Scrittori per sempre

Votes taken by B&S

  1. .
    Diamoci da fare,gente ;).
  2. .
    Grazie di cuore a tutti voi :)
  3. .
    “Registrazione 45, inizio”.
    Crepitii.
    “Il concetto di Storia come continuità di eventi esiste da relativamente poco: 4000, forse 5000 anni; prima non ci è dato sapere. Non abbiamo idea se i nostri antenati avessero una percezione del tempo come flusso in avvenire, o se considerassero il mondo, la civiltà, come uno stallo perpetuo, qualcosa di sempre uguale e immutabile”.
    Un respiro profondo, occhi socchiusi.
    “La Storia è un torrente soggetto a mutazioni anche straordinarie, le basi stesse della vita possono venire stravolte in maniera sensazionale nello spazio di meri anni. Qui”, un’occhiata intorno, nervosa, alla giungla dello Yucatan, “Ci sono le risposte a molte delle domande che non ci siamo mai posti nel modo corretto”.
    Pausa.
    “Registrazione 45, fine”.
    Saleen si mosse, cauta, attraversò lo spiazzo erboso nel quale la vegetazione diradava e gli alberi apparivano coperti di licheni. Si fermò a ridosso di un tronco caduto, ascoltò la natura, il cinguettare accanito degli uccelli: qualcosa nell’aria, una sensazione, la fece irrigidire. Un odore, leggero assieme acre. L’aroma inconfondibile dello sterco.
    Tolse dalla tracolla il folgoratore e, con calma, rimosse la sicura.
    Umettò le labbra in un gesto distensivo prima di avviarsi, a passo lento, verso il declivio.

    **


    “Suggestioni”. Tsabo scosse il capo, inquieto, occhi mossi sulla distesa di sabbia candida agitata dal vento, a perdita d’occhio. “Retaggi. Più mi avvicino a questo luogo più mi rendo conto che la mente vaga all’indietro, alla cieca, come cercasse di ricongiungersi a un pezzo del nostro passato comune, un elemento mancante. Un fulcro”.
    Inspirò l’aria secca, calda come e più del sole pomeridiano incastonato tra i cirri.
    “Avevi ragione, Saleen. C’è un errore alla base della concezione di Storia. Abbiamo dato per scontato un elemento che scontato non è affatto”.
    Lasciò viaggiare lo sguardo perché immortalasse lo squallore del paesaggio intorno, la sabbia, le rocce frastagliate. Le rovine: i resti di una stazione di ricerca abbandonata da almeno due secoli, in buona parte interrata nel deserto del Sinai.
    Un brivido prima di avviarsi, le impronte dei suoi passi sul terreno.

    **


    Una mano a scostare le frasche, liberare l’entrata di un modesto tunnel, un passaggio naturale scavato tra le rocce. Saleen scrutò con occhio clinico il condotto, poi dietro di sé, l’idea fissa di essere osservata.
    L’odore si fece più forte.
    Premette il tasto del mini-pad sull’avambraccio. “Registrazione 46, inizio. Accedo a uno dei cunicoli indicati nelle mappature. Se porta nella bassa valle dovrei trovarmi a ridosso delle caverne fluviali; mi sento più vicina a risposte che abbiamo cercato per anni, ma non al sicuro”.
    Occhiate fugaci intorno.
    “L’ecosistema è vivace. Registrazione 46, fine”.
    S’avviò nel passaggio, folgoratore in mano, un passo alla volta, muovendo cauta i piedi sulla superficie in pendenza. La luce affievolì col passare dei metri.

    **


    Tsabo si issò sulla superficie piatta del bunker con un movimento agile; rimase eretto a dominare il vuoto per alcuni secondi, come se le pietre, la roccia, la polvere potessero tributargli un qualche muto onore.
    “Ripenso a tutto quello che il mondo ha visto accadere in anni incalcolabili, prima e dopo la civiltà. Abbiamo attraversato molte fasi, nessuna realmente positiva, e tracciato periodi storici con confini arbitrari, sempre scanditi dal metronomo della violenza”.
    Raccolse un sasso contemplandolo e foggiandolo, nella mente, come la punta d’una lancia.
    “C’è stato un tempo nel quale uccidevamo i nostri simili per il controllo delle risorse alimentari, poi di quelle materiali, si chiamino esse pietre rare, giacimenti di gas, terre a bassa densità o combustibile fossile. Allora abbiamo iniziato a uccidere i nostri simili su una diversa e più complessa base: la lingua, la provenienza, il colore della pelle. C’è stato un tempo”, sollevò la propria mano nera, “Nel quale portare questo colore significava emarginazione”.
    Ripensò, ma fu un solo attimo, alla pelle candida di Saleen. Un brivido lo colse per la seconda volta prima di voltarsi e raggiungere l’altro lato della piattaforma, calarsi nel perimetro della stazione.
    Cominciò a cercare un punto d’accesso alla struttura.

    **


    Umidità.
    Sciaguattio delle suole sul pavimento del passaggio.
    La luce, ora più intensa, inumidì l’ultima curva e poi l’uscita del tunnel; Saleen schermò un istante gli occhi prima che si riabituassero alla luminosità del giorno: davanti a lei il fiume e le mangrovie.
    Scese il gradone che la separava dal terreno, si ritrovò immersa fino alle caviglie nell’acqua stagnante della riva. Un coccodrillo di diversi metri si gettò in acqua poco distante, disturbato; lei represse l’inquietudine e si spostò, in orizzontale, costeggiando la parete di roccia verso destra, diretta alle grandi alcove che si aprivano più avanti, nella vegetazione lussureggiante. Dovette rimettere a tracolla l’arma per reggersi con ambo le mani, sfruttare i pochi appigli della roccia, scongiurare una caduta in acque letali: un altro coccodrillo, sulla riva opposta, s’immerse increspando la superficie.

    **


    Una scala di ferro, poi la stanza: un luogo di proprietà della polvere, del vuoto, dove vecchie ossa ancora giacevano sparse sul pavimento; impossibile dire a chi o cosa fossero appartenute.
    Tsabo camminò nella camera al suono echeggiato dei propri passi. Si avvicinò a scrivanie d’acciaio coperte da uno strato di pulviscolo, a vecchie interfaccia in buona parte danneggiate.
    Passò l’indice sugli schermi sperando, invano, che almeno uno si accendesse.
    “Ci abbiamo provato”, commentò a mezza voce, “Più volte, nella storia, a trovare quel nesso mancante. Qualcuno ci è riuscito per la legge dei grandi numeri, ma lo ha tenuto per sé, portandoselo via nel grande viaggio”, guardò in basso, alle costole spezzate di uno sterno, “O non è stato ascoltato quando lo ha detto ai quattro venti. Siamo esseri bizzarri, individualisti, del tutto incapaci di guardare al di là delle nostre convinzioni, di accettare che un altro sia più istruito, consapevole o competente; conosciamo solo la legge del più forte. Mi chiedo”, si voltò, uno sguardo alla mappa celeste ormai lisa che era stata appesa sulla parete, “Se siamo sempre stati così o se un tempo eravamo più propensi a fidarci gli uni degli altri. A vivere senza l’arroganza che ci contraddistingue”.
    Si avviò, amaro, alla stessa scala dalla quale era disceso; un bip leggero lo fece fermare di colpo, portare la mano all’elsa del coltello.
    Si voltò, perplesso; uno dei monitor prese vita, sostenuto da una batteria ausiliaria che doveva aver trovato l’impulso d’accensione. Lo schermo annerì e biancheggiò svariate volte prima di fissarsi su una sequenza alfanumerica in spettrale color giallo.
    Tsabo tornò sui suoi passi, il cuore a battere più forte. Scorse i dati con rapidi movimenti delle iridi: carotaggi e analisi del suolo, valori sulla concentrazione di CO2 nell’atmosfera e nei campioni di roccia. Poi una nota, scritta da chi quei dati li aveva raccolti: l’aria è sana.
    Lui dischiuse le labbra, stranito, mosse il cursore per leggere ancora, ma non vi era altro.
    L’aria è sana.
    Come un mantra, un dogma.
    “Ricordi, Saleen, i campioni di roccia a Xucabra? L’anidride carbonica era alta, ma non al punto da rappresentare una minaccia per gli ecosistemi. Ora, dall’altra parte del mondo, i test danno lo stesso responso. L’aria è sana”.
    Aprì il pad per salvare una copia di quella schermata, per non dimenticare.

    **


    Sensazione sgradevole di vuoto, di silenzio. Di antichità.
    Saleen entrò nell’alcova più grande, svariati metri di ampiezza e un soffitto che andava crescendo; l’aria, umida e densa, odorava di putrefazione. Percorse alcuni metri costeggiando la parete sul suolo sconnesso.
    C’era qualcosa, qualcosa che attraeva il suo sguardo verso la volta buia della caverna: alzò gli occhi senza scorgere nulla eppure, d’improvviso, la colse un senso di vertigine. Per un attimo il vuoto oscuro della grotta le si specchiò dentro assumendo le sembianze del cielo notturno, della cupola celeste irrorata di stelle.
    Saleen avvertì un brivido e poi l’assalto implacabile dell’anablefobia, quell’orrore recondito che la notte aperta, senza un tetto sulla testa, le aveva sempre causato, da che aveva memoria.
    Dovette regolarizzare il respiro, vincere l’effetto ottico, l’illusione: riprese ad avanzare scacciando l’immagine che si era impressa a forza sulle retine; riprese il mini-pad e lo attivò per sopprimere l’inquietudine.
    “Registrazione 47, inizio”. L’odore. “La caverna principale, parte di un sistema complesso, appare antica, avrà milioni di anni. Preleverò campioni per confermare la datazione”.
    Proseguì, una mano a sfiorare la parete umida, levigata dall’acqua e dal tempo.
    “Rilevo una leggera crisi di anablefobia, improbabile in un ambiente chiuso e oppressivo. Ho già espresso altre volte le mie preoccupazioni su questa sindrome e i collegamenti che sembra avere con la teoria del disastro: se c’è un nesso, forse qui lo comprenderò davvero. Registrazione 47, fine”.

