto strapparli dalle braccia della pianta madre.
    Dopo aver raccolto i frutti che si potevano cogliere da terra, occorreva salire su una scala a pioli per raccogliere il resto. Quando Febo salì sugli alberi, però, gli sembrò che quelle mele mature e profumate gli chiedessero di essere lasciarle lì e lui che sentiva in cuor suo quanto fosse giusto ne lasciò molte tra i rami frondosi.
    Alla fine del raccolto, tutti gli alberi dove era passato lui avevano un ciuffo di frutta colorata nella parte superiore: sembrava l'opera di un bizzarro artista.
    Quando si presentò al padrone per la paga, l'uomo prese il denaro, lo mise sul tavolo e lo spinse verso di lui e quando il ragazzo allungò la mano per prenderlo, svelto se lo riprese.

    –Torna sugli alberi a raccogliere il resto e avrai quanto ti spetta – gli disse severo.

    Il ragazzo mise le mani in tasca e si allontanò senza dire una parola, avrebbe voluto camminare all'infinito.
    No, quel lavoro non faceva per lui. Invece di tornare a casa si avventurò per i boschi, dimentico del tempo che passava, avanzando nello spettacolo della natura che pareva parlargli.
    Il paesaggio sembrava disegnato dalla mano di un pittore: il profilo dei monti pareva tratteggiato a matita, con un segno preciso, netto, che ne definiva l’immagine e il cielo era una pennellata incantevole d’azzurro, dove qua e là spuntavano nuvole a fiocchi. Il sentiero che aveva intrapreso saliva verso l’alto e le nuvole si dirigevano verso ovest, cominciò a seguirle, sentendo dentro sé un senso di beatitudine che lo avvolgeva.
    Dopo aver camminato a lungo, appoggiandosi a un ramo che gli faceva da bastone, si fermò per una sosta in una radura. Seduto su un frammento di roccia col sole sul viso e le efelidi che apparivano come bizzarri nevi di colore chiaro, lasciava che i raggi del sole gli sfiorassero la pelle.

    Quanta bellezza in quell’angolo di mondo, ed era tutta per lui. Un cinguettio sommesso gli faceva compagnia, l’odore di resina degli alberi permeava l’aria di magici profumi.
    La vegetazione era fitta e attorno agli alberi spuntano selve di cespugli, uno scoiattolo sgusciò all’improvviso si fermò a guardarlo e poi andò a rintanarsi in un albero cavo. Alzando gli occhi notò un gheppio in volo, la coda dritta e le ali spiegate, andava avanti e indietro doveva aver notato qualcosa tra l’erba e aspettava il momento buono per ghermire la preda.
    Febo si ritrovò a seguirlo nei suoi voli: era una femmina perché aveva le penne bruno rossastre con striature nere, glielo aveva insegnato suo padre. Quando il momento fu propizio si fiondò su un lombrico, che quieto scivolava tra l’erba, lo strinse con forza tra gli artigli e lo divorò col suo becco vorace. Poi si librò in alto nel cielo e si sentì il suo verso stridulo che andò scemando mentre si allontanava.

    – Povero lombrico era così innocuo – pensò Febo.

    Il tramonto avanzava rosseggiando, doveva tornare a casa. Che avrebbero detto i suoi genitori della deludente esperienza del raccolto delle mele?
    Sicuramente suo padre gli avrebbe allungato uno scappellotto e sua madre lo avrebbe guardato triste, ma questa volta se lo era proprio meritato.
    Mogio e pentito decise di tornare a casa. Si era allontanato troppo col suo vagare e si rese conto di essersi inoltrato verso quella sporgenza detta quel “Picco del diavolo”.
    “La prossima volta voglio proprio arrivare lì vicino” pensò.

    Dopo più di un’ora arrivò a casa. Da lontano vide la sua abitazione tutta illuminata e affrettò il passo preoccupato, qualcosa non andava per il verso giusto.
    Sua madre lo vide arrivare e gli andò incontro: sconvolta, col volto pallido, tremando come una foglia lo strinse in un abbraccio.

    – Cosa è successo?

    – Tuo padre…

    Bepi si era sentito male. Avevano chiamato il medico e l’uomo giaceva nel suo letto con gli occhi chiusi. Febo sedette accanto a lui. L’uomo era immobile e si sentiva solo il suo respiro lieve, nel silenzio della stanza. Impaurito il ragazzo vedeva lo spauracchio della morte aleggiare nella stanza. “Perché? È ancora un uomo giovane” si chiedeva.
    Appena sua madre si allontanò, andando nell’altra stanza, cominciò a parlargli: – Padre non andate via. Lo state facendo apposta, vero? Per farmi paura. Pensate così di spingermi a essere responsabile? L’ho già capito da solo, sai. Datemi pure gli schiaffi, forza! Non ho combinato niente di buono al lavoro, ma non lasciatemi, ho bisogno ancora della vostra presenza, dei vostri consigli, siete un uomo forte, ce la potete fare.
    Bepi aprì gli occhi e sorrise, lo aveva sentito, poi li richiuse di nuovo, dopo avergli stretto la mano sorridendo. Quante cose avrebbe voluto dire al suo ragazzo, ancora fragile e spaurito. Cercò nel suo corpo malato la forza fisica per reagire alla malattia, ma il suo cuore tornò a fare capricci, non gli lasciò scampo e si fermò.

    Febo attonito guardava quell’uomo grande e grosso che il gelo della morte aveva avvolto in una dimensione eterna. Aveva perso il sostegno di qualcuno che lo amava e aveva da insegnargli molte cose e che lui nella sua incoscienza non aveva capito. Era stato affascinato da un’idea di libertà: voleva essere libero, ma libero da cosa? Quanto tempo aveva perso a fare niente, ma tutto sarebbe cambiato.
    Le lacrime cominciarono a rigare il suo volto, mentre tra le braccia di sua madre sentiva di dover proteggere quella donna così fragile che lo aveva difeso sempre e adesso si affidava a lui chiedendo protezione. Stava diventando adulto in una sola notte.
    I giorni seguenti furono molto tristi, la gente del villaggio veniva a trovarli e lui ascoltava in silenzio parole di conforto con gli occhi bassi. In quei giorni si sentì l’essere più solo al mondo. Pur volendogli bene non era riuscito a stabilire un rapporto d’intesa con Bepi e tra loro due c’era sempre stato qualcosa in sospeso che così era rimasta, fino al giorno in cui era morto.
    La scomparsa del padre lo aveva cambiato. Ormai si sentiva capace di affrontare la vita, solo che quell’uomo gli mancava molto, ora che non c’era più. Quante volte aveva rifiutato di ascoltarlo e si era sentito offeso per un rimprovero, come se Bepi fosse ben lontano dal poterlo capire.
    Sentiva la necessità di voler rimanere da solo e il bosco era l’unico posto dove riusciva a smorzare un poco il dolore. Maria lo aveva lasciato andare in silenzio, anche lei doveva affrontare a modo suo la bestia del dolore che la dilaniava per la perdita del marito.

    Febo si avviò lungo il sentiero che aveva percorso la volta precedente tornando dal frutteto. S’inoltrò tra i viottoli erbosi e arrivò nel luogo dell’altra volta, ma non gli parve così fantastico. Gli animali erano tutti acquattati tra i cespugli e le cavità degli alberi e in cielo non c’era nemmeno una nuvola da poter seguire o un falco pellegrino in volo. Era solo. Una scia scura che pareva fumo apparve da lontano e si diresse proprio nel luogo dove lui seduto, sulla roccia, cercava di ascoltare le voci del bosco.
    Stava pulendo un ramo dalla corteccia col suo coltello, forse poteva fare un pizzuco per sua madre, per scavare le buche dove piantare le verdure nell’orto.

    – Sei bravo col legno Febo, forse dovresti fare il falegname. Una voce femminile lo fece voltare.
    Davanti a lui stava una donna vestita di nero stretta in un vecchio scialle, aveva un volto conosciuto, ma non ricordava dove l’aveva vista.
    – Mi conoscete, signora?

    Lei scoppiò a ridere: – Non mi riconosci? Eppure quando eri piccolo venivo a trovarti spesso, quando Bepi e Maria dormivano.

    – Io… io credevo che fosse un mio sogno di bambino. Si può sapere chi siete?

    – Sono la tua vera madre, quella che ti ha partorito, e voglio starti accanto, ma io non posso farlo come quella brava donna di Maria. Io posso solo parlarti.

    – Non credo a niente di quanto dite. Dimostratemi che siete mia madre e che non siete un’allucinazione.

    – Dietro la nuca alla tua destra hai un grosso nevo e sotto la pianta del piede una voglia di fragola grossa come un oliva.

    – Va bene, ma magari eravate presente quando mia madre ha partorito, perciò sapete queste cose.

    – Puoi chiederlo a lei stessa se credi, quello che io voglio è seguirti, figlio mio, ed essere testimone del tuo vivere felice; solo così la mia anima troverà pace.
    Poi la sua figura si dissolse, un filo di fumo scuro svanì nell’aria.
    Febo si girava intorno incredulo.

    – Dove siete? Fatevi vedere! Volete spaventarmi? Avete sbagliato persona.
    Arrabbiato e sicuro di aver avuto una visione tornò a casa.

