Scrittori per sempre

Votes taken by B&S

  1. .
    e comincio a leggere anche io, vah.

    Buon ferragosto a tutti.

    @ Viv: dalla 50esima ora in poi, direi...
  2. .
    Non ci siamo dimenticati neh... restate sull'attenti belli pronti, vah
  3. .
    «Senza pensare all’estate, d’accordo?»
    «D’accordo.»
    Si muore, mi dicono.
    Le persone muoiono, mi dicono.
    E me lo dici anche tu.
    Io poi, l’estate, l’ho sempre odiata. Caldo, zanzare, caldo, zanzare. E poi ancora caldo.
    E sudore. Stagione del cazzo, ecco ciò che penso.
    «Quindi, vedi, è un bene che io muoia d’estate, così non ti rovino le altre stagioni»
    Sorridi davvero, mentre me lo dici. E alzi le mani, pronta a ghiacciarmi con una delle tue risate.
    Ma poi mi guardi, paralizzi il tuo viso.
    «Sono una stronza, scusa Mauro. Scusa, scusa…»
    Tu muori, e chiedi scusa.
    E io mi sento, be’, inutile spiegarlo.
    Maledetta estate.
    «Senza pensare all’estate, d’accordo?»
    E il cazzo che non ci penso, all’estate. Ci penso, ogni momento. Mi inquina, mi nausea.
    Ma tu me lo dici a ogni frase, con un sorriso di scusa.
    Tu muori, e chiedi scusa.
    «Andiamo al cinema, vuoi?» ti chiedo, e tu fai quel sorriso che dice “senza pensare all’estate”.
    «Io voglio solo stare con te, per il tempo che mi resta.»
    Ti vorrei urlare che no, cazzo, no. Vai via, vai via, non voglio vederti morire. Se non lo vedo non può esistere. E invece ti accarezzo la testa, ti abbraccio. Misuro il tuo corpo per non dimenticare quanto spazio occupa tra le mie braccia. Tu piangi un po’, chiedi scusa, ancora.
    Tu muori, e chiedi scusa.
    Ti porto al mare.
    Domani è il ventuno giugno. Voglio guardarti nuotare senza pensare all’estate, almeno oggi.
    Almeno oggi.
    Ti guardo dalla riva. Ti amo, per tutto quello che mi hai dato. E ti odio, perché me lo stai togliendo.
    Volto le spalle al mare, risalgo la spiaggia. Salgo in macchina, parto.
    Tu muori. Chiedo scusa, ma non ce la faccio. Vado.

    Faccio inversione a U dopo duecento metri circa.
    Parcheggio la macchina, scendo.
    Sei ancora nell’acqua.
    Respiro a fondo, cammino verso di te.
    Fino a quando ci sarai, io camminerò verso di te. Anche se fa male.
  4. .
    Ma che bello!!

    Un abbraccio a tutti e 5. Un abbraccione, insomma.

    Ele
  5. .
    Ciao ragazzi,
    Fino a quando non saremo tutti presenti non riusciamo a parlarne.
    Achi, sarebbe utile tenere la proposta in sospeso fino alla fine della prossima settimana.
    Stiamo pianificando le attività estive, il tempo di capire come siamo messi.
    Un abbraccione
    Ele
  6. .
    Ragazzi per le scadenze avrete lumi entro un paio di giorni.
    Indicativamente circa 3 settimane.
    Date precise prestissimo.

    Buona domenica a tutti ;)