    **


    Tsabo emerse dalla struttura periferica del complesso, scrollò la polvere di dosso. Rimase chino sulla grande lastra coperta di sabbia che era stato il tetto del padiglione numero 5; piccoli mulinelli, figli del vento caldo, agitarono il paesaggio brullo e privo di vita.
    Guardò verso il cielo con un misto d’inquietudine e tensione, umettando le labbra che avvertì secche: l’azzurro velato sembrò rispondergli con tutta l’indifferenza di un essere mitologico, e così le nuvole sfilacciate, diluite, le cui estremità si contorcevano e mutavano in continuazione sotto la spinta delle correnti.
    “Abbiamo sempre avuto paura dell’ignoto”, mormorò cupo, “Ma ancora di più della volta celeste, una frontiera che pochi di noi hanno voluto varcare. Alcuni dicono che c’è stato un tempo, lontanissimo, nel quale sapevamo volare. Per tecnologia, predisposizione, forse solo per il desiderio di farlo: poi siamo ridiscesi a terra e non abbiamo osato mai più”.
    Una punta di apprensione lo colse facendolo contrarre e abbassare lo sguardo, la pelle come infreddolita da un contatto immaginario, una paura atavica.
    “La Storia è scandita dalla violenza ma anche dalla malattia. Un tempo fu la peste, poi il vaiolo, l’ipocalcemia, il paramyxovirus. L’IBD. Ma nessuno di questi mali è durato più a lungo del progresso, della medicina. Solo un disturbo è rimasto perenne, da che abbiamo memoria, senza cambiare, senza mai sparire, a prescindere dalle cure, dalla ricerca: l’anablefobia è stata sempre lì, per quasi tutti, senza una ragione apparente”.
    Si mosse, scendendo dal tetto piatto della postazione, avviandosi verso le altre fatiscenti strutture che affioravano, qua e là, nel biancore osseo della sabbia.
    “Hai ragione tu, Saleen. C’è una ragione se soffriamo di questo male psicologico, e quella ragione è nascosta molto più a fondo di quanto siamo disposti ad ammettere. Quella ragione è nella Storia, lì dove non l’abbiamo mai cercata”.

    **


    Il suono, grottesco, la fece irrigidire.
    Saleen si voltò, il folgoratore alzato d’istinto. C’era qualcosa che si stava avvicinando e che non faceva molto per nasconderlo.
    Passi strascicati, nervosi, lungo uno dei molti cunicoli che si aprivano sulla grotta. Poi un verso stridulo.
    “Dannazione”.
    L’odore si fece di colpo più acre, come se un effluvio d’urina avesse invaso i tunnel e preso il posto dell’aria torbida del fiume.
    Lei avanzò a piccoli passi, tesa, mentre nuovi suoni andavano riempiendo quel mondo fatto di pietra e curve oscure: rantoli, ringhi, raspi catarrosi che ora sembravano provenire da più direzioni assieme; attese ascoltando il battito del proprio cuore diventare una marcia rabbiosa, assecondando l’adrenalina crescente, il lieve tremore del dito indice sul grilletto.
    La cosa che uscì per prima dal tunnel alle sue spalle si fermò quasi subito, inchiodandole addosso due occhi di brace. Un secondo, della stessa imponente stazza, emerse dal tunnel di fronte, fermandosi a sua volta. Un terzo apparve poco dietro, occhi spiritati a sondare la caverna e scorgerla, immobile contro la parete.
    “Dannazione”.
    Mani grandi come vanghe rasparono la pietra prima di battere col dorso in un gesto di minaccia; labbra si tirarono snudando zanne della taglia di un pugnale in un ghigno diabolico, ferino.
    Cinocefali.
    Una delle tre bestie cacciò un verso assordante, gutturale, prima di alzarsi sulle gambe e tirare in alto le spalle, aumentando la propria taglia già notevole.
    “Dannazione”. Saleen arretrò appena, la schiena premuta contro la parete, indecisa se rispondere alla provocazione, provare a spaventarli, o piuttosto assumere una postura sottomessa e tentare di abbandonare il campo. Le bastò muovere una gamba perché il cinocefalo più grosso urlasse di rabbia e tornasse a terra, smuovendo ciottoli con un raspare furioso delle mani: realizzò che difficilmente le avrebbero permesso di andarsene, che le caverne erano luogo di pastura, territorio vitale. L’odore di sterco un marchio che non aveva saputo identificare.
    La sua attenzione fu attratta, per un attimo, dall’accorrere di altri esemplari, giovani e femmine, un accalcarsi dietro le spalle dei tre maschi, esprimere a ululati il proprio sdegno: immaginò che questo potesse solo acuire la loro innata aggressività.
    Lo stallo sembrò poter durare a lungo, ma furono solo pochi secondi ancora; poi, con un latrato stridulo, i cinocefali caricarono.

    **


    Camere di contenimento, strutture ad arco flesso: testimonianze di un passato non troppo antico, qualcosa di creato e dimenticato in fretta perché non utile di fronte ai pressanti problemi del pianeta: fame, sovrappopolazione, inquinamento. Depressione.
    “Chi ha scavato in questo luogo, chi ha eretto questo complesso”, Tsabo guardò amaro i giochi di luce tra lucernari sfondati, i dervisci di polvere, “Era qui per lo stesso motivo: cercare la verità”.
    Camminò, quieto, osservando le teche ormai ridotte in macerie, i vetri infranti dall’incuria e dai crolli, qualsiasi campione o testimonianza avessero conservato ormai parte della polvere stessa.
    Attraversò corridoi vuoti e stanze piene solo dei sussurri del ghibli, tra macchine desuete e condotti di ventilazione profanati dall’incuria. La sua attenzione fu attratta da un vecchio rotolo di pelle conciata, dimenticato tra le schegge di vetro della propria teca: l’aprì con delicatezza, usando solo le dita della destra, non trovandovi altro che pochi segni cancellati dal tempo, appartenuti ad epoche troppo distanti. Pure riconobbe alcune delle figure del folklore, la creatura celeste, il leviatano dei boschi, la Grande Divoratrice.
    Sorrise appena, sottilmente colpito da ciò che di meraviglioso o spaventoso il mondo aveva offerto nel tempo andato, nulla che sarebbe tornato mai, purtroppo o per fortuna. Niente capace di sopravvivere alla lenta agonia della Terra.
    Passò oltre, scavalcando una caduta di detriti, incuneandosi tra passaggi smantellati e architravi divelte.
    Sentì l’aria cambiare d’intensità, farsi più stantia, e allora cominciò a scendere assecondando i camminamenti, sfruttando le scale d’acciaio, puntando al nucleo della stazione che, ne fu certo, nascondeva l’oggetto della sua ricerca.
    Il cuore pulsante della Storia.
    Quando Tsabo raggiunse la camera blindata la trovò aperta: esitò solo un istante prima d’avventurarsi oltre la porta d’acciaio, fermarsi di fronte al piedistallo che vi era ospitato.
    I suoi occhi dilatarono per un momento e così le narici in un fremito d’emozione.
    La cosa era lì, scura e lucida, e sembrava guardarlo di rimando: era il suo volto riflesso, più nero ancora.
    Era il tassello mancante.
    Il fulcro che aveva cercato.

    **


    Saleen ebbe il tempo di premere il grilletto solo due volte nell’attimo che le bestie le concessero prima di colmare la distanza. Due scariche elettriche in successione investirono il cinocefalo più grosso folgorandolo, bruciandogli via buona parte della pelliccia lurida e carbonizzando la carne nello spazio di un paio di secondi: una zaffata violenta all’aroma di morte la investì stordendola, prima che l’urto del secondo mostro la scaraventasse a terra fracassandole una costola.
    La caverna divenne una cacofonia di urla e versi assordanti.
    Saleen ignorò il dolore, capriolò e tornò eretta, il fucile alzato d’istinto per parare un manrovescio: il primate chiuse ambo le grinfie sul folgoratore strappandoglielo di mano e gettandolo lontano, un secondo arto nerboruto tentò di afferrarle la gola; lei schivò con un disperato colpo di reni, si lasciò cadere, rotolò con eleganza per evitare un altro affondo e scostarsi dalla parete. Rapida, tolse dalla cintola la sarissa, estendendo l’arma con un tocco del pollice: le due punte della lancia si allungarono in ambo le direzioni per un metro buono.
    Inspirò ed espirò, a ritmo, controllando come un’atleta gli istinti e le paure. Si mosse, a scatti, agitando l’arma e facendola sibilare intorno, mentre i due cinocefali berciavano, ringhiavano e si muovevano come furie, raspando il suolo, occhi iniettati di sangue. Femmine e giovani, intorno, saltavano e si arrampicavano all’impazzata, riempiendo la volta di risa e strilli. Si era illusa che abbattere il più grosso potesse scoraggiare gli altri: errore di valutazione.
    I due primati attaccarono assieme, come cacciatori addestrati.
    Saleen calcolò l’attimo, una mente affilata come e più delle due lame. Ruotò con un movimento da danzatrice, affondò mezzo metro di lama dritto al cuore ed estrasse con velocità impareggiabile, rantolo di morte, l’altra metà della sarissa già sulla corretta traiettoria per lo sterno della seconda creatura.
    L’errore fu sottostimare l’impeto della belva: il cinocefalo si impalò con foga predatrice, la lama rosseggiante fuori dalla schiena, le fu addosso, fauci primordiali chiuse di scatto sulla sua mano stretta all’asta.
    Saleen sentì il dolore invaderla, dilaniarla quando il primate strattonò brutale staccandole di netto due dita; le occorse uno sforzo notevole per reggere l’assalto della belva moribonda, infine sospingerla a terra e stroncarla con una girata della lama nel costato.
    Grida e schiamazzi cessarono di colpo: il branco batté in ritirata caotica, svanendo nei tunnel e lasciando sul terreno i tre maschi guardiani.
    Saleen sedette, ansante, la schiena poggiata contro la parete di roccia.
    Strinse al petto la mano mutilata, medio e anulare mancanti, i denti serrati e gli occhi dilatati. Il sangue a ruscellare, impazzito, lungo il polso e addosso.
    “Dannazione”, cercò di trattenersi, “Dannazione!”, invano: cacciò un grido liberatorio, un verso di rabbia che riempì la caverna mentre lacrime di finissimo dolore andavano offuscandole gli occhi. Reclinò la testa, disperata, le spalle scosse in un singhiozzare d’agonia, e fu allora che lo vide.
    Per un attimo, uno solo, il male della ferita passò in secondo piano.
    La cosa era lì, dove aveva già guardato ma senza la dovuta cura.
    Il fulcro della Storia.

    Tsabo guardava la Pietra Nera, ovale, liscia, neanche mezzo metro di diametro: l’unica testimonianza del mondo che fu e che avrebbe potuto non essere, sepolta da millenni nel deserto del Sinai.
    La raccolse con mani che tremavano.

    Saleen guardava la Pietra Nera, immensa, disegnata a carboncino sulla volta celeste della caverna: l’unica testimonianza del mondo che fu e che avrebbe potuto non essere. La Pietra Nera che cade dal cielo e spazza via il mondo in un’apocalissi di fuoco.
    Sorrise, allucinata, tra i singhiozzi.

    “Avevi ragione tu”. Tsabo vagò lo sguardo, sminuito dalla grandezza del passato. “C’è stato un momento, nella Storia, nel quale tutto poteva cambiare in maniera irreversibile. Un singolo evento catastrofico capace di alterare il corso delle cose”.

    La mano lasciata a coagulare contro il petto, una torcia accesa e puntata in alto: Saleen, seduta nella stessa posizione, guardava i cicli di pittura preistorica che sormontavano buona parte del soffitto.
    “Registrazione 48, inizio”, mormorò con voce rotta, “Eravamo nel giusto: è successo qualcosa, milioni di anni fa, che ha rischiato di cambiare il mondo. La Pietra Nera è caduta dal cielo, ha incendiato la Terra, ha avvelenato l’aria, ma non al punto da rendere impossibile la sopravvivenza. Non al punto da cambiare gli equilibri del regno animale”.