    Il giorno dopo parlò a sua madre come non aveva mai fatto: – Mamma ho deciso, voglio fare il falegname, quando avrò imparato il mestiere avrò una falegnameria tutta mia e voi non dovrete più preoccuparvi.
    Maria contenta della decisione del figlio andò a subito parlare con mastro Meo che lavorava nella falegnameria di sua proprietà nella piazza di Roccaraldina. L’uomo, che era una gran brava persona, conosceva la sua condizione di vedova con un figlio giovinetto e tempo addietro aveva parlato della questione col povero Bepi. Accettò di prendere il ragazzo a bottega, sperando in cuor suo che quel ragazzotto rossiccio avesse la volontà di imparare il mestiere.

    Quando tornò a casa, Maria gettò le braccia al collo del figlio, confermandogli con entusiasmo che era stato preso come aiutante falegname e corse in cucina a preparargli una pietanza di cui lui era ghiotto.
    Davanti al suo piatto fumante di zuppa di lumache, Febo era titubante.

    – Madre vi ricordate delle donne che erano presenti, quando sono nato?
    Maria impallidì. – Veramente non ricordo, ero così emozionata…

    – Ma io sono il vostro unico figlio, dovete per forza ricordare.

    – Ah ecco! Sì, c’era la comare Faustina e mia madre, del paese non c’era nessuno, era notte, dormivano – disse e si allontanò girandosi di spalle, per non mostrare il suo turbamento.

    – Ditemi la verità: sono o non sono vostro figlio? – disse Febo, afferrandola per la braccia e costringendola a girarsi.
    Maria aveva le lacrime agli occhi.

    – Eri rimasto orfano… tua madre era morta di parto e tuo padre non si sapeva chi fosse.

    Febo la lasciò a piangere e andò a rinchiudersi nella sua camera.
    Sua madre era morta e quello che aveva visto era il suo fantasma, ed era venuta per stargli vicino, come quando era piccolo. Ormai era tutto chiaro, ma lui non poteva amare uno spettro che si presentava quando poteva, quella povera donna che lo aveva cresciuto gli aveva dato tutto il bene che una madre può dare a un figlio, non l’avrebbe certo abbandonata.
    La mattina dopo trovò la colazione pronta, e Maria in un angolo con gli occhi bassi.

    – Non crucciatevi, stamane vado a lavorare da Meo. Mia madre siete voi – e per la prima volta, da quando era diventato grande, l’abbracciò.
    Consapevole di fare la cosa giusta, con aria spigliata, il ragazzo si presentò alla falegnameria. L’uomo lo vide arrivare con ciuffo rossiccio arruffato, le braccia ciondoloni. Era lì sulla soglia e continuava a fissarlo senza parlare, con gli occhi vispi, come se le parole fossero superflue da dire.

    L’uomo dietro al suo banco di lavoro, col grembiule del lavoro legato in vita, lo guardò a sua volta tacendo per qualche minuto, poi disse:

    – Bene! Febo, vieni avanti! – e gli porse un grembiule uguale al suo.

    – Questi che vedi sul banco sono gli strumenti che useremo. Segui ogni mia mossa e impara.

    Con un mazzuolo batteva su uno scalpello col quale stava lavorando il legno e i riccioli di segatura finivano sul pavimento; l’odore che si sentiva nella bottega era quello insito nell’albero, dava l’impressione che si animasse diffondendosi intorno.
    Ogni tanto mastro Meo alzava gli occhi per vedere se il discepolo fosse attento e si accorse che Febo seguiva ogni sua mossa pur senza domandare niente.

    – Ora ti indicherò i vari attrezzi, così tu potrai passarmeli.
    Il ragazzo annuì.
    Il falegname gli indicò gli utensili presenti sul banco: squadra, compasso, sgorbia, morsetto, pialla, raspa e Febo memorizzava ogni cosa nella mente.
    Gli piaceva l’odore che c’era lì dentro, persino quello della colla messa a sciogliere nel pentolino, lavorando il legno si potevano creare cose e oggetti del vivere quotidiano. Sì, aveva scelto bene, quel lavoro era fatto apposta per lui.

    La bottega si trovava in un angolo della piazza del paese, di fronte alla chiesa della madonna del Carmine e proprio mentre si recava alla falegnameria, Febo vide per la prima volta la splendida Ester. Camminava sollevando le lunghe gambe come una gazzella, nel volto aveva un sorriso fresco di primavera e negli occhi dolcezza smielata. Il cuore del giovane si fermò per un istante, poi ricominciò a battere, ma solo per lei.
    Da quel giorno bighellonava nei pressi della piazza nella speranza di vederla, seppure da lontano. Conobbe altri giovani, ma lui era di poche parole e nulla aveva della spudoratezza e intraprendenza dei suoi coetanei e, specie se si fermava qualche fanciulla, diventava completamente rosso e ogni parola scompariva dalle sue labbra.

    – È muto poverino – dicevano i giovanotti, ghignando, alle fanciulle che lo guardavano incuriosite.

    – Ma, no! È soltanto un po’ strano, però è innocuo. – replicavano le voci femminili, prendendolo in giro.

    Ma lui lasciava correre. Prima o poi si sarebbe fermata anche lei, avrebbe potuto vederla da vicino, sentire il suono della sua voce. Pensava a lei anche quando era al lavoro e mentre si dava da fare cercava dentro sé le parole giuste da poterle dire. A volte prendeva un pezzo di legno e lo lavorava abbozzando piccole creazioni: una farfalla, un colibrì, una civetta. Voleva diventare bravo in quell’arte, in modo da poterle regalare una sua creazione.
    Un giorno vicino al gruppetto di giovani si fermò anche Ester. Febo sentì le parole che si affollavano nella sua mente e la voce della fanciulla che conversava guardando tutti, compreso lui, gli sembrava una celeste melodia. Il cuore che gli faceva capriole e non riusciva a contenere l’emozione e quando lei guardandolo negli occhi gli chiese: Come vi chiamate? –, non seppe far altro che scappare via di corsa, tra l’ilarità generale.

    Si chiedeva perché non fosse come gli altri: libero di dire ciò che pensava, di essere capace di guardare negli occhi la fanciulla di cui si era innamorato.
    Ester era la figlia della sarta e spesso la madre la mandava a consegnare i vestiti che cuciva per le donne del paese. Febo aveva cominciato a seguirla, usciva di casa la mattina presto, e tranne le ore passate in bottega col suo maestro, ovunque lei andasse, c’era sempre lui, che sorrideva e le andava dietro. Ossessionato da lei, faceva in modo di mettere i piedi là dove lei aveva prima poggiato i suoi; quel semplice gesto dava forma nella sua mente a un’unione con la donna amata, che lo mandava in estasi.

    Ester faceva finta di niente: “Per fortuna è completamente innocuo” pensava, anche lei come le sue amiche, e in fondo era quasi divertita da quel buffo personaggio che sembrava vivere alla sua ombra ed esistere solo per poterla guardare. A lei piaceva essere ammirata: quando camminava per le strette stradine del villaggio, tutti gli occhi maschili erano puntati su di lei. I capelli color miele ondeggiavano e sembravano emanare un odore inebriante che stordiva; quando aveva la fortuna di avvicinarsi a lei, Febo aspirava quel profumo a pieni polmoni.
    Un giorno Febo la vide accanto alla fontana mentre aspettava che la sua cannata si riempisse sotto il getto d'acqua che sgorgava dalla bocca di pietra del leone, un uomo non più tanto giovane le si avvicinò facendo apprezzamenti.
    Febo li raggiunse in un attimo e disse alla ragazza: – Vi accompagno – il suo gesto scoraggiò, l’uomo che si allontanò. Il coraggio di difenderla gli aveva fatto dire quelle due parole ed ora camminava affianco a lei e si sentiva un eroe.

    –Grazie! – sussurrò Ester e cercò di farlo parlare, ma lui non riusciva a dire altro che monosillabi in sua presenza.
    La sarta, che si era affacciata sulla soglia, vide la figlia arrivare con quello strano ragazzo e domandò:

    – E questo chi è?

    – Non preoccupatevi, madre, è Febo, ve ne ho parlato… è innocuo– ridacchiò la giovane, mentre lui corse via impacciato e rosso fino alla punta del naso. Però una parola continuò a girare e rigirare nella sua testa lui era “innocuo”, proprio come quel povero lombrico che aveva visto nel bosco e se prima o poi la sua bella avrebbe cacciato gli artigli, facendogli del male? No, non poteva essere, lei era così dolce, così bella, e lui stava bene solo in sua presenza e non gli importava nient’altro.

    Quando tornava a casa aveva sempre la testa altrove, la madre sulle prime credeva fosse a causa del lavoro, ma fu rassicurata da Meo, che le disse che il ragazzo apprendeva con passione e si mostrava diligente e preciso. Fu per caso che una sua lontana parente le confidò che quando Febo era in piazza non faceva altro che seguire una ragazza e nientemeno la più bella del paese: Ester, che aveva dato filo da torcere persino a conti e ricchi pretendenti.

    – Cerca di dissuaderlo – suggerì la comare.

    Quando la sera il figlio tornò a casa Maria aspettò che finisse il suo piatto di minestra e fagioli e poi gli disse: – Febo, tu sai che per me sei importante più di ogni cosa al mondo, quello che ti dirò è solo per il tuo bene.
    Lui la guardò tacendo come sempre e lei continuò: – Si dice che tu vai dietro una fanciulla, bella sì, ma molto altera e presuntuosa e potrebbe farti soffrire e io…io posso solo consigliarti di lasciarla perdere – terminò sospirando.
    Febo la guardò serio e, sempre senza dire una parola, prese la giacca appesa e uscì di casa. Maria lo aspettò fino a tarda notte poi si addormentò sulla sedia di cucina, ma lui non tornò. Al mattino andò alla falegnameria sperando che fosse andato lì, ma mastro Meo disse che non si era visto.
    “Questo è un nuovo tipo di dolore che il mio figliolo deve sopportare, resterà nel bosco qualche giorno e poi tornerà a casa, come l’altra volta. Ha bisogno di rimanere da solo.”