    “C’è un motivo se ci portiamo dietro il marchio dell’anablefobia, se abbiamo paura di guardare il cielo: è da lì, dalle stelle, che è arrivato il flagello, l’orrore, la fine dei tempi. Il nostro è un retaggio innato, una paura che è rimasta nei nostri geni dal caos ancestrale, da quando abbiamo guardato in faccia un male peggiore della morte”.

    “L’estinzione”.
    Tsabo depose, con reverenza, il frammento meteoritico sul piedistallo.
    Lasciò la stanza un lento passo alla volta.
    Estinzione.
    Tornò alla luce.

    “Siamo esseri bizzarri”, un sorriso stanco, Saleen, sui tratti affilati. “Solitari, individualisti, del tutto incapaci di guardare al di là delle nostre convinzioni. Viviamo in città grandi come regioni, ogni casa separata dalle altre. Avveleniamo l’aria con la secrezione della nostra pelle, consumando ogni risorsa in una continua ricerca della sopravvivenza. Non abbiamo leader né guerre, abbiamo eliminato perché futile ogni conflitto basato su etnia, razza, lingua e credo, e quasi tutte le malattie letali; parliamo da soli, sempre da soli. Siamo l’apice dell’evoluzione, siamo i signori del mondo: ma a quale prezzo?”.

    “Non posso che chiedermi”, Tsabo si erse sulla vecchia torre d’osservazione, davanti a lui il deserto candido, “Come sarebbe la Terra se la Pietra Nera avesse distrutto i nostri avi 65 milioni di anni fa”.

    “Non posso che chiedermi”, Saleen guardò la mano laddove nuove dita andavano lentamente rigenerando, “Se un’altra specie avrebbe garantito un futuro a questo pianeta condannato”.
    Fissò le carcasse dei cinocefali abbattuti e sorrise, amara.
    Un sorriso irto di denti affilati.
    “Registrazione 48, fine”.

    Tsabo rimase a guardare il sole che calava sul deserto allungando le ombre, la coda scagliosa ondeggiata in un gesto d’inquietudine.
    Una parola ripetuta nella testa, sussurrata.
    Estinzione.

    Edited by B&S - 9/2/2018, 20:21
  4. .
    Storia ambientata a Roma, nell’Italia del secondo dopoguerra, dove vinti e vincitori si spartiscono le sorti della città eterna.