    Edited by Esterella - 27/11/2020, 11:12
  5. .
    [QUOTE=Petunia,25/11/2020, 18:30 ?t=78084148&st=0#entry645447349]
    Bene! La storia tiene e già ho voglia di leggere il terzo capitolo👍

    Rispetto al primo capitolo il tutto mi pare un po’ meno curato e la storia risulta accelerare parecchio. Non è molto chiaro il motivo per cui Menica viene considerata una strega.

    C’è un uso sovrabbondante dei puntini di sospensione... dovresti toglierli e sostituirli eventualmente con un’altra punteggiatura. Non li ho contati ma ce ne sono molti e l’effetto è quello di rallentare la lettura e indisporre il lettore.


    Ti segnalo alcune cose che ho notato.



    CITAZIONE
    Dopo settimane che viveva nascosta nei boschi, cibandosi di bacche ed erbe, Menica si rese conto che non poteva rimanere a lungo nascosta,

    CODICE
    penosamente
    toglierei l’avverbio

    CITAZIONE
    La cucina era sottosopra… piatti

    meglio: la cucina era sottosopra: piatti etc.

    CITAZIONE
    Corse al capanno per vedere come stava il suo asino

    . Rivedi questa. All’inizio dici che Menica era stata via settimane. L’asino sarebbe comunque morto di fame... chi lo accudiva in sua assenza?

    CITAZIONE
    E poi il bambino… come avrebbe fatto a tenerlo occultato

    Non userei questo termine. Meglio “nascosto”.

    CITAZIONE
    [/– Volo¬ QUOTE] refuso

    Però di esserti stata utile.

    A leggerti!

    Pet grazie infinite. Utilissima, a volte sono frettolosa e pasticciona. Menica viene accusata di stregoneria perchè ha causato la morte del primogenito di Don Emiliano, per questo i suoi sgherri le hanno dato la caccia. La contessa Alberta che fa indire il tribunale dell'inquisizione è la suocera del conte, compare nel primo cap. durante il parto della contessina. :super-onion-smiley-111.gif: :emoticons-saluti-6.gif?w=593:
  6. .
    CITAZIONE (Petunia @ 25/11/2020, 18:03) 
    Ma che bello Esterella. Ho letto questo primo capitolo tutto d’un fiato. La tua scrittura è fluida e la storia è avvincente. Passo subito al secondo capitolo visto che lo hai postato.

    Ti segnalo questo passaggio
    CITAZIONE
    Lei aveva un con vecchio vestito nero da poveraccio, ma dall’atteggiamento sembrava una nobildonna.

    Deve esserti sfuggito qualcosa

    grazie pet, vado a rivedere. :pazzo.gif:
  7. .
    Dopo settimane che viveva nascosta nei boschi, cibandosi di bacche ed erbe, Menica si rese conto che non poteva rimanere a lungo lì dentro, cominciava a sentirsi debole, inoltre temeva per la sua incolumità, di notte sentiva degli ululati molto vicini, doveva esserci un branco di lupi nei dintorni.
    Da giorni non sentiva più gli uomini del conte gironzolare nel bosco, dovevano aver rinunciato o la stavano cercando altrove, era il momento di andar via di lì. Pioveva. Mise lo scialle sul capo e la bisaccia a tracolla e si avventurò verso casa, lungo il sentiero che le era ben noto.

    Arrivò al villaggio bagnata fradicia e furtivamente si avvicinò al suo casolare. La porta era stata scardinata e penzolava da un lato spalancata, le apparve subito distrutta, non era servito averla fatta rinforzare.
    Entrò come una furia. La cucina era sottosopra: piatti e bicchieri rotti a terra, i cocchi confusi tra il pentolame ammaccato che era stato scaraventato da ogni parte. Disperata controllò le stanze: i materassi di paglia sventrati come spaventapasseri mutilati, i pochi abiti, logori, sparsi a terra, sia nella sua stanza che in quella dei genitori. Corse al capanno e trovò il vecchio ciuco giaceva a terra morto: Doveva essere morto per inedia ma come se non bastasse gli avevano sparato. Si inginocchiò accanto all’animale e pianse. Gli uomini del conte erano delle bestie, dovevano averla cercata in ogni angolo e sarebbero tornati per ucciderla… doveva fare qualcosa.
    Per fortuna era rimasta dell’acqua nel calderone coperto accanto al camino, Si lavò con l’acqua fredda, per paura che accendendo il fuoco si vedesse il fumo fuoruscire dal camino e indossò degli abiti asciutti. Nella credenza c’era il pane che lei aveva fatto con l’ultima infornata, era duro e ammuffito, ma non importava. Lo pulì come poté, lo bagnò ci versò sopra un filo d’olio e ne fece piccoli bocconi da assaporare, poi mise sulle spalle lo scialle nero, pieno di buchi, che era appartenuto a sua madre, accese una candela e scese in cantina.

    Dietro le botti c’era un passaggio segreto. L’aveva scoperto da bambina vedendo suo padre spostare alcune damigiane appoggiate al muro e aprire una porticina… non si era accorto di lei. Si avventurò nel cunicolo pur non sapendo dove portasse. Camminò attraverso il passaggio facendosi luce con una candela, c’erano formiche, topi, scarafaggi, ma lei non aveva paura. I minuti passavano e la candela si stava consumando, quando arrivò nei pressi di una porta. La spinse e si ritrovò in una casa.
    In un primo momento non la riconobbe, ma poi si rese conto di trovarsi nella casa della sua madrina, c’era stata tante volte… Perché era collegata con la cantina di casa sua? Possibile che suo padre venisse a trovare la donna attraverso quel cunicolo? Ricordò allora che a volte lui la notte non dormiva nel suo letto, se ne accorgeva perché sentiva la madre piangere dalla sua stanza e allora andava ad infilarsi nel letto accanto a lei stringendola con affetto, senza rendersi conto di cosa stesse accadendo.

    Faustina che aveva sentito dei rumori dentro casa, entrò nella stanza e soffocò un grido quando la vide.

    – Menica! Per fortuna sei salva! Ti credevamo tutti morta, dove sei stata?

    – Mi sono nascosta nel bosco, ma non potevo più restare lì. Puoi aiutarmi?

    La donna fece di sì con la testa; e vedendo da dove la fanciulla era entrata capì che ormai era a conoscenza del suo segreto.

    – Qui starai bene, se viene qualcuno ti nasconderai lì – le disse, indicandole la porticina dalla quale era entrata, senza scomporsi e con la benevolenza di sempre. Prese un piatto di minestra e lo poggiò sul tavolo accanto alla fanciulla che si era seduta sconvolta da troppe emozioni.

    – Mangia! Avrai fame – aggiunse con gentilezza.

    Menica avrebbe voluto scappare da quella donna che aveva fatto del male a sua madre. Come aveva potuto? Era la sua madrina. Rimase in silenzio davanti al piatto, quando qualcuno bussò alla porta.

    – Vai a nasconderti presto! – e richiuso il passaggio, andò ad aprire la porta.

    Era una vicina che tremante per il freddo era venuta a chiedere la carità di un po’ di brace, da
    mettere in un vecchio secchio di latta, per scaldarsi. Si sentiva la voce di Faustina che cortese e caritatevole l’accontentava. Com’era falsa quella donna, ma era l’unica al mondo che poteva darle una mano, non poteva scappare ancora.

    Quando Faustina riaprì la porticina, Menica venne fuori con gli occhi rossi.

    – Bella mia, basta piangere! – e le indicò la minestra, che intanto aveva riscaldato.

    La fanciulla rimase da Faustina, nascosta in casa, e ogni volta che si sentivano voci o passi correva nel suo nascondiglio e aspettava che i visitatori andassero via.
    Dopo alcuni giorni che era sua ospite, la madrina le fece una strana domanda.

    –Ti vedo in carne… anche troppo, figliola cara, non è che sei incinta?

    Menica scoppiò a ridere: – E di chi dovrei esserlo?

    Poi il suo volto si rabbuiò. Aveva fatto di tutto per cancellare il ricordo di quella brutta sera, quando il vento aveva spalancato la sua porta di casa. Era stato un uomo a possederla? O doveva dar credito a quelle strane leggende sul demonio? Non era certo tipo da credere a certe cose… sicuramente qualcuno, di quelli che le sbavava dietro, aveva trovato il modo di approfittarne, ma, se proprio era incinta, il bambino sarebbe stato solo suo e lei l’avrebbe cresciuto,
    con o senza padre.
    Nel villaggio si parlava ancora della la morte del figlio di don Emiliano e le malelingue che davano la colpa a lei non si erano spente, anzi pareva che la cattiveria covasse sotto la cenere mantenuta costantemente calda, come se qualcuno soffiasse continuamente sul fuoco dell’odio e non succedeva solo tra la gente nobile e sofisticata, ma anche tra la brava gente: quella massa di poveri disgraziati che da lei non avevano ricevuto altro che bene… non c’era nessuno che parlasse a suo favore.

    Era mattina presto. Faustina era andata al mercato e nella calca tra le bancarelle sentiva mormorare continuamente dalle comari la parola “strega”. Si avvicinò per sentire meglio e da una di loro sentì che la duchessa Alberta, tramite un suo parente, vicario presso il Santo Uffizio, stava cercando il modo di indire un Tribunale dell’Inquisizione per giudicare Menica e farla condannare.
    Un brivido la percorse. Erano anni, forse un secolo che non succedeva, ne aveva sentito parlare da sua nonna come un fatto lontano e terribilmente raccapricciante. Cominciò ad avere paura.
    Menica era accanto alla finestra, oscurata da pesanti tende. Le disse di allontanarsi strattonandola per un braccio e la mise a conoscenza del pericolo che correva.