    Mia madre di mestiere faceva la sarta, poi ha dovuto smettere.
    Non vede quasi più, solo ombre grigie che si muovono come fantasmi.
    Fa un sogno ricorrente, si sveglia e me lo racconta. Sempre lo stesso: una finestra aperta da dove non si vede niente. È tutta sudata, io le asciugo la schiena, le separo i capelli sulla fronte.
    Lo ripete quasi tutte le notti da quando è successo l’incidente, più di un anno fa.
    Era inverno, di sera, la sirena del coprifuoco suonava. Lei correva verso le scale della cantina quando è inciampata e cadendo ha rotto la lampada.
    Schizzi di olio bollente e pezzi di vetro le hanno ferito il volto. Io ho visto tutto perché ero vicino a lei.
    Non avevo paura, mi attardavo e mi fermavo davanti ai sacchi in cortile mentre gli aeroplani sfrecciavano sopra le nostre teste. Mi piaceva guardare le figure che riuscivano a fare, stormi di uccelli che andavano verso terre lontane.
    “Tina, sbrigati, non stare lì impalata!” mi gridava mia madre.
    Io non l’ascoltavo, aspettavo che passassero e poi scendevo in cantina.
    Adesso esce poco, ha il terrore di cadere, si sente insicura. Non si affaccia nemmeno al balcone. È una fortuna per lei che non possa vedere quello che sta succedendo per le vie di Roma.
    La guerra è finita, non scappiamo più nei rifugi, gli alleati ci hanno liberati, così ci hanno detto. Ma io non capisco, a noi non è concesso di capire.
    E io sono ancora frastornata.
    Il silenzio, interrotto dalle sirene, ha lasciato posto alla gente che scende per le strade, si abbraccia e fa festa.
    Poi hanno iniziato a tagliare gli alberi lungo il corso del Tevere.
    Il rumore delle motoseghe è assordante, di giorno e di notte, senza tregua. I tronchi abbattuti, come corpi senza vita, riaprono scenari di morte. Hanno continuato fino a lasciare i marciapiedi vuoti.
    Quando tagliano un albero è un familiare che muore.
    I platani erano la memoria, lo specchio delle stagioni delle mie giornate.
    Le foglie d’autunno mi facevano compagnia quando da scuola tornavo a casa. Il vento d’estate le muoveva e alla loro ombra mi rifugiavo per cercare frescura.
    Sono piante generose, hanno le fronde che si alzano al cielo, ma non dimenticano di guardare la terra.
    Vicino a largo Trilussa, con un coltello, Gianni ha inciso le nostre iniziali sopra un tronco. Quello è un dolore che non rovina il legno, gli promette la vita.
    A me fa male pensare che entrambi non ci siano più.
    Mia madre mi chiede: "Dov’è la gente? La festa è già finita? Non sento più le voci, solo colpi pesanti, come di alberi caduti al suolo.”
    Non so rispondere, non ho cuore di raccontarle la verità: “Sono malati, mamma, ne pianteranno altri.”
    Dicono che dopo ogni guerra ci sia la ricostruzione.
    Invece hanno messo nuovi pilastri con il filo spinato e hanno alzato un muro.
    Liberazione da noi non significa libertà.
    Dicono che sia necessario per mantenere l’ordine, per consolidare la pace tra due potenze troppo forti e nemiche, l’America e l’Unione Sovietica. Perché Roma è una città troppo importante, strategica, per questo è necessario dividerla in due, ognuno la sua parte di bottino.
    Assistiamo inermi al cambiamento, a ciò che di meglio per noi ci viene imposto.
    Scelgono la nostra libertà, perché vinti e vincitori, se separati, possono ignorarsi e continuare a vivere vicini.
    Una guerra come le altre, inutile.
    Ma noi?
    Hanno costruito un muro che è alto un paio di metri, separa in due i quartieri, le strade, intere famiglie. È una linea di confine, è frontiera sopra lo stesso suolo, per impedire alle persone di spostarsi da una parte all’altra, per evitare che possano mischiarsi o fuggire.
    Ma da che cosa? E verso dove?
    Per costruirlo prendono le pietre dalle macerie di S Lorenzo, i sassi lungo la via Appia.
    Per questo di alcune case hanno murato gli ingressi e le finestre a piano terra, hanno chiuso con il cemento le arcate di ponte Sisto.
    Ho paura dell’arroganza con cui costruiscono, dell’indifferenza che usano nel deturpare tesori che non gli appartengono, solo perché si sentono i responsabili della nostra salvezza.
    Com’era la mia città e come è diventata!
    Dal balcone vedo lo scempio che hanno fatto: il muro è talmente lungo, tortuoso, un serpente ricoperto di scaglie grigie di cui non si scorge la fine. Lungo tutto il percorso hanno costruito recinti, fortificazioni e torri di controllo.
    Ci sono soldati con uniformi diverse, si danno le spalle e hanno i fucili puntati su entrambi i lati, sulle nostre vite.
    Esco poco non c’è più tanta gente con cui parlare e molti non ne hanno voglia.
    Non posso allontanarmi troppo, mia madre ha bisogno di me. E poi dove potrei andare?
    Via della Vittoria è irriconoscibile. Del mio insegnante di canto non ho più notizie. Il maestro Isaac! I tedeschi l’hanno portato via e l’Accademia senza di lui ha perso l’anima.
    “Tina, hai la voce di un usignolo. Quando canti arrivi dritta al cuore. Hai talento, non buttarlo via. Devi cantare, studiare e cantare.”
    Così diceva mio padre. L’hanno arrestato mentre si trovava in via Giulia, nella sede del Partito. Anche a lui è toccata una sorte simile a tanti. Voglio credere che almeno la sua morte non sia stata un inganno.
    Mi manca.
    Quando tornava a casa con la sua voce allegra raccontava i fatti della strada, mentre posava, sul tavolo in cucina, il cibo che era riuscito a rimediare. Rivedo il volto di mia madre, chino sull’abito che stava cucendo, accennare un sorriso mentre ascoltava. Mi mancano il suo entusiasmo, l’ottimismo, l’essere certo che, nonostante tutto, le cose sarebbero cambiate in meglio.
    Quando c’era la guerra avevamo la paura negli occhi, il terrore delle bombe, la fugacità della vita. Ma sapevamo che un giorno sarebbe finita e che, se fossimo sopravvissuti, ci sarebbe stata un’opportunità.
    Ma adesso? Vedo solo sguardi spenti, senza desiderio e volontà.
    Non c’è musica nelle strade, nelle stanze, è scomparsa anche dalla mia mente. Tutto tace avvolto da nebbia umida e triste, anche se fuori c’è il sole.
    A volte faccio brevi passeggiate lungo il fiume, cammino attaccata al muro.
    Urlano di allontanarmi con un tono e un accento che non conosco.
    Ma la mia mano, non vista, lo sfiora come in un gioco che facevo da bambina.
    Cerco di ricordare quello che c’è dall’altra parte. Riconosco i palazzi, le vetrate, i tetti di alcune case. A volte intuisco la presenza di qualcuno dietro i vetri alle finestre dei piani alti. Gli sguardi si incrociano ma l’espressione incredula è muta.
    Si fa presto a dimenticare.
    Chissà se in via dei Gracchi c’è ancora il negozio di fili, la merceria dove mia madre mi mandava a comprare il materiale per cucire.
    Adesso le nostre vite sono fili neri, si confondono sopra vestiti troppo scuri, sospesi in aria, senza una direzione, in assenza di punti da unire.
    Quante persone dovranno ancora morire inseguendo il desiderio di libertà.
    Io intanto rimango chiusa, costruisco dentro di me il sogno che porterà lontano dalla nostra prigione me e mia madre.
    Non so quando, non so dove.
  5. .
    Scendono da Uptown, camminando silenziosi lungo la Broadway.
    Come quel giorno di settembre hanno gli abiti coperti di polvere, il viso e i capelli sporchi di grigio, macchie di sangue e schegge di vetro sul corpo.
    Lentamente tornano da dove sono venuti.
    Gli uomini hanno completi eleganti, la ventiquattrore, la giacca ripiegata con cura sul braccio, la cravatta allargata per cercare di respirare, fazzoletti premuti contro la bocca.
    Le donne hanno tailleur, borse firmate, scarpe coi tacchi. Alcune sono scalze. Camminano sull’asfalto a piedi nudi tenendo entrambe le scarpe in mano, stringendole con forza, come se fossero gli ultimi reperti di un passato a cui tenersi strette per non scomparire del tutto.
    Si dispongono attorno alla Torre Sud e aspettano.
    Il secondo gruppo arriva per le stesse strade. A centinaia, vestiti di bianco. I visi puliti, senza trucco, i capelli tagliati corti. Sembrano tutti uguali.
    A coppie, si tengono per mano mentre, disposti attorno al Buco Nero, guardano in basso, in attesa che qualcosa fuoriesca da quel nulla. Che il tempo si riavvolga, per poi riprendere a scorrere uguale a prima.
    Il sole allunga l’ombra della Torre Sud sul fiume. Dove prima c’era un’altra ombra identica, ora c’è solo un mosaico scomposto di luci che vibrano sulla superficie dell’acqua.
    Ci fermiamo a guardare. Attorno a noi un'intera città che per ora si limita a osservare.
    “Ripetimi chi sono”, chiedo a Christine.
    Christine è la mia migliore amica. La conosco da sei mesi. È abbastanza, mi ripeto. In questo momento non c’è nessuno nella mia vita che conosca da più tempo.
    “Quelli attorno alla Torre Sud vogliono che venga demolita. Non importa se è ancora in piedi, se il crollo dell’altra non l’ha danneggiata al punto tale da doverla abbattere per forza. Una non può esistere senza l’altra.”
    Una nuvola copre il sole e l’ombra della torre scompare dal fiume, quasi a volerli accontentare.
    “Gli altri, invece?” le chiedo.
    “Vogliono che la Torre Nord venga ricostruita. Uguale a prima.”
    “Come se non fosse successo nulla?”
    “No. Non è quello. Anche qui è lo stesso. Una non può esistere senza l’altra.”
    Costruire o abbattere. Due modi di vedere le cose, due interpretazioni di un presente che nessuno di noi ha scelto, la nuova realtà che ci è stata imposta.
    “E noi?” le chiedo. “Noi cosa vogliamo?”
    “Non lo so”, risponde. “Ci toccherà scegliere da che parte stare.”
    Forse non è questione di scegliere. Ognuno di noi appartiene già a uno dei due gruppi, fin da quel giorno. Solo che ancora non lo sa.
    “Che succede ora?”
    “Aspettano che qualcuno faccia la prima mossa. Che qualcuno rompa il silenzio.”
    Christine dice che prima o poi accadrà. Il dolore verrà messo da parte. Subentrerà il desiderio di prevalere uno sull’altro.
    Una guerra tra bande rivali, ecco ciò che diventerà. Manhattan si spaccherà in due. Verranno tagliati ponti. Tornerà a essere un’isola. Più di quanto non lo sia già, più di quanto non lo sia mai stata prima.
    “Ogni futuro è possibile”, dice ancora.
    E allo stesso tempo nessun futuro lo è. Perché una delle due torri non è stata toccata. Una delle due è rimasta in piedi. Come un ricordo scomodo, un dettaglio fuori posto, un ospite indesiderato.
    Dopo un po’ i due gruppi si disperdono. In silenzio, come sono arrivati.
    “Devo andare”, dico allora.
    “Chi è lui?” mi chiede Christine.
    La guardo. Mi domando come abbia fatto a capire che mi vedo con qualcuno. Se sono io a essere così semplice, se sei mesi siano sufficienti a conoscere tutto di me, di ciò che sono ora, o se semplicemente non ci sia rimasto molto da capire.
    “Uno con cui vado a letto. Tutto qui”, le rispondo.
    “Tutto qui?”
    “Non è abbastanza?”
    “Forse sì. Non faccio che sentire storie come la tua. Gente che si è avvicinata dopo l’11 settembre. Mi chiedo quanto durerà. Se sarà abbastanza per dimenticare che quel giorno è la sola ragione a sostenere il desiderio.”
    Magari si sbaglia. Quando la tua vita collassa su se stessa in una nuvola di polvere non ti restano desideri da esaudire.
    Cambi quartiere, ne scegli uno dove nessuno ti conosce. Ti cerchi una migliore amica, un lavoro nuovo, un tizio con cui passare le notti. Lo fai per mettere in piedi un presente accettabile, semplice da sostenere. Il passato è andato, venuto giù dal cielo. Si è dimostrato inefficace, incapace di reggere un attacco.
    Non importa se sei infelice. L’infelicità è la polvere di un grattacielo di ricordi. Continui ad avercela davanti agli occhi, anche se non c’è più.
    Certe notti l’uomo con cui vado a letto mi chiede chi ero.
    “Prima di quel giorno di settembre”, dice, come se ci fosse davvero altro di cui parlare.
    Io gli rispondo: “Ha importanza?”
    “Certo che ne ha”, fa lui. E poi mi guarda a quel modo. Anche se siamo a letto ed è buio, so che mi sta guardando. Come se fossi io la costruzione venuta giù in una nuvola di polvere, come se volesse a tutti i costi rimettermi in piedi ma non riuscisse a trovare tutti i pezzi.
    Non è come pensa lui.
    “È come se avessi perso la memoria”, dice anche.
    Che c’è di male?, penso io ed esprimo un desiderio, l’unico che mi resta. E forse ci sono volte in cui finisco per dirlo ad alta voce.
    Allora mi si stringe contro. Mi afferra stretta come se stessi cadendo, convinto che basti a salvarmi. A rimettermi in piedi, anche se non ha tutti i pezzi.
    Lo lascio fare fino a quando non si addormenta, poi mi libero dalla sua stretta e mi alzo, cercando di non svegliarlo.
    Ho paura che ricominci da capo. Ho paura che mi afferri di nuovo.
    Non sto cadendo, ma è quello di cui avrei bisogno.
    Mentre aspetto un taxi per tornare a casa, mi si avvicina una donna. È ancora truccata, strisce di grigio sparse sul volto, come una specie di guerriera. Con un fazzoletto cerca lentamente di darsi una ripulita.
    Altri come lei avvicinano spettatori come me. Dall’altra parte della strada passano accanto a Christine, ignorandola.
    Sanno già chi scegliere, a quale gruppo appartieni, da che parte ti schiererai quando sarà il momento.
    Mi mette in mano un sacchetto. È pesante e non ho il coraggio di aprirlo.
    “Una non può esistere senza l’altra”, dice e subito si volta e fa per andarsene.
    “Quel giorno ho visto l’aereo, sai?” le dico allora, afferrandola perché non se ne vada. Per un attimo ho paura che sia fatta davvero di polvere, che la sua mano finisca per disfarsi tra le mie e, dopo quella, anche il resto del suo corpo.
    Lei mi guarda e non dice nulla. Forse non può farlo, forse può dire solo quella frase, consegnare il sacchetto e andarsene.
    “Dal mio ufficio, nella Torre Sud.”
    Lei annuisce.
    “Era fuori, nell’aria”, continuo, “E poi non c’era più. Era dentro l’edificio, dentro le fiamme. Tra il novantatreesimo e il novantanovesimo piano.”
    La sua mano è ancora nella mia.
    “Mio marito, Jacob. Lavorava nella Torre Nord. Un ufficio al novantacinquesimo.”
    È la prima persona a cui racconto la mia storia.
    “Non è buffo?” le chiedo. “Prima di allora non facevo che ripeterlo a tutti. Anche Jacob lo faceva. Diceva Io e mia moglie ci siamo presi una torre a testa.
    Sorride. Sfila lentamente la sua mano dalla mia, ma non se ne va.
    “La gente ha iniziato a scappare. Ma io no. Non avevo motivo di farlo. Mi sono chiusa in bagno. Mi sono seduta lì e ho iniziato ad aspettare.”
    “Che cosa?” chiede lei.
    “Il mio aereo.”
    “Ma non è arrivato”, dice a voce bassa.
    “No. Non è arrivato. Ero sempre chiusa lì quando ho sentito la Torre Nord cadere. E allora ho aspettato ancora, sperando che venendo giù si portasse via anche la mia. Ma anche allora non è successo nulla. Così sono uscita dal bagno, mi sono messa a vagare per gli uffici vuoti. Dalle finestre si vedeva solo polvere e ancora polvere e ho pensato che di lì a poco la città che conoscevo si sarebbe fatta strada in mezzo a quel niente. Ho aspettato, così come avevo aspettato il mio aereo. Ma la città non sono più riuscita a vederla.”
    “Cos’hai fatto dopo?”
    “Sono scesa per le scale. Lentamente, un piano dopo l’altro. A un certo punto ero fuori, nella tempesta. E poi ho continuato a camminare e basta.”
    Questa volta è lei a prendermi per mano. Ma il suo non è un tentativo di salvarmi, di rimettere insieme i pezzi.
    “È come se continuassi a vederla, quella polvere”, le dico ancora. “Ce l’ho davanti agli occhi, sempre, anche se non c’è più”.
    Lei mi chiede soltanto: “Verrai domani?” e io annuisco e le stringo la mano e con l’altra stringo forte il sacchetto che mi ha dato e mi sembra di cadere.
    Anche quando salgo sul taxi, quando mi siedo e il taxista mi chiede dove andare, quando per un attimo non sono sicura di quale indirizzo dargli, se quello dove vivevo una volta o quello dove sto adesso, quando il taxi scivola nel traffico e trovo finalmente il coraggio di aprire il sacchetto e mi rendo conto che è pieno di polvere, anche in quei momenti, più che mai, mi sembra finalmente di cadere.
  6. .
    Gli scaffali del discount presentavano colori di tutte le merci con disordinata allegria. La ragazza più alta, vestita come Mila e il suo cuore nella pallavolo, si sporse in punta di piedi per prendere l’ultimo detersivo profumato al sandalo, con la stessa grazia di una schiacciatrice professionista. «Eccolo,» disse alla sua compagna, «è proprio quello che ti piace tanto.»
    La ragazza più bassa sembrava l’ultimo modello della Barbie fatta in Italia, in scala 5:1, solo che indossava la felpa dell’Alfa Romeo, quella in edizione limitata con i nodi sabaudi metallizzati. Prese l’oggetto del desiderio e lo ripose con delicatezza nel carrello come se fosse stato in vetro di Murano, senza dire niente e con l’espressione imbronciata.
    «Che c’è, ti sei offesa?» chiese la ragazza alta.
    «No.» Mentiva. Lo si capiva da come teneva gli occhi fissi sull’orizzonte del banco frigo.
    «Il sandalo è lento e la lavanda è rock. Era una battuta. Adesso devi ridere, è così che funziona.» Provò a toccarle il mento per farsi guardare negli occhi, senza successo.
    Barbie riprese a spingere il carrello e urtò di striscio gli scatoloni di lavanda, senza farli precipitare al suolo.
    Una voce femminile registrata annunciò in tono sensuale che apriva cassa uno. Mila esclamò: «La signorina del discount è rock, me la immagino in guêpière mentre parla così; dev’essere uno schianto!»
    L’altra riuscì a tenere il muso lungo ancora per venti secondi: «Guarda che il mondo non si divide in lento e rock. Ci sono un sacco di colori e sfumature intermedie là fuori. Il bianco e il nero sono solo dentro la tua testa bacata!»
    «Dai, ma in questo periodo di campagna elettorale è normale che sia così, là fuori – come dici tu – non si parla d’altro.»
    La bionda alzò gli occhi al cielo. «Devi sempre buttarla in politica!»
    «La sovranità appartiene al popolo, articolo uno della Costituzione! Noi siamo il popolo e abbiamo il diritto e il dovere di…»
    «Buttarla sempre in politica. Tanto è inutile che parli con me come faresti con una delle tue amichette comuniste. Sai già che al referendum voterò per la monarchia e non cambio idea!»
    La rossa inspirò l’aria del discount, mischiata dal profumo viziato di quella corsia. Finse d’interessarsi ai detergenti per le mani; fu giusto una scusa per ruotare i beccucci tutti nella stessa direzione. «A parte che adesso si chiama Partito Socialdemocratico, siamo orgogliosamente repubblicani dal 1946
    «Smettila di parlare come la pubblicità. Pensa con la tua testa! Parla con il tuo cuore. Dimmi quello che pensi tu, non quello che ti dice il partito!» Barbie riuscì a farsi guardare negli occhi con la facilità micidiale di chi sa di non sbagliare un colpo.
    Mila barcollò, come se avere il cervello a quasi due metri dal suolo fosse una scusa valida per avere le vertigini. Si passò le mani curate tra i capelli rossi, lasciando intravvedere una timida ricrescita. «Ma dai, a cosa ci serve il re? Ormai lo tirano fuori dal frigorifero solo per il discorso di fine anno. È un’istituzione superata. E poi ultimamente i Savoia non hanno fatto nulla di buono.»
    L’altra scosse la testa e spinse il carrello in direzione dei surgelati.
    «Dai, dimmi qualcosa che valga la pena ricordare!»
    La bionda mise una mano sulla spalla della compagna e raccolse la sfida: «I fondamentali: Umberto II che organizza la difesa di Roma mentre suo padre fugge a Brindisi come un disertore qualunque. Ti ricorda qualcosa?» Fece un gesto con l’altra mano, come per avvitarsi più volte l’orecchio.
    «Sì. E poi? Basta. Vittorio Emanuele IV è stato più spesso sui settimanali di pettegolezzi che al telegiornale. E il principe Emanuele Filiberto? Dai, è sempre in giro per il mondo, non è mai in Italia. Secondo me gli facciamo un piacere a mandarlo in esilio.»
    Il carrello riprese, nervoso e silenzioso, la sua marcia verso i surgelati.
    «I nostri nonni si sono sbagliati, dovevano votare la repubblica settant’anni fa. Per colpa loro abbiamo perso l’occasione di diventare una potenza mondiale e sono anche sicura che adesso, con un’Italia repubblicana, non ci sarebbe nemmeno la crisi!»
    Barbie fermò il carrello all’altezza degli spinaci in cubetto. Si girò verso Mila e le puntò più volte il dito al petto: «Sai invece cosa sarebbe successo, se avesse vinto la repubblica? Che gli italiani non avrebbero più avuto un punto di riferimento istituzionale e si sarebbero buttati sulla religione. E la Costituente, sull’onda emotiva, non avrebbe più ripristinato la laicità dello stato, anche se era stata buttata alle ortiche dal fascismo! Avrebbero lasciato l’Italia in mano ai bigotti e ai vescovi conservatori, proprio quelli che l’altro giorno hanno scritto che l’omosessualità è un abominio agli occhi di Dio; non so se hai presente. Allora sai cosa succederebbe oggi, cara la mia repubblicana? Io e te non saremmo libere di fidanzarci, girare mano nella mano per strada, mettere su famiglia o anche solo fare la spesa insieme al discount; saremmo additate da tutti e le persone ci guarderebbero male!»
    Perfino l’altoparlante sembrò zittirsi per ascoltare il comizio della giovane energica bionda. L’altra se ne accorse, ma non poté nascondersi per via delle sue dimensioni fuori standard; si limitò ad arrossire sotto la luce dei neon. «Le persone ci stanno guardando male, comunque…»
    «Sì, ma solo perché ho alzato la voce.» I sussurri delle due ragazze, come per magia, riattivarono i rumori di sottofondo. L’ultimo successo di Robbie Williams invitava tutti ad amare la propria vita per quella che è e i motori dei frigoriferi annuivano alle chiacchiere più o meno curiose dei clienti.
    «Certo che hai una bella fantasia. Come ti vengono certe idee? Mi sembra tutto campato per aria.»
    «La monarchia è rock, dai retta a me; e, almeno per questa volta, mantenere lo status quo sarà la vera scelta rivoluzionaria. Nonostante i Savoia.»
  7. .
    - Odio le annunciazioni. Le detesto. Potrebbero essere fatte da chiunque, anche l’ultimo degli angeli. Perché scomodare me, Gabriele, l’Arcangelo? A me piace agire. Sodoma, ecco, quello sì che è stato un bel lavoro. O il massacro dei soldati a Sennacherib. E invece: vai e di a Noè che ci sarà un diluvio, vai e ferma la mano di Abramo, dai voce al roveto ardente, parla con Daniele, vai da Zaccaria a dirgli che lui ed Elisabetta avranno un figlio, Giovanni il Battista. C’è forse bisogno di un arcangelo per queste cose? E adesso anche questa Maria.

    Maria
    - Oggi mi sono alzata prima del solito. È giorno di mercato e voglio essere la prima ad arrivare al banco delle stoffe, il mio preferito. Settimana scorsa ne ho vista una bellissima, di un azzurro cielo delicato. Se avessi avuto abbastanza monete l’avrei comprata subito, ma non ne avevo, così ho pregato il mercante di tenermela da parte. È il mercante più gentile che esista.

    Il mercante più gentile che esista
    - Di solito non tengo da parte la merce per i miei clienti. Ti piace questa stoffa? Se hai soldi la compri, se non li hai, guardare ma non toccare. È così che funziona. Ma per lei ho fatto un’eccezione. Ho notato che fra Maria e mio figlio Giacobbe, che sempre mi aiuta al mercato, è nata una certa simpatia. Come posso non accontentarla. Ah, quella Maria…

    Maria
    - Ho lavorato tutta la settimana, cucito, accudito gli animali dell’aia, raccolto e venduto uova ai vicini di casa. Ho messo da parte abbastanza denaro per comprare la stoffa. Non vedo l’ora di averla e di rivedere Giacobbe e il suo sguardo dolcissimo. Eccoli, stanno sistemando la merce sulla bancarella.
    Buon giorno, e buon giorno a te, Giacobbe.

    Giacobbe
    - Buon giorno, come siamo mattiniere oggi, Maria.

    Maria
    - Sono qui per la stoffa. Dovrebbe avermela messa da parte tuo padre.

    Padre
    - Stoffa? Quale stoffa? Ma sì, stavo scherzando, hai fatto una faccia. Dovevi vederti. Vado subito a prenderla, l’ho lasciata sul carretto dietro l’angolo. Aspettami qui, Maria.

    Maria
    - Sono sola con Giacobbe. Mi sfiora le mani, poi le stringe fra le sue. Quanto mi piace questo ragazzo, credo proprio di essermi innamorata. Sembra un angelo.

    Angelo
    - Sì, un angelo… L’angelo, anzi, l’arcangelo, è qui che ti aspetta a casa tua per farti l’annunciazione e tu lì a smorfiosare con Giacobbe. Io odio, odio le annunciazioni e odio i bidoni, sì, i bidoni, quando hai un appuntamento con una persona e quella non si presenta. Sì, va bene, in questo caso la persona non sa di avere un appuntamento, ma se hai delle abitudini ben precise, se a quell’ora e in quel luogo sei sempre presente e proprio oggi stranamente non ci sei, beh, allora, per quanto mi riguarda, c’è del dolo, sì, del dolo, insomma, lo hai fatto apposta. Non è colpa sua un bel paio di palle, e qui sfatiamo anche la questione sul sesso degli angeli. Ho le palle, va bene? Peggio per lei, io non ho tempo da perdere. Ho altro lavoro da fare, io! Vediamo un po’. Apparizione in sogno da Giuseppe il falegname. Bene, è qui vicino. Vediamo le note: Giuseppe, brav’uomo, su di età, debole per Maria, disperato, si chiede cosa può offrire, lui, povero falegname, a una così graziosa fanciulla. Dai retta a me, Giuseppe, non ti perdi niente. È una donna inaffidabile. O santo cielo! E se saltando l’annuncio a Maria, quello per Giuseppe non fosse più valido? Boh, nel dubbio glielo faccio lo stesso, poi si arrangeranno loro. Non ho tempo da perdere, io! Vado da Giuseppe.

    Giuseppe
    - Insomma, sono qui nel dormiveglia quando mi appare questo tizio con le ali, nudo, con un pisello che… va beh… e mi dice che presto nascerà un bambino e che lo si dovrà chiamare Gesù, poi farfuglia qualcosa su Maria che non si è fatta trovare in casa e che non è così che si fa, e poi, poi mi sono svegliato. All’inizio sono rimasto turbato. Non capivo che cosa c’entrasse Maria con quel messaggio e perché quel tizio lo avesse rivelato a me che non conosco donna. Ora aspetto che Maria passi per rientrare a casa e poi le racconterò tutto, tutto tranne del pisello. Eccola.
    Ciao Maria.

    Maria
    - Ciao Giuseppe.

    Giuseppe
    - Mi è successa una cosa strana questa mattina. Mi è apparso questo tizio, un angelo, forse, e mi ha detto che nascerà un bambino che verrà chiamato Gesù e poi si è lamentato che non eri in casa. Ha detto proprio il tuo nome: Maria…

    Maria
    - O cielo, che cosa poteva volere da me? Comunque se ha qualcosa di importante da dire tornerà. Hai detto che era un angelo?

    Angelo
    - Se ho qualcosa di importante da dire tornerò? Io ho sempre cose importanti da dire, ma di sicuro è lei che ha cose più importanti da fare. Ora si arrangia e chi si è visto si è visto! E basta con le annunciazioni! Non ne voglio più sapere! Ma chi si crede di essere questa Maria?

    Maria
    - Come ha detto che si chiamerà il bambino? Gesù? Proprio un bel nome. Se avrò un figlio, lo chiamerò così. Ora torno a casa. Grazie Giuseppe.

    Giuseppe
    - Ecco, mi ha sorriso, sì, mi ha sorriso e se ne è andata. Mi batte forte il cuore! Chissà che questo sogno non sia un buon segno. Sogno, segno, sogno…
    E poi passano i giorni, le settimane ed ecco che il sogno svanisce e dopo due mesi Maria sposa il figlio del mercante, Giacobbe.

    Giacobbe
    - Io e Maria ci sposiamo a Cana di Galilea. Sarà un matrimonio bellissimo. Tanti invitati, vino e cibo in quantità. Mio padre non si è risparmiato nulla.
    Dopo pochi mesi Maria è in cinta.
    Nove mesi e nasce uno splendido maschietto, Gesù.
    Maria vuole chiamarlo così perché dice che è un nome che le ha suggerito il buon Giuseppe, sì, così lo chiama, il buon Giuseppe, il falegname che vive vicino casa sua. Sarà anche buono, Giuseppe, ma io ho l’impressione che ce l’abbia con me. Secondo me è innamorato di lei, quel misero vecchiaccio.
    A Maria e Gesù non faccio mancare niente, li coccolo, li curo, Maria veste come una Madonna.
    Oggi sono passati tre ricchi sapienti provenienti da oriente. Hanno lasciato a ogni bambino della città una pietruzza d’oro, un po’ di incenso e della mirra. Lo considero un buon segno. La pietruzza d’oro sarà il portafortuna di Gesù, dono dei re magi.