    — Vista la situazione, dovrai rimanere nascosta nel mio laboratorio.

    La condusse in uno stanzino che odorava di muffa e di erbe pestate in un mortaio. Sopra un tavolino provette e alambicchi e un caldaia annerita, un giaciglio disfatto in un angolo.

    —Rimarrai qui! Sarai più al sicuro.

    Chiuse la porta e andò via.

    Menica si rannicchio sul materasso. Non aveva lacrime, non aveva paura, era triste. Sentiva però dentro sé la presenza di qualcosa che le dava forza. Ormai era certa: lei era incinta e sentirsi madre le dava coraggio, la confortava. Avrebbe lottato per suo figlio contro le cattiverie, lo avrebbero fatto insieme.

    Faustina che vedeva la sua pancia crescere continuava a chiedere: – E allora? Ormai potresti dirlo chi è quel disgraziato che ti ha fatto questo – e non ottenendo risposta per l’ennesima volta, le propose di sbarazzarsi del bambino.

    – Non ci vuole niente credimi, non è doloroso e io ho tutto l’occorrente per farlo come si deve.

    Menica la guardò con gli occhi sbarrati: – No! Il bambino nascerà! Se tu non vuoi più tenermi qui a casa tua, sono pronta ad andare via.

    – Brava, così vi ammazzano tutti e due. Tu resti qui! Sono pur sempre la tua madrina, in qualche modo faremo—

    – Già! – mormorò la fanciulla tra i denti.
    Adesso però la situazione per Faustina era diventa veramente difficile. La caccia a quella povera disgraziata, che lei proteggeva, continuava incessantemente. Fino a quando avrebbe potuto tenerla con sé? E poi il bambino… come avrebbe fatto a tenerlo nascosto visto che la ricerca della sua protetta continuava in ogni contrada. Prima o poi l’avrebbero scoperta. Che fare?

    Immersa nei suoi pensieri girovagava per il mercato, quando incontrò una sua comare che viveva nel vicino villaggio di Fontanelle. Seppe così che Maria, una delle figlie della donna, piangeva notte e giorno perché non riusciva a rimanere incinta.

    – Comare mia, non sappiamo più che fare… prego solo che accada un miracolo.
    – Ascolta – disse Faustina, – io non esercito più da un po’ di tempo, ma conosco tanta gente e se capitasse una madre morta di parto o una donna che non avesse la possibilità di crescere il figlio te lo farò sapere.

    – Ah, magari, bella mia. Sapremo ricompensarti a dovere – disse la vecchia comare e se andò tutta contenta.
    Giunto il momento, Faustina fece partorire la ragazza nella sua camera da letto, dove aveva preparato tutto ciò che serviva. Qualche fascia e pannolini ricavati da vecchie lenzuola erano appoggiati su una vecchia sedia di paglia e l’acqua calda era pronta per lavare il neonato.

    Menica che aveva fatto nascere tanti bambini seguì con lucidità le fasi del suo parto come se una parte di sé fosse dall’altra parte del suo corpo ad accogliere il figlio che nasceva. Essendo la prima volta, il travaglio fu doloroso e lungo, ma lei, attenta, cercava di captare il momento in cui il piccolo sarebbe venuto fuori.

    – È un maschio! – esclamò trionfante Faustina.

    Soltanto quando ne sentì il vagito la giovane mamma si rilassò, vide poi la madrina che le mise il bimbo accanto, infagottato nelle fasce e lei, dopo averlo covato con amore, si addormentò esausta per lo sforzo.

    Faustina, impaziente, attese che lei dormisse profondamente, poi indossò il suo scialle e si recò alla locanda vicina. C’erano i soliti giovinastri vagabondi, ma lei si fidava di uno solo.

    Piccolo, tarchiato, con il volto marchiato da un’ampia cicatrice, si offriva volentieri per piccoli lavoretti; sia leciti che illeciti.
    La donna lo chiamò e gli propose di recarsi al vicino villaggio di Fontanelle, dalla sua comare, e di riferire che venisse subito qualcuno con un calesse, per il carico che lei sapeva.

    – Queste saranno tue – disse mostrandogli le monete che aveva riposto in un piccolo sacchetto di stoffa logora.

    – Volo – rispose il ragazzo.

    Per far dormire profondamente la partoriente Faustina le aveva somministrato, a sua insaputa, una mistura di erbe soporifere in modo da poter agire liberamente, avrebbe dormito per qualche ora… il tempo necessario.
    Dopo oltre mezz’ora la donna sentì bussare. Era la sua comare che insieme al genero erano venuti con un calesse a prelevare il bambino. Avvolse il piccolo in uno scialle e lo porse alla donna dandole anche una pezzuola bagnata con acqua e zucchero in un bicchiere e le istruzioni per l’uso.

    – Su andate via, prima che qualcuno si metta a spiare da qualche finestra.
    L’uomo le lasciò una borsa piena di monete e svelti risalirono sul calesse trottando per le strade sconnesse del paese.
    Il neonato dormiva in braccio alla donna che sarebbe stata sua nonna e che ringraziò il cielo di aver compiuto quella specie di miracolo, ormai visto che la povera madre era morta, come aveva assicurato Faustina, quel piccolo avrebbe avuto a casa loro ogni attenzione possibile.
    Sobbalzando per una buca in cui era finita una ruota il neonato cominciò a strillare e la nonna per farlo acquietare le diede da succhiare la pezzuola bagnata con acqua e zucchero, come le aveva consigliato la comare, presto si acquietò e riprese a dormire.

    Quando Menica si svegliò e non trovò più il suo bambino pensò che fosse in braccio a Faustina, ma lei era lì che la guardava, immobile, con aria compunta.

    – Mi dispiace, il piccolo si è sentito male, non respirava più, tu dormivi…

    – Dov’ è il mio bambino? – cominciò a gridare disperata la giovane.

    – Ho dovuto sotterrarlo…

    – Dove? Voglio vederlo!

    – In giardino sotto l’albero di melograno.

    A piedi nudi Menica corse fuori e cominciò a scavare con le unghie piangendo, inginocchiata sotto l’albero.

    – Vieni dentro, figlia, non serve a niente...

    La fanciulla la guardò con odio e le gridò: – No, non ti credo! Tu menti, non può essere morto, l’hai nascosto, ma io lo troverò…

    Si rivestì dei suoi poveri stracci e del suo scialle nero e, spinta da parte la madrina che cercava di fermarla, corse fuori per le strade del paese sconvolta a cercarlo senza sapere dove.
    Nella piazza la gente non credette ai propri occhi vedendola vagare con gli occhi spiritati, ma senza paura.

    – È lei!

    – Eccola!

    – Chiamate le guardie!

    Venne catturata dalla gente armata di mazze, bastoni e forconi, che l’aveva rincorsa dando l’allarme. Lei si dibatteva come una indemoniata.
    Don Emiliano, che in quel momento si trovava lì, chiese ai contadini che venisse consegnata nelle sue mani. L’avrebbe portata alla sua villa e avrebbe attuato la sua vendetta… ma, prima che potesse portarla via, arrivarono i gendarmi per condurla in prigione.

    Fu caricata a bordo di un calesse che sobbalzava sulla strada sconnessa e piena di buche, coi polsi legati, il volto impenetrabile, i capelli scarmigliati. Non riusciva a pensare a nulla, sentiva un dolore sordo nel petto e un nodo che le stringeva la gola togliendo il fiato, mentre il dondolare sconnesso del carretto la sballottava. Dopo un lungo tragitto attraverso le campagne e i boschi arrivò alle carceri.
    Attraversato l’enorme portone annerito dal tempo, la prigioniera scortata dai gendarmi venne condotta attraverso cunicoli bui, rischiarati appena dalla luce fioca delle fiaccole. Cominciò poi la discesa lungo una scalinata ripida fatta di gradini grigiastri, mezzo sgretolati. Era a piedi nudi e scivolava su quei gradini luridi, aveva la sensazione di avvicinarsi sempre più all’inferno.
    La cella destinata a lei era un angusto stanzone spoglio, c’era una donna anziana in un angolo, seduta con la schiena contro la parete, pareva un fantasma... Menica venne incatenata al lato opposto. Fissata al muro c’era una grossa catena di ferro, fatta di maglie massicce, con un anello alla base che le fissarono alla caviglia. Poi la porta fu chiusa con un chiavistello, rafforzato da una sbarra di ferro. Nello stanzone fetido odore di muffa, di scarafaggi, e urina secca le strinsero lo stomaco.

    Un'unica finestra, un buco quadrato nella pietra con grosse inferriate arrugginite, dal quale arrivava un’aria stagnante.
    Nella cella scura Menica raccolse le ginocchia quel tanto che poteva e con gli occhi spalancati nel buio ripensò a quanto era accaduto.
    Rivedeva il bambino che aveva avuto accanto, anche solo poco tempo; aveva ancora le guance rosse di neonato e gli occhi chiusi, ma era nato sano. No! Suo figlio non poteva essere morto e lei doveva lottare per rimanere viva, in modo da poterlo cercare, il suo istinto di madre l’avrebbe guidata, si diceva.
    Non riusciva a perdonarsi di essersi addormentata e si colpiva con i pugni la testa per punirsi di essere stata così scellerata da cedere al sonno.
    La donna che era con lei la guardava silenziosa, scrutandola, poi le chiese: – Perché sei qui?