    Re Magi
    - Eccoci a Betlemme. Abbiamo viaggiato per mesi seguendo Sirio, la stella più luminosa in questo cielo invernale. Sapevamo sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso così ci siamo portati dietro una gran quantità di scorte. Tutta colpa di Baldassarre e dei suoi studi sulle costellazioni. Ora su Sirio domina la costellazione della Vergine, detta “casa del pane”, e Betlemme, guarda caso, si traduce proprio in “casa del pane”. Un segno? Non lo sappiamo, ma di sicuro siamo talmente stanchi e stufi di questo viaggio che siamo riusciti a convincere Baldassarre che questa dev’essere la nostra destinazione e che dobbiamo fermarci qui. Appena arrivati ci ha accolto un’orda di bambini. Mai visti tanti bambini in una volta sola. Abbiamo distribuito a tutti i piccoli delle pietruzze d’oro, un po’ di incenso e della mirra, poi siamo passati dal re a lasciargli qualche dono e parte delle scorte che, ora che il nostro viaggio è finito, non ci servono più. Ci è sembrato contento, re Erode.

    Re Erode
    - In Giudea tutti pensano che io sia un buon re e io faccio di tutto per farglielo credere, ma a me non è che freghi poi tanto dei miei sudditi. Da quando poi i Romani hanno cominciato a prendersi parte delle tasse le cose sono anche peggiorate. E poi i bambini, ci sono tantissimi bambini e io i bambini li odio, non li sopporto, e loro che mi adorano, i bambini:

    Bambini
    - Da grande voglio fare il re!

    Re
    - Così dicono, pezzenti. Comunque ero lì tranquillo quando arrivano questi tre pazzi da oriente.

    Pazzi da oriente
    - Quanti bambini in questo paese, re Erode!

    Re Erode
    - Se volete portarvene via qualcuno fate pure. Un dono ai miei amici Magi.

    Magi
    – No, grazie, ma se vuole possiamo fare noi un dono al nostro caro amico Erode.

    Erode
    - E così mi hanno lasciato tutta ‘sta roba che non so nemmeno dove metterla. Poi mi è venuta un’idea. Ho chiamato tutti i falegnami della città e ho dato loro il compito di costruire giochi e parchi per i piccoli, poi li ho pagati con parte delle cose lasciate da quei tre. Un successone. La mia fama alle stelle. Il caro e buon re Erode! Come ringraziamento mi farò dare da ogni famiglia le pietruzze d’oro ricevute dai tre orientali. Fra i falegnami che hanno partecipato all’impresa c’era anche il buon Giuseppe.

    Giuseppe
    - Sono fuori dalla mia bottega in attesa di un qualche cliente quando passa questo tizio a dire che tutti i falegnami devono mettersi al lavoro per costruire parchi e giochi per i bambini della città, ordine del re, e che poi saremmo stati ricompensati lautamente dallo stesso Erode. Ho accettato subito. Ho lavorato sodo per giorni e giorni. Con la ricompensa che riceverò chiuderò bottega e mi trasferirò a Cheriot Ezron. Voglio allontanarmi il più possibile da qui, da Maria e la sua famiglia. Non sopporto più di vederli così felici.
    Ora vivo a Cheriot, mi sono sposato con una vedova poco più giovane di me. Abbiamo avuto un figlio, Giuda. Avrei voluto chiamarlo Gesù, ma quel nome se l’è già preso Maria, quell’infame, se l’è preso insieme al mio cuore. A Giuda sto dando tutto il mio amore, tutto quello che posso. Voglio che cresca con una buona istruzione. Spero che con lui riuscirò a sanare quella rabbia e quel senso di ingiustizia che mi avvelenano la vita. Spero, con lui, di riuscire a dimenticare Maria.

    Maria
    - Io e Giacobbe ci siamo stabiliti a Nazareth, Erode si è preso le pietruzze d’oro e Gesù è cresciuto forte e intelligente. Ha molti amici, ma Giovanni, in particolare, di tutti è il suo amico migliore.

    Amico migliore
    - Gesù è il mio migliore amico, siamo cresciuti insieme. Mia madre era stata al matrimonio di Maria. Io fra poco mi sposerò e come Maria e Giacobbe anche io e la mia futura sposa celebreremo le nozze a Cana di Galilea. Mio padre sta facendo le cose in grande. Vino e cibo i quantità.
    È il giorno del matrimonio. Gesù è venuto con sua madre e il gruppo di amici. Li vedo in fondo alla tavolata. Sono ubriachi. Non sono ancora arrivate le prime portate che il vino è finito. Mi stanno rovinando il matrimonio! Una figuraccia! Mia moglie non me la perdonerà mai. Maledetto Gesù, lo dirò a suo padre Giacobbe.

    Giacobbe
    - Sono qui a Gerusalemme con mio figlio. Siamo nel tempio con il nostro banco di tessuti per il mercato del lunedì. All’improvviso rumori e urla. Un gruppo di ribelli irrompe nel mercato, al loro comando Giuda detto l’Iscariota, da Cheriot Ezron, sua città natale. Ce l’hanno con i romani e con tutti coloro che si sono assoggettati al loro potere, per paura o per interesse. Ce l’hanno con noi mercanti. Cominciano a rovesciare i banchi e a colpire alla cieca tutte le persone che si trovano lì. Giuda arriva al nostro bancone, lo rovescia e poi colpisce in pieno volto mio figlio. Gesù cade, picchia la testa. Gesù muore fra le mia braccia. Una stoffa gli scivola sul volto e la sua immagine vi rimane impressa. La conserverò per sempre. Solo in seguito scoprirò che Giuda è il figlio di Giuseppe.

    Giuseppe
    - Hanno arrestato mio figlio Giuda. Lo processeranno in piazza insieme a un altro ribelle, Barabba. Io sarò presente.
    Pilato, il console romano, emette la condanna: crocifissione.
    Mi obbligano a costruire le croci.
    Li hanno giustiziati in cima al Golgota e con loro hanno inchiodato anche il mio cuore.
    Alla fine mi hanno pagato con trenta denari, ma li rifiuto.
    Giuda viene sepolto e dopo tre giorni il suo corpo puzza già. Anche Gesù viene sepolto. Del resto, se si muore, questa è l’usanza.
    Ho preso una corda. Mi sono impiccato. Avevo dato tutto per quel figlio. Avevo fatto sacrifici, riposto in lui tutte le mie speranze, non posso sopravvivere a tanto dolore. Sono rimasto appeso per giorni e giorni fino a quando non mi hanno trovato. Puzzo. Sono morto solo, senza amici, parenti, conoscenti.

    Amici, parenti, conoscenti
    - Noi conoscevamo bene Gesù, faceva parte della nostra compagnia. Io, come altri, faccio il pescatore e lo farò per tutta la vita. Sono sposato, ho figli e ho una vita serena. L’anno scorso è arrivata da noi una folla di persone, chiedevano del messia. Ci hanno chiesto se avevamo qualcosa da dar loro da mangiare. Non era stata una gran giornata. Tutto quello che avevamo erano cinque pani e due pesci. Li presero e se ne andarono in una zona deserta. Hanno rischiato di morire di fame.
    - Io sono cieco e rimarrò cieco per tutta la vita.
    - Io sono zoppo e morirò zoppo.
    - Beh, io ho la lebbra e indovinate un po’?
    - Morirai di lebbra.
    - Io sono già morto, e Gesù non è nemmeno venuto al mio funerale.
    - E perché sarebbe dovuto venire?
    - Eravamo parenti e mia madre lo aveva pregato di accorrere che ero gravemente malato: - Vieni Gesù, c’è Lazzaro che sta morendo. - È arrivato giorni dopo con il suo gruppetto di amici. Puzzavo già.
    - Anche da voi hanno svuotato la cantina?
    - E che ne so, ero morto.
    - Non voglio entrare in questa vostra discussione, ma anche dopo Gesù la gente ha continuato a morire.
    - Eh sì, è il male del secolo.
    - Io per esempio sono caduto da cavallo sulla via di Damasco, ho picchiato la testa e sono morto. E mi hanno seppellito. E dopo tre giorni puzzavo.
    - Strana, strana davvero questa cosa che si muore e si puzza.
    - È il ciclo della vita!
    - Scusate, avete visto in giro l’arcangelo? No, perché noi ebrei staremmo aspettando l’arrivo del Messia.
    - Dicono che comparirà un segno nel cielo. Dovreste chiedere a un astronomo.

    Astronomo
    - L’arrivo del Messia! L’arrivo del messia è una leggenda che si tramanda da secoli e in realtà deriva dal tentativo di dare risposte a fenomeni puramente naturali e astronomici collegandoli all’esistenza di divinità. Bisogna finirla con queste superstizioni, leggende. I tre magi, per esempio… Non sono mai esistiti i tre magi.

    I tre magi
    - Come non siamo mai esistiti?
    - Certo che siamo esistiti. Baldassarre, di qualcosa.
    - Abbiamo seguito per mesi la stella più luminosa del cielo, Sirio. Io sono un astronomo…

    Astronomo
    - Appunto. Basta osservare il cielo a Dicembre e si vede chiaramente che in linea con Sirio ci sono tre stelle minori che fanno parte della cintura di Orione dette, guarda caso, “i tre re”. Ecco la leggenda dei tre Magi. Non dite niente? Certo, non esistete! I doni portati da oriente che hanno reso felici tantissimi bambini a Betlemme? Tutta opera del buon Erode che cercava di recuperare consensi e potere a discapito dei romani. Il buffo personaggio vestito di rosso con la barba lunga che a Dicembre porta i doni nelle case non fa altro che celebrare il ricordo di quel re. E smettiamola con questa attesa del messia, per dio.

    Dio
    - Gabriele! Vieni subito qui! Insomma, cos’è tutta questa importanza che si dà alla ragion pura? Mi sembra un pochino esagerata. Bisogna riportare in alto i valori della religione. Gabriele, ho una missione per te sulla terra. Gabriele!

    Gabriele
    - Non sarà mica un’altra annunciazione? Sono passati ormai seicentodieci anni dall’ultima. Speravo ti fossi rassegnato e invece rieccoci qui. Che cosa dovrei fare, santo iddio?

    Santo iddio
    - Non è un’annunciazione. Devi solo portare un testo sacro a Maometto. Dai, su, Gabriele.

    Gabriele
    - Portare un testo sacro a Maometto? E chi è questo Maometto? Un mercante? Il testo di quante pagine è? Saranno mica in pietra? L’ultima volta erano in pietra. Certo, solo due, ma hai presente la fatica. La carta? No, non sono aggiornato. È un po’ di tempo che non mi curo degli umani, va bene? Sì, ho capito, non vuoi che ti metta in discussione. Non sto perdendo tempo, non ti preoccupare che non faccio tardi, è che pensavo che potresti mandare qualcun altro, lo sai quanto odio questi compiti. Sì, odio annunciare e portare testi sacri, va bene? Lo potrebbe fare chiunque, anche l’ultimo degli angeli. Perché scomodare me, Gabriele, il super Arcangelo. A me piace l’azione. I Sodomiti impalati uno a uno o i soldati di Sennacherib infilzati nel culo con un colpo solo. Invece niente. Vai da Noè a fare le previsioni del tempo. Vai e dai una mano ad Abramo. Fai parlare i cespugli. Parla con Daniele. Una chiacchierata con Mosè… Vai da Zaccaria a dirgli di lasciare in pace Elisabetta, è vecchia! Avvisa Giuseppe che nascerà un bambino di nome Gesù. Insomma. Ma per chi mi hai preso? Mi sembra di fare il ventriloquo! E adesso anche questo Maometto. E non è nemmeno ebreo.

    Ebreo
    - Scusa, ma per noi Ebrei ancora niente? Noi staremmo aspettando il Messia. Gabriele?

    Gabriele
    - Ecco, sono in ritardo. Sono qui a casa sua, alla Mecca, e lui non c’è. Sarà già al mercato. E non so nemmeno come cavolo è fatto questo Maometto.

    Maometto
    - Sono qui al mercato con questa ragazza che vorrebbe una stoffa ma non ha con sé i soldi. Di solito non tengo da parte la merce per i miei clienti. Ti piace questa stoffa? Se hai soldi la compri, se non li hai, guardare ma non toccare. È così che funziona. Ma per lei ho deciso di fare un’eccezione. È troppo bella. Voglio sposarla. È bella come una dea.

    Dea (o dio, è indifferente)
    - Gabriele! Si vuol sapere dove sei sparito? Gabriele!

    Gabriele
    - Non sono sparito, mi sono solo preso una piccola vacanza! Non ne posso più di arabi ed ebrei.

    Ebrei
    - Non vorremmo essere insistenti, ma per noi Ebrei? C’è qualcuno che può dare risposte?

    Qualcuno che può dare risposte
    - Nei secoli ci sono stati grandi progressi scientifici e sociali. Il mondo è progredito in armonia con lo scopo comune di portare pace e benessere in tutti gli angoli della terra. Le superstizioni religiose tutte sparite. La medicina ha fatto passi da gigante, tutte le malattie debellate. Guerre? Solo raramente, piccole scaramucce locali alle quali chi partecipava di solito era figlio di ricchi borghesi.

    Figlio di ricchi borghesi
    - Mio padre, mercante di stoffe ad Assisi, era Pietro di Bernardone.

    Pietro di Bernardone
    - Di solito non tengo da parte la merce per i miei clienti. Ti piace questa stoffa? Se hai soldi la compri, se non li hai, guardare ma non toccare. È così che funziona e non faccio eccezioni. Non sono mica un angelo.

    Angelo
    - Io sì, ma non faccio annunciazioni, sono in vacanza e odio arabi ed ebrei.

    Ebrei
    - Niente di nuovo per noi?

    Noi
    - Noi, figli dei ricchi borghesi, andiamo in guerra solo perché così non ce ne stiamo in giro a far niente scialacquando le ricchezze dei padri. Assisi contro Perugia. Oggi ci siamo trasferiti in un campo dalle parti Gubbio. Uno della compagnia, Francesco, si è perso nel bosco. Lo stiamo cercando. Siamo stanchi e affamati. Una fame da lupo.

    Lupo
    - Francesco!

    Francesco
    - Chi mi chiama? Cavolo, un lupo enorme.

    Lupo enorme
    - Francesco!

    Francesco
    - Cavolo, è lui che parla. Posso capire gli animali, parlare con loro. Peccato che non mi servirà a molto, sta per mangiarmi. Addio mondo crudele.

    Mondo crudele
    - Francesco è stato divorato in un boccone. Hanno trovato i suoi resti dopo tre giorni. Puzzava. Da allora niente più guerre. Quasi un miracolo. Gli hanno dedicato anche un’opera di musica classica, “Francesco e il lupo” di Prokof'ev. L’hanno rappresentata il 26 Novembre 2017 a Firenze, al teatro Dante.

    Dante
    - Io ho scritto un’infinità di poesie d’amore tutte dedicate a Beatrice, però non mi ha filato nessuno. Volevo scrivere una grande opera, ma di che avrei potuto scrivere, io, scrittore?

    Scrittore
    - Beh, a me non è andata meglio. Ho scritto “I promessi sposi”, una noia mortale. Tutti che stanno bene, nessuna malattia, niente carestie. Dopo il primo capitolo si erano già sposati, in comune. Ho dovuto riempire pagine e pagine di paesaggi e paesaggi e paesaggi… Non mi ha filato nessuno, io che volevo essere la voce del popolo.

    Popolo
    - Non c’è più religione.
    - Non c’è mai stata.
    - Niente santi né eroi.
    - La ricchezza equamente distribuita in tutto il mondo e la pace regna ovunque.
    - Ghandi è una bravissima persona leggermente sovrappeso e si è sposato a Calcutta con Teresa.
    - Martin Luther King non ha sogni.
    - Scusate, e noi ebrei?
    - Ah, giusto, gli ebrei! Gli ebrei si sono sparsi in tutto il mondo, sono tantissimi, più dei bambini di Betlemme, e si ostinano ad aspettare il Messia.
    - Non guardate me, io di annunciazioni non ne faccio più, l’ho detto. Quindi arrangiatevi.
    - Potremmo aprire un’ambasciata a Roma…
    - Mr. Trump, please, fuck you…
    - Gabrieleeee!!!

    Edited by E©ly - 5/2/2018, 12:13
  8. .
    Quando la notizia apparve su una rivista specializzata e sui social, quasi nessuno vi fece caso. Ma poi che novità, certo che c’era una faglia, sennò come si spiegavano i terremoti?
    Gli isolani ci convivevano da sempre con l’idea del terremoto; al centro culturale di Misterbianco, ex storica sezione dell’ex partito comunista, il terremoto era come la rivoluzione. Si sapeva che sarebbe avvenuta: ora no, l’anno venturo forse, ma da qui a cent’anni di sicuro. E perciò, visto che il tempo era lungo, tanto valeva non pensarci.
    Ma ora la notizia di studi recenti sul sistema di faglie diffuso non lontano dalle coste ioniche non solo spiegava il progressivo allontanarsi della Sicilia dalla penisola e dava ragione del rischio sismico ma, cosa più importante, poteva essere sorvegliato!
    «Capirai, che vantaggio!» commentò il ragionier Scogliandro, rivolgendosi all’amico Lucio Muccola, titolare del bar “Latte Di Mandorla” situato al centro della piazza.
    «Io non lo sapevo» disse il buon Lucio, «che la Sicilia si allontanava, allora per questo vogliono fare il ponte, per trattenerla alla Calabria?»
    «Ma quanto sei ignorante, Lucio, semmai questa è una ragione in più per non farlo affatto quel ponte!»
    «Oh, oh, solo perché hai un diploma credi di poter dare dell’ignorante a tutti. Vuol dire che faranno un ponte a soffietto, ragioniere!»
    «E perché no, oppure un ponte tibetano. Ma va’ va’!»