    – Non lo so, non ho fatto nulla.

    L’altra la guardò con sospetto, per niente convinta. Non si finiva in quel lurido posto senza aver fatto niente. Quando venne l’inserviente a portare il pasto, in un piatto che depositò per terra accanto alle donne, la prigioniera ripeté la stessa domanda chiedendo chi fosse la nuova arrivata.

    – Quella è una strega – disse l’uomo beffardo, al che la vecchia cominciò a gridare come una forsennata che non voleva rimanere lì dentro e che le cambiassero cella e non si arrese fino a che il suo desiderio venne esaudito.

    – Brutta strega, volevi farmi uno dei tuoi sortilegi, ma non illuderti presto creperai – urlò mentre la portavano via.

    Menica rimase da sola in compagnia di topi e scarafaggi che non disdegnavano di passeggiarle accanto e sopra i piedi nudi. Le spalle contro il muro, gli occhi chiusi, il suo bambino… dove l’avevano portato? Faustina le aveva fatto più male di tutta quella gente che l’aveva aggredita con le mazze e i forconi: l’aveva privata di suo figlio. Adesso il suo unico desiderio era sapere se era vivo e stava bene. Nell’oscurità della cella il sonno l’avvolse e sognò.
    Una folla infuriata bussava alla porta di Faustina; doveva mettersi in salvo, ma invece di andare al nascondiglio segreto, uscì dalla porta che dava al giardino. Si ritrovò accanto all’albero di melograno e cominciò a scavare con una pala che era poggiata lì accanto, poi intravide un panno bianco e continuò a scavare con le mani. Aperto il fagotto di stracci in cui era avvolto, il bambino aprì gli occhi e le sorrise. Era vivo. Lo sollevò in aria felice e poi lo strinse al petto, ma la folla la raggiunse e glielo strappò di mano, scaraventandola a terra.
    Si svegliò di soprassalto.


    Il rumore della catena che veniva tolta dalla porta e lo scatto del catenaccio annunciò l’arrivo di qualcuno. L’apertura della porta portò una ventata di muffa, mista a odori maschili aspri di sudore e tabacco.
    Le guardie fecero il loro ingresso accompagnando alcuni uomini: il Vicario del Santo Uffizio, due monaci domenicani col cappuccio in testa e le braccia infilate nella tonaca e un giudice inquisitore.

    Prima di vedere il naso adunco del Vicario Pontificio, Menica, seduta per terra con il dorso appoggiato alla parete, vide le scarpe nere con la grossa fibbia d’argento che risuonando sul pavimento in terra battuta avanzavano verso di lei. Un inserviente porse all’uomo uno sgabello di legno, fu l’unico a rimanere seduto mentre gli altri, scortati dalle guardie e gli inservienti, la guardavano dall’alto in basso.
    Il Vicario sedette davanti alla donna. Era imponente con la sua giacca scura rifinita di bottoni dorati, dalla quale spuntava una camicia bianca, ricca di pizzi e merletti, odorosa di bergamotto. L’uomo si schiarì la voce e con aria solenne lesse da un documento in suo possesso proclamando:
    – Menica Remi, sei accusata dei seguenti misfatti: dopo esserti unta di grasso di avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini lattanti, hai invocato il demonio, che ti è apparso sotto forma di caprone e ti ha presa in groppa per condurti al Sabba, sotto il noce di Benevento, al quale partecipavano moltissime streghe e demoni, con a capo Lucifero…

    Menica lo guardava incredula. Dovevano essere tutti pazzi, il fiato dell’uomo le arrivava addosso, arido e stridente come le sue parole e il suo naso adunco, alla luce delle torce, pareva deformarsi in maniera spaventosa, e anche i monaci vestiti di bianco e i gendarmi presenti nella cella sembravano demoni, con gli occhi iniettati di sangue.

    Quando l’uomo le intimò: – Confessa! Donna del diavolo!

    Lei urlò il suo: –No! – con quanto fiato aveva in gola.

    Non aveva fatto i conti con le torture che l’Inquisizione aveva a disposizione per estorcerle la confessione di essere una strega. Quando calò la sera due guardie, dopo averle liberata la caviglia, la scortarono attraverso una scala e ancora più lugubre di quella che l’aveva condotta alla cella. Erano le segrete, un luogo misterioso dove strani marchingegni erano stati collocati in modo da occupare una vasta stanza e persino dislocati lungo le pareti. Facevano paura solo a guardarli.

    Un frate domenicano dava ordini ai carnefici e si lamentava di dover perdere del tempo prezioso, ne aveva visti tanti di prigionieri passare in quella stanza e c’era un gusto perverso e demoniaco che lo invadeva quando vedeva le carni straziate di quelle persone che in ogni caso erano destinate a morire.

    – Se fosse per me, userei subito la Vergine di Norimberga e tutto sarebbe finito – confidò a uno dei giudici, ma il Vicario vuole che la strega confessi, ha detto di andarci cauti – borbottò.

    Menica sapeva di dover affrontare un dolore indicibile, ma si preparò a farlo con la forza interiore che sempre l’aveva sorretta. Le attorcigliarono strettamente i capelli attorno a un lungo bastone. Uno dei suoi carnefici girava l’attrezzo in tondo, attorno alla sua testa, in modo da tirare con forza i capelli dalla base del cranio provocando un enorme dolore. Alla donna sembrava che le stessero strappando la cute del capo, ma sopportò il dolore.
    E agli incitamenti a confessare rispondeva sempre: – No!
    Il frate infuriato la fece portare di nuovo nella cella, ordinando che non le fosse dato nulla da mangiare o da bere. La notte Menica sentiva la testa in un infuocato dolore che le impediva di chiudere gli occhi e con gli occhi sbarrati pensava alla sua vita e all’unica fioca speranza di poter cercare il suo bambino, se non confessava, forse, sarebbe stata salva.

    Il giorno dopo vennero di nuovo a prenderla per condurla di nuovo nelle segrete. Menica fu fatta sedere su una sedia, taceva ostinata, alle domande che le rivolgevano, fin quando vide i suoi giudici avvicinarsi a lei con uno strano strumento. Uno dei carnefici le teneva ferma la mano e l’altro con qualcosa simile a una tenaglia, le lacerava le unghie fino a strapparle, una dopo l’altra fino a che le sue mani furono solo degli ammassi informi. Infine poi le infilarono degli aghi nelle falangi, infierendo ulteriormente su di lei. Le sue grida acute, altissime, strazianti, risuonarono nella vasta sala, isolata da tutto e da tutti, solo una piccola eco giungeva attraverso gli stretti cunicoli alle celle dove erano rinchiusi gli altri prigionieri.

    – Scommetto che adesso confesserai… – riprovò di nuovo a dirle l’inquisitore.

    Al suo –No! – disperato, il frate, sempre più infuriato, disse alle guardie.

    – Basta, per adesso, riportatela nella sua cella! –

    Il giorno dopo passò senza che nessuno venisse a prelevarla per le torture o a vedere se, dopo quello che le era stata inflitto, era viva o morta. Verso sera però il cigolio della cella che si apriva le annunciò che stava per affrontare un’ulteriore tortura. La legarono stretta e la immersero in un fossato pieno di acqua e fango. Aveva mani e piedi legati e con una corda fissata alla vita venne calata nel fossato compresa la testa e poi tirata fuori e i suoi aguzzini continuarono per tutta la notte quel gioco macabro e crudele. Poi prima che perdesse i sensi la riportarono in cella e un carceriere le diede qualcosa da bere.

    –Bevi! La tua sporca anima si purificherà.

    Le avevano dato da bere acqua calda, carbone e sapone.

    Appena assaggiato con la forza della disperazione sputò quell’orrendo miscuglio in faccia al frate che scrutava ogni minima reazione per coglierla in fallo.
    Il giorno dopo c’era di nuovo il gruppetto di giudici pronti a estorcerle la sua confessione. Nelle segrete la trascinarono che a stento si reggeva in piedi.

    – Allora vediamo se questa megera vuole confessare o vuole sperimentare qualche nuova macchina– disse il Vicario.

    Gli strumenti in quella stanza erano spaventosi e alcuni avrebbero decretato la sua morte certa. Menica stava diventando pazza, ormai non sapeva più chi fosse e all’ennesima richiesta dell’inquisitore: – Allora confessa, amica di satana…

    Lei rispose beffarda: – Ti sbagli lurido cane, io non sono l’amica, io sono Satana!

    Aveva confessato. La sua sorte era quindi decisa.

    In una camera accanto a quella delle torture il carnefice le passò un laccio attorno al collo stringendo fino a lasciarla quasi tramortita, era necessario che fosse il meno lucida possibile, poi le fecero indossare un saio nero. Si preparavano a bruciarla sul rogo.
    Con mani e piedi legati venne caricata a bordo di un carretto e fece il viaggio inverso dalla prigione al villaggio, attraverso i viottoli fangosi delle stradine che fiancheggiavano la boscaglia.
    Era il suo ultimo viaggio, ma ormai il mondo le faceva orrore. Sentiva il profumo della campagna che il vento trasportava, chiuse gli occhi per portarlo con sé. Il suo bambino era da qualche parte ne era sicura. Ma lei l’avrebbe cercato e gli sarebbe rimasta accanto e se era una strega, come tutti dicevano, l’avrebbe fatto.