    Nel bel mezzo di quest’amena discussione accaddero fatti strani. S’udirono minacciosi boati mentre la superficie del mare sobbolliva, come se avesse accolto nelle sue viscere il mostro di Lochness in preda al mal di pancia e la terra sembrava tremare, qualcuno gridò: «Il terremoto!»
    Ma non era il terremoto: era peggio.
    Lucio Muccola si sentiva male; fin da bambino aveva sofferto il mal di mare e questo gli stava accadendo, come se si fosse trovato su una zattera alla deriva tra i flutti.
    «Ohi, ohi, ho il mal di mare!»
    «Ma che dici, come puoi avere il mal di mare se siamo sulla terraferma?» disse Scogliandro.
    «A te pare, ma stiamo navigando. Non te ne accorgi?»
    Ancora non se n’erano accorti, ma il buon Lucio aveva ragione. Nelle ore successive fu il panico. Qualcuno che si era rivolto ai carabinieri, ai vigili del fuoco o alla protezione civile, alla concitata richiesta di soccorso: “Aiuto, fate qualcosa, la Sicilia si sta spostando verso l’Africa!” Si era sentito rispondere: ”Ma lei ha già voglia di scherzare alle otto del mattino? Guardi che qui stiamo lavorando!”
    Però dopo un’ora e mezzo la tv annunciò che si stava provvedendo a evacuare Lampedusa e Linosa, trasportando la popolazione sulla penisola, perché la bella Trinacria sembrava proprio dirigersi verso sud, rischiando di travolgere le isole minori.
    «E menomale che avevano detto : “la Sicilia non si sposta più di 20 cm ogni 2000 anni,” come è vero che gli scienziati hanno le idee un po’ confuse! C'è chi sostiene 1 cm per anno e chi 5/10 cm per anno, ma quando mai!» disse il ragionier Scogliandro.
    A questo punto intervenne il farmacista Aristide Sòditutto: «Previsto. Era previsto. Tutto il mondo scientifico era d'accordo nel sostenere che un rilascio improvviso di energie accumulate nel sottosuolo avrebbe potuto repentinamente spostare l'isola di 30-40cm in un colpo solo…»
    «Ari’», intervenne ancora Scogliandro «ma qui stiamo andando avanti tutta, altro che trenta centimetri!»
    «Ma no, ora si ferma.» Replicò il farmacista.
    Sopra la testa dei malcapitati un via vai incessante di elicotteri della protezione civile aggiungeva il rombo dei motori al frastuono dei boati che si mescolava alle urla di terrore della gente scesa in strada.
    «E se non si ferma? Lucio, che fai con quel quaderno?» Domandò Scogliandro.
    «Si accettano scommesse, forza.» Rispose l’interpellato.
    «Ma ti pare il momento? T’è passato il mal di mare?»
    «Mi sto abituando. E che vuoi fare? Almeno passiamo tempo. Tanto quel che deve succedere, succede.»
    Il bar era affollato; a stare insieme un po’ ci si confortava. Nessuno voleva drammatizzare, ma di fronte a un evento così eccezionale tutti erano in preda allo sgomento. Però darlo a vedere no, mai. Ognuno pensava: “e se andiamo a schiantarci contro la costa africana?”
    «Accendiamo la tv!» propose il consigliere comunale Filadelfo Rosicatù.
    L’accesero.
    Stavano trasmettendo un’intervista a una ricercatrice del CNR. che diceva:« l’Arco Calabro, il sistema di subduzione tra Africa ed Europa nel Mar Ionio, ha un importante primato: è l’unica regione al mondo in cui sia stato descritto materiale del mantello in risalita dalla placca in subduzione”.
    «Visto, abbiamo un primato!» Disse Rosicatù
    «E che siamo contenti!» Commentò Scogliandro.
    “Le faglie lungo le quali risale il braccio oceanico Tetide – spiegava ancora la coordinatrice della ricerca – controllano anche la formazione del monte Etna, dimostrando che si tratta di strutture in grado di innescare processi vulcanici e causare terremoti. Queste faglie, infatti, sono profonde e lunghe decine di chilometri, e separano blocchi di crosta terrestre in movimento reciproco… ”
    «Hai capito, Lucio?» Domandò Scogliandro.
    «Nemmanco una parola. So solo che mi sta tornando il mal di mare! »
    «Spegni quel televisore, Lucio. Gli scienziati non capiscono niente» disse Filadelfo, «loro parlano e parlano: studi multidisciplinari, immagini acustiche del sottosuolo, la scoperta di anomalie geochimiche… ma lo capiscono che stiamo andando a sbattere contro l’Africa e di questo che dicono? Niente. Ci sarà l’urto, il botto o magari ci fermiamo lì vicino. Queste cose dovrebbero dirci. Ma a proposito, se ci avviciniamo all’Africa restiamo sempre una regione a statuto speciale o no?»
    «Ma tu guarda, che va a pensare ‘sta testa d’assessore!» commentò ancora Scogliandro e si mise a parlottare fitto fitto col farmacista. I due, persone di buon senso, ritenevano positiva la reazione della gente che continuava a fare le solite cose come se nulla fosse accaduto; sarebbe stato peggio se fosse durato il fuggi fuggi generale dei primi momenti di panico. A scatenare il pandemonio però erano stati i turisti che sembravano impazziti e cercavano di abbandonare l’isola con ogni mezzo.
    Le automobili lasciate in strada causarono ingorghi paurosi, specie in prossimità degli aeroporti, i computer dei terminal vacillarono sovraccarichi fino al blocco totale. Allora i turisti si diressero ai porti. Dopo tutto anche da quelli si poteva fuggire. Francia, Inghilterra, Germania e altri paesi europei istituirono ponti aerei per il trasporto in massa dei loro cittadini, ma anche dopo questo provvedimento, marinai e pescatori misero in mare i pescherecci e fecero una sacco di soldi, perché l’Europa era sempre più lontana e le richieste per il viaggio si fecero di minuto in minuto più esose. Qualcuno si lamentava: «Ma in fondo ci siamo spostati di poco, questione di qualche metro in più, per raggiungere la Calabria… » e i pescatori beffardi: «E andateci a nuoto!»
    Il governo mandava in tv comunicati tranquillizzanti, garantendo che la situazione non giustificava eccessive preoccupazioni (sic!) e assicurando che tutti i mezzi erano stati messi in atto per salvaguardare persone e cose. Le forze navali pattugliavano le coste e bla,bla,bla.
    Comunque nel tardo pomeriggio, dopo il massiccio esodo dei turisti, la situazione sembrava avviarsi verso una certa normalità, anche se alberghi e luoghi di ritrovo sembravano svuotati e nelle strade dell’interno il traffico era scarso, ma nelle case le luci s’erano accese e s’udivano voci quiete. Chi giura sulla imperturbabilità degli Inglesi non ha fatto i conti con l’indifferenza dei Siculi. Sono fatti così: li lanciano in mare e quelli non fanno una piega, continuando a comportarsi come sulla terraferma. A un tratto, però venne a mancare la luce, l’isola rimase al buio. Un buio pesto, totale e fu di nuovo panico. Per fortuna la cosa non durò a lungo perché presero a funzionare i gruppi elettrogeni, almeno nei locali che ne erano forniti e il bar “Latte di Mandorla” si popolò dei clienti più affezionati.
    «Che è successo?» Si chiedevano tutti. «Calma, calma, che al buio ci sono le stesse cose che si vedono con la luce» disse Lucio che, a modo suo, era un po’ filosofo.
    Era accaduto che con uno strattone più forte i cavi elettrici s’erano rotti perché la terra s’era separata, però in tv dissero che le comunicazioni via terra tra l’isola e la penisola erano “al momento” interrotte, ma che le autorità seguivano con attenzione l’evolversi della situazione ed erano mantenuti i collegamenti aerei e gli aeroporti aperti e in piena attività.
    Certo che l’isola continuava a muoversi.
    «Ma poi, magari si ferma» stava dicendo il farmacista con un occhio alla tv che aggiornava sulla zatterona vagante, «non bagniamoci prima della pioggia.»
    «Ari’, cu è vagnatu a st’ura, nun s’asciuga cchiù e bagnati già ci siamo. Bagnatissimi, fradici.» Replicava Scogliandro. Il pessimismo del ragioniere era motivato da quel che sentiva in tv, perché si parlava della Sicilia come di una nuova entità geografica, anche il nome le avevano cambiato. La chiamavano Trinacria; quindi non si pensava a una emergenza, o a un evento cui porre riparo o comunque da gestire, ma a una situazione di fatto che pareva irreversibile. La penisola sembrava voler abbandonare Trinacria al suo destino.
    «Ci lasciano andare alla deriva» diceva sottovoce il farmacista, «e l’Europa, farà pure qualcosa, siamo in Europa dopo tutto!»
    «Lo eravamo», replicò Scoliandro sempre più desolato, «ma ora dove siamo e dove stiamo andando?»
    L’Unione Europea rese pubblica una solenne dichiarazione della Commissione istituita per monitorare la situazione, in cui si conveniva che lo spostamento della Trinacria non avrebbe messo in crisi gli accordi vigenti, tanto più che si trattava di uno spostamento minimo di non più d’una quindicina di metri. Questo il risultato di un acceso dibattito nel corso del quale i paesi membri dell’Est arrivarono a dimostrare un certo disinteresse, al punto di dichiarare che se la Trinacria aveva deciso di uscire dalla UE, tanto valeva lasciarla andare.
    Fu allora, dopo aver ascoltato l’ultimo telegiornale, che Filadelfo Sòditutto prese il suo bicchiere di latte di mandorla e andò a sedersi al tavolo dove il farmacista e il ragioniere stavano sorseggiando le loro bibite ed esordì: «Signori miei, vi siete accorti che siamo fermi?»
    «Fermi. Ci siamo fermati?» domandò Scoliandro.
    «Fermi, sì», confermò Lucio che aveva il suo modo personale per attestarlo: «niente mal di mare.»
    «E non lo dicevo io?» ripeté il farmacista «Subito l’ho detto. Del resto, dove potevamo andare? Da Gibilterra non ci passiamo. L’Atlantico è escluso e anche verso est 27000 chilometri quadrati di superficie non passano da nessuna parte; l’unica direzione possibile è a sud, ma ci sarà stato un intoppo e ci siamo fermati. Meglio così, no?»
    «Ma dove siamo? Siamo prossimi alle coste libiche, Tunisine o che altro?» domandò ancora Scoliandro.
    Al terzetto si unì il vecchio maresciallo in pensione Barbaro Diolosà, ormai ultranovantenne che era stato un indipendentista della prima ora nel ’45 e tale era rimasto: «Meglio così. Certo» commentò, «la terra questo ha voluto dirci, che un’isola è un’isola e così deve restare. Senza ponti né di qua né di là!»
    Il poveretto ignorava che una nave italiana con a bordo decine di tecnici, ingegneri giapponesi e geologi era già in navigazione verso Tunisi, dove imprenditori internazionali ipotizzavano di finanziare quella che sarebbe passata alla storia come l’impresa più grande di tutte le epoche: il TT Bridge, che avrebbe congiunto Trinacria e Tunisi. In gran segreto a bordo c’era anche un grande uomo, grande non di statura ma per potere, soldi e apparentamento con famiglie facoltosissime, politiche e non, nonché con lobby d’affari d’ogni genere. Il grande uomo sul ponte della nave seguiva gli spostamenti di Trinacria, avvalendosi di un potente cannocchiale più grande di lui e impallidì di colpo quando s’avvide che Trinacria si stava muovendo di nuovo, ma in altra direzione.
    Gli era accanto il più famoso ingegnere giapponese del momento, Jong Ku Kaz Sii, che in inglese gli domandò: «Ma dove sta andando l’isola?» e quello gli rispose in inglese che non lo sapeva, ma cambiava poco perché il TT Bridge si poteva fare lo stesso da un’altra parte. L’importante era farlo. Ma siccome la parlata in inglese del granduomo non era un granché, Ku Kaz Sii non capì nulla e si ritirò deluso nella sua cabina pensando che sì, il TT Bridge si sarebbe fatto certamente, non ora e nemmeno l’anno venturo, ma da lì a cent’anni di sicuro.
    Intanto Trinacria, coperta di città, villaggi, borghi, con la sua gente e i suoi animali si muoveva sempre più veloce come una barcone che lasciava il porto puntando verso il mare incontro a una terra nuova, fino a scomparire dalla vista degli uomini e dai loro cannocchiali.
    Ma il botto, che Filadelfo Diolosà si aspettava, non ci fu.
    Ci fu un Plofff.

    All’inabissamento della Trinacria, sfuggirono soltanto due isolani che, aggrappati a un tronco d’albero, raggiunsero un isolotto al largo dell’isola di Cipro. A stento ricordavano i loro nomi perché lo choc, da cui mai si ripresero, era stato forte e si esprimevano in versi che nessuno comprendeva; parlavano di un mondo nuovo che era loro apparso come una montagna bruna in mezzo al mare. Un professore di lingua e letteratura italiana di Nicosia sosteneva che si trattava di versi dell’opera di un certo Alighieri che suonavano presso a poco così:
    “Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto Che dalla nuova terra un turbo nacque Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso; e la prora ire in giù, com'altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso".
  9. .
    Lycia direi che è evidente che non centri nulla. Quindi per favore non farti portatrice di un fardello inutile.
  10. .
    Complimenti a tutti.
    Sempre grandi risultati, qui...
    Bravissimi

    Ele
  11. .
    E tanti auguri neh :)
  12. .
    Li fermerò con le braccia tese
    e li metterò in fila
    per non perderli
    come ombrelli nel sole.
    Ordinati ricordi in scaffale
    da prendere con fatica
    arrampicati dentro
    su un falso equilibrio polveroso.
    Li sommerò a coppie
    binomi di memoria
    talvolta spessi di sangue
    talvolta seta leggera
    Dondolii di gesti
    poi
    li accatasterò –io, sì-
    con ordine preciso,
    per tenerli in vita
    tutto il tempo necessario.

    Sottrarrò dolore, ma non sarà mai
    -mai- abbastanza.
  13. .
    Mettiamola così: mi ha dato fastidio leggere il vostro dibattito.
    Mi ha dato fastidio non poter intervenire per motivi squisitamente personali (non per spalleggiare uno o l'altro, ma per dirvi di smetterla).
    Ora, a nome mio e di SPS, mi scuso con l'autore per l'OT che ammorba il suo racconto.
    Se volete fare altrettanto, meglio.
    Non aggiungo altro, siamo tra adulti e onestamente la gara a chi piscia più lontano la potete fare giù in piazzetta.
    Grazie.

    Edited by E©ly - 15/10/2017, 11:41
  14. .
    Grazie, Lycia Tom e Ari.

    Un bell'abbraccio a voi.
  15. .
    Lycia cara, so che hai buone intenzioni ma se non la smetti di difendere tutti i racconti manco fossi l'avvocato del diavolo e di tutti i suoi demoni, mi toccherà venire lì e legarti le mani dietro la schiena...

    Fai la brava, su.
    Argina questo tuo bisogno di avere sempre l'ultima parola su tutto e di sapere sempre cosa pensa l'autore quando scrive.

    Fallo per me.
146 replies since 30/12/2011
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