    Una folla incredula e curiosa si era assiepata accalcandosi attorno alla piazza, tenuta a bada dai soldati che con le loro armi avevano il compito di contenerli. Sguardi attenti sbirciavano dietro le teste e i cappelli per non perdere l’arrivo della condannata. Ognuno spingeva per occupare la postazione migliore in modo da poter assistere al macabro spettacolo. Ministri di giustizia, guardie con le loro baionette in prima fila, e dietro il popolo che era spaventosamente eccitato, c’erano tutti: poveri e nobili, che con gli occhi avidi attendevano l’arrivo della condannata.
    I loro bisbigli sommessi riempivano la piazza dove era stata allestita una pira con al centro un grosso palo. Rami e fascine ammucchiate tra ciocchi più massicci si ergevano verso l'alto, la catasta era come un grosso idolo che aspetta il fuoco del sacrificio.
    Rami uncinati fremevano al vento, le foglie si sollevavano dal loro letto ai piedi degli alberi della piazza e rotolavano veloci verso la pira. Un gelo strano, proveniente dalla la foresta fitta di boschi di abeti e faggi che circondava il paese, calò all'improvviso su tutti i presenti; si respirava qualcosa di innaturale.

    Ed ecco Menica con i polsi legati, un saio nero e i suoi capelli, unti e arruffati, ondeggianti al vento, venne condotta barcollante al centro del raduno con i polsi legati. C’era Nena e Anselmo, il fabbro, le stesse persone che aveva aiutato a far venire al mondo i propri figli, c’era Faustina con lo sguardo spento e accanto a lei un giovane con una cicatrice sul volto. Dal lato opposto si vedevano le autorità e i nobili del luogo, la duchessa Alberta col cappello piumato, il conte Emiliano, altero nella sua giamberga di raso e la camicia bianca ricamata, sua moglie altera in abito nero, coi capelli acconciati in boccoli, si stringeva vezzosa nel suo scialletto di pizzo incrociato sul petto.
    Grida algide risuonarono nell’aria. Tutti erano lì per accusarla e vederla punita.

    –Al rogo!

    – Strega!

    Il giudice annuì. Lei vacillante aveva gli occhi stravolti e con disprezzo guardò tutti.

    – Tornerò! – disse.

    L’inquisitore le si avvicinò e ordinò che le venisse scaricato addosso del catrame e fosse legata al palo posto in mezzo alla catasta di legno.

    –Accendete il fuoco! – fu l’ultimo ordine.

    Le fiamme si alzarono alte e in poco tempo svettarono nel cielo. E di nuovo si udì un grido che fece accapponare la pelle dei presenti: ¬–Tornerò!
    Improvviso un vento vorticoso alimentò le fiamme scintille e rami infuocati cominciarono a volare dappertutto, sotto gli occhi sbarrati della folla che arretrò impaurita.
    Emiliano, lesto, ordinò alla moglie e alla marchesa Alberta di raggiungere la carrozza scortate dai servitori. Lui invece corse a recuperare il suo cavallo, che nitriva impaurito tra il fumo e il clamore che si è venuto a creare. Montò in sella e partì al galoppo cercando di mettersi in salvo.

    Una scintilla infuocata raggiunse un lembo della sua camicia di seta che s’infiammò, provò a tirare le redini per fermarsi, ma il cavallo glielo impedì… era come se andasse per conto suo. Sospinto da una forza incontrollabile sollevava le zampe insieme a un turbinio di polvere.

    Mentre sentiva la stoffa bruciata ardergli sulla pelle si rese conto di essere arrivato al fiume. Qui il cavallo si fermò e l’uomo cercò conforto bagnandosi nel fiume gelido. La mente ottenebrata, confusa, gli faceva fare gesti inconsulti, scivolava continuamente nell’acqua cercando appigli, continuava ad agitarsi e a dibattersi fino a che lo spadino al suo fianco si incastrò tra le pietre e il limo e lo spinse giù, poi le forze vennero meno e non si dibatté più.

    Edited by Esterella - 28/11/2020, 17:34
  8. .
    Letto con interesse questo tuo testo ci raccontarci la storia dell'umanità a partire dal sesto giorno della creazione, a quanto ho capito. Le creature sono tutte istinto, vivono di odori, di segnali d'allerta per la sopravvivenza, di pulsioni sessuali tipiche della specie. E quel primate non è certo il il più forte deve fuggire con le agili braccia, per salvarsi. Scopriamo così l'esistenza di un fungo che ha poteri terapeutici e non solo.
    Si risveglia la coscienza dell'essere primitivo e scopre la bellezza del mondo oltre l'istinto.
    Piaciuto senz'altro e per come è scritto ha quasi le caratteristiche di una favola per sognatori.
    Credevo cominciassi dal principio e non dal sesto giorno, però credo che tu non voglia creare un racconto che faccia discutere sull'esistenza di Dio, ma ripercorrere piuttosto la storia dell'uomo, il suo passaggio dall'istinto primordiale ad altro.
    Le descrizioni sono molto accurate, tutto espresso in maniera chiara nei particolari.
    il vento caldo portava con se, credo manchi l'accento al sé.
    Credo che diventerò una tua fan. :emoticons-saluti-6.gif?w=593:
  9. .
    Ciao tom, per uno come te che andava a capo troppo spesso leggere un racconto muro di parole che trasporta un flusso di coscienza è strano. Il protagonista ha èperso se stesso o forse ne ha trovato uno nuovo, diverso che gli sta affianco e che a bisogno di un secondo caffè. La parte femminile è sempre più affascinante, perchè è quella che fa domande, che vuole sapere, che mette nudo. E leggere i tuoi racconti ha sempre qualcosa di speciale. Grazie amico. :noviolence.gif:
  10. .
    CITAZIONE (Petunia @ 23/11/2020, 10:12) 
    Ciao Ester! Ti passo alcune impressioni

    CITAZIONE
    sorriso.
    – Ciao cucciola, allora come stai? Cerca di resistere ancora un poco sarò di ritorno. Stanotte ho sognato che passeggiavo tra l’erba, ne sentivo persino l’odore: era quella del nostro giardino. Solo che quei fili verdi sintetici che adesso sono nel nostro prato non hanno alcun odore e io lo immagino solo dai racconti di mio padre. Ma sto divagando, ricordati che ti amo e mi raccomando non dire al piccolino che sta nella tua pancia che suo padre è uno scienziato pazzo…

    Come telefonata dallo spazio ė davvero un po’ incredibile. Cerca di resistere ancora un poco sarò di ritorno . Questa frase non torna. Manca qualcosa. , una virgola dopo cerca di resistere aiuterebbe. Oppure un punto.
    CITAZIONE
    Solo che quei fili verdi sintetici che adesso sono nel nostro prato non hanno alcun odore e io lo immagino solo dai racconti di mio padre.

    questa parte in cui l’autore dà informazioni, non mi convince. (Infodump?)

    CITAZIONE
    quando sento il bimbo nel mio pancione

    il possessivo non serve

    CITAZIONE
    Si fa presto a dire sto con te. I rapporti tra le persone non possono essere a distanza. Aveva bisogno di sentire la mano di lui nella sua, di comprendere le emozioni che provava guardandolo negli occhi.

    anche questa incursione del narratore onnisciente rallenta la lettura e toglie ritmo.

    CITAZIONE
    – Tuo papà era uno scienziato, sai, un grande uomo e adesso si è disperso nell’universo di cui cercava di scoprire i misteri. Ma lui non ci ha abbandonati, lo ritroveremo in ogni particella viva che incontreremo e parleremo al mondo del bene che lui ha sempre cercato per l’umanità.
    Si avvicinò alla finestra e le apparve un cielo incredibilmente azzurro. Forse Alex faceva parte di quel cielo e pure nell'angoscia del dolore insopportabile che provava riuscì a trovarlo bellissimo.
    “È il sorriso di Alex” pensò.

    La chiusa è molto bella c’è tutta la poesia che trovo sempre nei tuoi scritti. La fantascienza è tanto lontana da te.

    Un abbraccio e a rileggerci.

    grazie Pet, hai visto giusto. :noviolence.gif:
  11. .
    Riveduto aggiungendo dialoghi , correggendo i tempi verbali e le caratterizzazioni seguendo i consigli di Molli, spero di averlo migliorato. :noviolence.gif:
  12. .
    CITAZIONE (Molli Redigano @ 22/11/2020, 12:33) 
    CITAZIONE
    Lucciole pietose accendevano il buio, divampando qua e là come spiritelli dispettosi.

    Poverette le lucciole.

    CITAZIONE
    –Domani verranno i tuoi zii a prenderti e andrai a vivere con loro – disse la donna.

    E' l'unico dialogo che hai utilizzato. Vista l'impostazione che hai dato alla fiaba, non è molto funzionale. Un dialogo sta bene in mezzo ad altri dialoghi a mio parere. E' anche vero tuttavia, che il dialogo da più forza, più peso, a questo passaggio cruciale della vita di Bettina.

    CITAZIONE
    La donna accettava con gratitudine i sacrifici della sua bambina, ma con le lacrime agli occhi e il cuore in pena, purtroppo da quando suo marito era morto era stata costretta a lavorare e quella povera creatura aveva dovuto patire insieme a lei. Aveva dovuto lasciare la scuola, troppo lontana dalla loro casa di campagna, prima l’accompagnava il padre, ma ora che lui non c’era più, non poteva mandarla da sola a piedi per chilometri, né poteva permettersi di pagare l’abbonamento dell’autobus. Per questo lavorava febbrilmente da mattina a sera facendo anche doppi turni, da un podere all’altro e da un padrone all’altro. Sperava di poter mettere qualcosa da parte, per poter rimandare la bambina a scuola.

    "Con le lacrime agli occhi e il cuore in pena, la donna accettava con gratitudine i sacrifici della sua bambina. Dalla morte del marito, la giovane madre fu costretta a lavorare e la povera creatura dovette patire la sua assenza. Lavorava febbrilmente da mattina a sera facendo anche doppi turni, da un podere all'altro, da un padrone all'altro. Sperava così di mettere qualcosa da parte per mandare la bambina a scuola. La loro casa di campagna era molto distante e nessuno poteva accompagnarla. Non poteva permettersi l'abbonamento dell'autobus, né poteva far andare la piccola sola, a piedi, per quel lungo tragitto."

    Mi son permesso un editing. In punta di piedi eh.

    CITAZIONE
    Dovendo stare sempre fuori casa, Elsa aveva raccomandato alla sua vicina di tener d’occhio Bettina. La donna aveva accettato con piacere, ma, avendo cinque figli a cui badare, aveva chiesto che la ragazzina andasse a casa sua, nelle ore in cui Elsa era al lavoro nei campi. Bettina era andata dalla vicina una volta sola, dopo di che non aveva voluto più allontanarsi dal suo vecchio casolare e a volte passavano giornate intere senza che la donna, che doveva prendersi cura di lei, avesse la più pallida idea di come trascorresse il suo tempo.

    In questo passaggio utilizzi molto il trapassato prossimo: "aveva raccomandato", "aveva accettato" "aveva chiesto". Secondo me appesantisce. Potresti sostituirlo con il passato remoto.

    Mi hai incuriosito: come trascorreva il tempo Bettina nelle sue giornate di solitudine?

    CITAZIONE
    Aveva paura Bettina, una paura che non capiva, ma che le era apparsa all’improvviso, quando il figlio maggiore della vicina, quattordicenne, l’aveva guardata con un’aria da ebete. La prima volta che era stata a casa loro, a tavola, si era seduto accanto a lei e lo aveva sorpreso a guardarla e ad annusarle i capelli, poi aveva accostato il gomito al suo senza farsene accorgere dalla madre, affaccendata ad allattare l’ultimo nato. Da allora si era rifiutata di andare a casa della vicina e preferiva stare da sola a sbrigare le faccende di casa.

    Un giorno mentre tirava su l’acqua dal pozzo col secchio aveva sentito un rumore. Era il figlio della vicina che di nascosto la stava osservando, impaurita aveva cominciato a correre verso casa e nella corsa l’acqua si era riversata dal secchio, bagnandola tutta.
    Lui era uscito allo scoperto e aveva cominciato a rincorrerla, allora la ragazzina aveva gettato via il secchio e raggiunto l’uscio di casa si era chiusa dentro, infilando la spranga di ferro dietro la porta. Sua madre la sera l’aveva rimproverata per l’acqua caduta. Lei aveva chiesto scusa, tacendo le sue paure, non voleva turbare quella poveretta che tornava a casa stremata di fatica.

    Era per questo che ora che sua madre era morta aveva pregato la Madonna che trovasse per lei un rifugio sicuro e che non la facesse rimanere in quel luogo che la intimoriva.
    Le candele attorno alla morta si erano quasi spente e la vicina, che si era svegliata, aveva cominciato a recitare il rosario.

    Questa è la parte più efficace della tua fiaba. Nel senso della psicologia del personaggio. Bettina rimane traumatizzata dall'approccio dell'arzillo quattordicenne figlio della vicina, ambizioso e guardone. Ne consegue un altro valido motivo per allontanarsi da quella casa e cercare un rifugio sicuro. E' in atto un profondo cambiamento nella vita di Bettina, piccola, orfana e innocente. Eventi che lasciano il segno nella protagonista e che penso ritroveremo nel prosieguo.

    CITAZIONE
    Era per questo che ora che sua madre era morta aveva pregato la Madonna che trovasse per lei un rifugio sicuro e che non la facesse rimanere in quel luogo che la intimoriva.
    Le candele attorno alla morta si erano quasi spente e la vicina, che si era svegliata, aveva cominciato a recitare il rosario.

    "Per questo motivo, morta sua madre, Bettina aveva pregato la Madonna affinché trovasse per lei un rifugio sicuro, lontano da quel luogo che la intimoriva. Le candele attorno alla defunta erano quasi spente e la vicina, appena ripresasi dal suo assopimento, iniziò a recitare il rosario."

    (:

    La vita che aspetta Bettina non sembra possa diventare, da come descrivi gli zii, spensierata e felice come dovrebbe esserlo per una bambina. Insomma, le premesse non erano buone. Nel finale però cambi le carte in tavola: quegli zii sconosciuti non sono poi così estranei e il luogo dove abitano è la natura che Bettina non ha mai visto.

    Mi scuso se ti ho fatto un po' di pulci. Mi sto allenando per bicipit dove spero di leggerti. ;P

    Attendo dunque il seguito della storia di Bettina con curiosità.

    Grazie

    FELICISSIMA, Molli, di questo tuo intervento. In realtà è una storia che ha bisogno ancora di molta ossatura . Un racconto favolistico, se così si può definire, scritto per ragazzi dagli otto anni in su.

    Un attimo dopo averlo postato ho notato l'assenza di dialoghi. Questa doveva essere la parte introduttiva, ma poi si è allungata e quindi ha bisogno di più dialoghi e più caratterizzazione dei personaggi.
    Gli zii sono due ignorantoni, rudi, che non le renderanno la vita facile tanto che lei scappa e qui comincia di nuovo la sua ricerca di un luogo sicuro e lo trova in modo inatteso e un po' fantasioso

    Grazie per le tue osservazioni di cui farò tesoro. Un abbraccio. :pazzo.gif:
  13. .
    Racconto favolistico per ragazzi dagli otto anni in su.

    Lucciole pietose accendevano il buio, divampando qua e là come spiritelli dispettosi. Bettina le seguiva confidando in quella luce che prometteva sollievo e dava un segno di speranza.

    Sua madre Elsa, composta nel letto immobile, sembrava dormire. Il volto dolce e rilassato aveva trovato la sua armonia nel dolce rifugio della morte.
    La loro vicina, Sara, l’unica persona che fosse venuta a vegliare la defunta, seduta accanto a lei, sonnecchiava e il capo le crollò sul petto facendola risvegliare.
    L’aria era satura dell’odore dei fiori, immersi nei secchi d’acqua ai piedi del letto e della cera delle candele che bruciavano.

    — Domani verranno i tuoi zii a prenderti e andrai a vivere con loro a San Vitorino. Hanno due figli un maschio e una femmina più o meno della tua età. — disse la donna.

    Bettina annuì. Le sue preghiere erano state accolte, non c’era niente in quel luogo che la tenesse legata, oltre al corpo morto di sua madre.

    La donna accanto a lei ricominciò a sonnecchiare sopraffatta dal mormorio della preghiera.
    ؙ
    —Eterno riposo donale Signore…

    Bettina aveva solo otto anni ed era rimasta sola. Accarezzò sua madre, le sistemò i capelli neri sulla fronte, le sfiorò le mani bianche, gelide, rovinate dal lavoro… ora avrebbe riposato per sempre. Era ancora giovane la sua bella mamma. Quanti sacrifici aveva fatto da quando era morto suo padre, sei mesi prima.

    ***

    Ogni mattina prima dell’alba il fattore mandava a prendere Elsa con un furgoncino e dopo aver raccolto tutte le braccianti che occorrevano per il lavoro nei campi, portava le donne a raccogliere verdura e frutta di stagione. Tornava a casa a sera distrutta e trovava Bettina, che nonostante l’età cercava di tenere la casa pulita e cucinarle un boccone.

    — Dovrai essere coraggiosa Bettina. So che ami andare a scuola, appena avremo qualche spicciolo in più tornerai a studiare.

    La loro casa di campagna era molto distante e lei non poteva accompagnare la piccola a scuola dovendo uscire di casa molto presto. Non poteva permettersi l'abbonamento dell'autobus, il denaro lasciatole dal marito bastava appena per mangiare, né poteva far andare la piccola sola, a piedi, per quel lungo tragitto.

    — Non preoccuparti mamma. Ce la faremo — le disse una sera.
    Elsa si tormentò le mani cercando di non farlo notare.
    Con le lacrime agli occhi che cercava di trattenere e il cuore in pena, Elsa accettò con gratitudine e dolore il conforto della sua bambina.

    Lavorò febbrilmente da mattina a sera facendo anche doppi turni, da un podere all’altro e da un padrone all’altro. Sperava nella bella stagione, ricca di raccolti, che offriva lavoro a piene mani

    Dovendo stare sempre fuori casa, raccomandò alla sua vicina, Sara, di tener d’occhio Bettina. La donna accettò con piacere, ma, avendo cinque figli a cui badare, chiese che fosse la ragazzina ad andare a casa sua, nelle ore in cui Elsa era al lavoro nei campi.

    Ogni mattina, Bettina, dopo aver sbrigato qualche piccola faccenda si avviava lungo il viottolo che portava dalla vicina. Camminava tra campi di erbetta verde luminoso, gli uccellini cantavano tra i rami degli alberi, quasi accompagnando i suoi passi fra i fili d’erba fruscianti.

    I riccioli biondi erano tenuti dietro le orecchie da un nastro rosso. Sua madre le aveva insegnato a lavarli con cura e a farli asciugare al sole durante la bella stagione. Il vestito leggero era quello bianco a fiori, il suo preferito. Tutti i suoi abiti erano variopinti, sua madre aveva voluto che lei fosse colorata, come una farfalla e non indossasse abiti neri, come voleva la tradizione quando un bambino perdeva un genitore.

    Nella squallida cucina di Sara i bambini litigavano e giocavamo rumorosi.
    Erano tutti scuri di carnagione e di capelli, col moccio al naso e le ginocchia sbucciate. Il figlio maggiore quattordicenne si atteggiava, però, già a grande e a volte si spruzzava di dopobarba. L’ultimo nato prendeva ancora il latte materno ed era roseo e paffutello, cominciava a fare strani gorgheggi e a Bettina piaceva intrattenersi con il bimbo il braccio.
    – Rico! Piccolo! Brum! Brum!
    E lo faceva volteggiare stando attenta a non farlo cadere e il bimbo rideva.
    Elsa passava a prenderla tornando dal lavoro e tornavano a casa insieme.

    Poi Bettina cominciò ad avere paura, una paura che non capiva, ma che le era apparsa all’improvviso e che non riusciva a scacciare.
    Il figlio maggiore della vicina, che l’aveva guardata con un’aria da ebete fin dalla prima volta che era stata a casa loro, quel giorno, a tavola, sedette accanto a lei. Lo sorprese a guardarla e ad annusarle i capelli, poi accostare il gomito al suo senza farsene accorgere dalla madre, affaccendata ad allattare l’ultimo nato.
    Quando Sara alzò gli occhi notò il piatto della ragazzina intatto.
    — Non ti piace la cicoria, Bettina? Non hai mangiato nulla…
    — Non ho fame — rispose la bambina con gli occhi bassi.

    Quella sera Bettina disse a sua madre.
    — Domani non vado da Sara, mamma.
    — E per quale motivo?
    La bambina senza guardare la madre rispose:
    — Trascuro troppo casa nostra e poi ho trovato i miei vecchi libri di scuola che voglio leggere, non vorrai mica una figlia ignorante?
    Nonostante sua madre cercasse di sapere il vero motivo la bambina non cambiò la sua versione e lei dovette crederle, sua figlia non aveva mai detto bugie.

    Da allora non volle più allontanarsi dal suo vecchio casolare e a volte passavano giornate intere senza che nessuno avesse la più pallida idea di come trascorresse il suo tempo. In realtà aveva davvero cominciato a rifugiarsi nei libri. Era affascinata dal senso delle parole, ma aveva scoperto qualcosa di più bello che le permetteva di creare immagini. Raccattava fogli bianchi dentro casa e con una matita sempre più consumata disegnava gli alberi, i fiori, la sua casa, tutto ciò che la circondava. Stava bene da sola, ma anche un piccolo scricchiolio la faceva sussultare, non si sentiva al sicuro.

    Un giorno mentre tirava su l’acqua dal pozzo col secchio sentì un rumore. Era il figlio della vicina che di nascosto la stava osservando, impaurita corse verso casa e nella corsa l’acqua si riversò dal secchio, bagnandola tutta.
    Lui era uscì allo scoperto e cominciò a rincorrerla, allora lei gettò via il secchio, raggiunse l’uscio di casa e si chiuse dentro, infilando la spranga di ferro dietro la porta.
    – Bettina aspetta, volevo solo darti le ciliegie. Ne ho raccolto un cesto.
    — Lasciale vicino alla porta e vattene a casa tua!
    — E su, apri!
    —No! Se non te ne vai non apro!
    Rimase dietro la finestra fino a quando non lo vide andare via e aprì la porta solo quando scorse in lontananza sua madre che tornava dal lavoro.
    — Bettina che è successo, il secchio rovesciato, il cestino di ciliegie fuori la porta…
    — Scusa, mamma. È entrato un cane randagio che ringhiava cattivo e io mi sono spaventata e ho lasciato cadere il secchio. Le ciliegie le ha mandate Sara, ma io avevo paura del cane e ho lasciato tutto lì.
    Troppo stanca per mettersi a discutere con la figlia, sospirò e andò a tirar su l’acqua dal pozzo.

    ***

    Era per questo che ora che sua madre era morta aveva pregato la Madonna che trovasse per lei un rifugio sicuro e che non la facesse rimanere in quel luogo che la intimoriva.

    Le candele attorno alla morta si erano quasi spente e la vicina, che si era svegliata, aveva cominciato a recitare il rosario.
    Anche Bettina pregava e si chiedeva perché il mondo così colorato era diventato per lei d’un tratto tutto nero.

    — Ora sei orfana di padre e di madre e non puoi portare quei vestiti festosi, devi vestirti a lutto.

    — Anche se sono una bambina, Sara.

    — Sì — aveva detto la donna con serietà.

    Così tutti gli indumenti compreso i nastri per capelli e l’abito a fiori che Bettina amava tanto erano finiti a bollire in un enorme calderone di acqua bollente dove la donna aveva disciolto una polverina che aveva colorato tututto di nero.
    Asciugato al caldo sole estivo il suo corredo di orfana era pronto.

    Il giorno dopo ci fu il funerale di Elsa e il doloroso distacco della bambina da sua madre. Erano già in chiesa quando nel religioso silenzio della funzione arrivarono gli zii.
    Sandrone, così chiamato perché grande e grosso, col nasone schiacciato e le lunghe gambe che parevano alberi, e Felicita, vestita di scuro, i capelli raccolti, le sopracciglia folte e una peluria scura sul labbro superiore.
    Contriti e pensierosi assistettero al funerale.
    Avevano entrambi un’espressione buffa come due che sono capitati per caso in quel luogo e non sanno cosa dire o fare.
    Lui a testa bassa si guardava le scarpe nere, forse quelle del matrimonio, che fuoriuscivano da un paio di calzoni marrone un po’ corti.
    Lei con le braccia massicce incrociate stava accanto al marito rigida e corrucciata.
    Certo una persona in più in famiglia non era proprio una cosa piacevole, nella loro misera condizione, ma erano gli unici parenti della bambina e lui in qualità di fratello maggiore di Elsa, aveva dovuto assolvere al compito di prendersi cura della bambina.
    Finito l’officio religioso lo zio Sandrone si avvicinò a Bettina e pose le mani rozze, pesanti, una su una spalla e una sull’altra come se volesse confortarla.
    — Non somigli per niente a mia sorella, sei tutta tuo padre — disse con l’aria di chi ha fatto una grande scoperta.
    Stava per dire altro, ma la zia Felicita lo scansò. Si avvicinò alla bambina con quel suo faccione e i baffetti ispidi sul labbro e l’abbracciò stretta, quasi commovendosi.
    —Starai bene con noi. Vedrai. — sussurrò.
    Poi si riprese subito dallo slancio emotivo e guardò suo marito infastidita.

    Erano venuti a prenderla con una moto ape e Bettina, per non stare insieme a quei due che erano per lei quasi degli estranei, li aveva visti solo tre volte in vita sua, chiese agli zii di poter sedere nel rimorchio assieme alla poche cose che le appartenevano e avrebbe portato con sé. Il veicolo procedeva nella campagna traballando sulla strada sconnessa, e a causa dei continui scossoni la ragazzina dovette reggersi al bordo del cassone, per rimanere in equilibrio e non finire lunga distesa. Si allontanavano dalla casa dove era sempre vissuto procedendo verso il paese vicino, a casa degli zii, dove lei non era mai stata e dove avrebbe trovato i suoi due cugini. Intanto si guardava intorno, scoprendo quel bosco che aveva osservato da lontano fino a quel momento, ne vedeva i colori, ne sentiva gli odori.

    Era bello tutto quel verde della campagna, profumava di terra, di sole, di vita, eppure era stato proprio in una giornata luminosa che il cuore di sua madre si era fermato e lei era crollata su quelle zolle di terra dove stava lavorando. Gli occhi di Bettina si riempirono di lacrime, il vento le asciugava e le portava via allontanandole dal suo cuore bambino.
    La strana coppia formata da quelli che erano i suoi zii, discutevano animatamente e specie la donna strillava, inveendo contro il marito in maniera che le parve buffa. Riuscì a sentire solo una frase.
    — Ma hai visto, quanto è magra?

    Parlavano di lei.
    La voce di zia Felicita aveva sovrastato lo scoppiettio del veicolo e le era arrivata distorta.
    E ripensando al loro aspetto pittoresco, le spuntò un sorriso.

    Edited by Esterella - 23/11/2020, 10:10
  14. .
    CITAZIONE (Maddalena @ 21/11/2020, 17:18) 
    Un testo dolorante e lacerante in un crescendo di stati d'animo diversi. .Interessante il percorso di una delusione fono allo struggimento finale del bacio quasi magico. Piacevole, ma troppo cupo e non permette a chi legge il necessario distacco.

    Grazie Maddalena, a volte i racconti nascono così è questo un po' cupo lo è, ma alla fine c'è sempre una speranza. :emoticons-saluti-6.gif?w=593:
  15. .
    Molto bello questo tuo racconto. la colonna sonora che lo accompagna dall'inizio alla fine è uno dei miei brani religiosi preferiti, che amo cantare in chiesa nel coro di cui faccio parte. C'è l'amore infinito del Signore nei confronti di ogni creatura , senza nessuna distinzione. Certo ci sono quei momenti di sconforto che sembrano annullare ogni cosa, ma poi basta poco e la vie del Signore sono infinite.
    Solo un dubbio su questo testo: l'omosessualità sembra entrarci poco e viene trattata in maniera sommaria, forse avrebbe avuto bisogno di più spazio. Ma questo è un racconto breve è il mio è solo un parere.
    :noviolence.gif: :mazzate.gif:
272 replies since 6/9/2020
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