    Ele
  7. .
    Alla stridente frenata dell’auto nera col lampeggiante blu, le lunghe ciglia della procace cassiera interruppero il loro abituale sfarfallio e misero in evidenza due bulbi oculari inaspettati.
    Quattro energumeni rotolarono fuori come palle pazze e irruppero nel bar.
    Il sonnacchioso riscaldamento dei runner, riuniti nella piazza della partenza, rallentò fino all’inerzia per assistere all’estemporaneo ciak di un’improbabile film d’azione.
    Seduto a uno dei tavolini del bar Tom, già pronto per la gara, registrava scene e personaggi da traslare nelle sue storie. Guido Tommaselli, Tom per tutti quelli che lo conoscevano, era un magnifico fotografo: scattava le sue foto annotandole sui tovaglioli dei bar, e poi le sviluppava alla tastiera, la sua camera oscura. Quella mattina, però, quando il diaframma si aprì, si rese conto di essere dalla parte sbagliata dell’obbiettivo. Si senti sollevato nei suoi novantacinque chili e tutt’altro che sollevato dalle mille paure che appesantivano improvvisamente la sua mente. L’idea di quella estrema discrasia, fra la sensazione fisica e quella psicologica, gli disegnò una smorfia ilare sulla faccia, cancellata da una spallata, poco involontaria, che gli aprì il labbro.
    «Già passata la voglia di ridere?» si sentì dire mentre si tamponava col fazzoletto degli appunti.
    Al banco del bar un uomo con una sigaretta elettronica appesa al collo, emise un sbuffo azzurrognolo, mentre inquadrava la scena, la testa leggermente piegata di lato.
    Il runner, col muso che gli bruciava più delle gambe lubrificate con la pomata canforata, lo vide e istantaneamente elaborò che quella figura era fuori contesto ma, trascinato dai poliziotti, ripose il suo kit fotografico e si lascio deportare.
    Lanciata fra le ZTL di una città ancora alle prese col lento risveglio domenicale, a sirena spiegata, l’auto nera lo condusse in caserma. Attese per quasi un’ora in una stanza piatta, arredata soltanto con un tavolo fissato al pavimento, due sedie ai lati opposti e un grosso specchio lungo una delle pareti, ammanettato con una fascetta di plastica che gli segava i polsi. In canotta e pantaloncini, sotto le pale di un ventilatore polveroso, sentì il sudore raffreddarsi e lunghi brividi gli percorsero la schiena.
    Poteva essere un’ottimo spunto per uno dei suoi racconti, ma stavolta Tom era il protagonista reale di una storia che non gli piaceva.
    Quando finalmente la porta si aprì, un uomo, in camicia e cravatta, entrò e si sedette davanti a lui.
    «Allora, signor Tommaselli, ci racconta qualcosa?»
    «Ma chi siete? Cosa cazzo volete da me?»
    «Ehi, ehi, calmo! Qui le domande le facciamo noi! Le consiglio di collaborare perché le cose si mettono male per lei.»
    Ma collaborare a cosa? E poi ho freddo e sete.»
    Il poliziotto guardò nello specchio e fece un cenno con la testa. Un minuto dopo l’uomo della spallata entrò e poggiò sul tavolo una bottiglietta d’acqua e le giacca della tuta che Tom pensava di aver lasciato al bar. Il runner la indossò e bevve avidamente, fin quasi a scolarsi tutto il mezzo litro.
    «Allora cominciamo da questo» lo incalzò quello che lo stava interrogando, e gli mise davanti il pizzino del bar, stropicciato e insanguinato sul quale si leggeva:
    “Ti ho incontrata alla stazione, che inseguivi il tuo profumo, presa in trappola da un tailleur grigio fumo, i giornali in una mano e nell’altro il tuo destino… Tom…”
    «Ma… ma… i mie appunti, e allora?»
    «Saltiamo i preliminari, Tommaselli. Non ho né il tempo né la voglia di sorbirmi il suo finto cadere dalle nuvole. Una donna entra nei suoi appunti e poi fatalmente viene ritrovata morta, ai piedi di un sottopassaggio dei binari di una stazione di periferia!»
    «Ma chi?»
    Al silenzio del poliziotto Tom esclamò:
    «Dafne! Ma come… ma neanche la conosco!»
    «Questo lo stabiliremo noi. Innanzi tutto ci dica come mai è finita nei suoi appunti.»
    Una risata isterica precedette la spiegazione:
    «È una conversazione in tag, in un sito di scrittura.»
    «Questo lo sappiamo; è per questo che siamo arrivati a lei.»
    «Ditemi che è un incubo, che fra un po’ mi sveglio e voi non ci siete più.»
    «Adesso basta, smettiamola. Se decide di parlare faccia un fischio!»
    Il poliziotto uscì sbattendo la porta e raggiunse il collega nell’altra stanza per confrontarsi con lui.
    «È un fottuto psicopatico! Quelli della scientifica hanno sbirciato nel cellulare della vittima e fra le varie applicazioni aperte c’era un sito di scrittura; all’ora della morte lei scriveva in tag, e lui pure: non si è resa conto di avere l’assassino a due passi che giocava con lei fino a un’attimo prima di ucciderla.»
    Passarono altre due ore e quando fece rientro nell’altra stanza gli chiese con arroganza:
    «Allora, pronto a confessare?»
    «Non posso essere stato io! Lei è di Milano o giù di lì; io non mi muovo da Roma da anni.»
    «Come fa a sapere che è di Milano se dice di non conoscerla?»
    «Lo ha scritto lei che stava andando in una periferia lombarda, controllate la tag.»
    «E Riccardo Superchi, che si rompe una gamba per un gradino di legno che misteriosamente si spezza in una baita di montagna? E la moglie di Achille che casualmente beve la tisana destinata al marito e finisce in ospedale? E Maripao, e Zac, con sintomi vari di avvelenamento e che a momenti ci restano secchi? Tutti casi fortuiti?»
    Lo disse sbattendo sul tavolo un fascicolo di stampe della tag, dove erano evidenziati i passaggi in cui si faceva riferimento agli strani incidenti capitati, ai frequentatori del sito, nei giorni immediatamente precedenti alla morte sulla quale stavano indagando.
    Richiamato dal rumore delle nocche battute dietro lo specchio il poliziotto uscì di nuovo dalla stanza. Quando rientrò sembrava un cane bastonato.
    «Signor Tommaselli»… A capo chino gli si avvicinò, lo liberò e, ammettendo il suo fallimento, aggiunse con un filo di voce: «Può andare.»
    «Ma cosa cazzo… adesso mi spiegate o vi denuncio tutti!»
    «Il barista le ha fornito l’alibi e la cassiera lo ha confermato. Il giorno dell’omicidio lei era lì. È rimasto tutta la mattina al bar, e stranamente non ha partecipato alla gara podistica: se lo ricorda bene.»
    «Già. Mi ha anche educatamente mandato affanculo perché ho preso due bustine di zucchero senza ordinare niente… ma perché avete pensato a me?»
    «Guardi.» il poliziotto riprese il fascicolo con le stampe della tag e lo sfogliò all’indietro, fino a una pagina quasi totalmente gialla, tanti erano i dialoghi evidenziati:
    “Superchi Riccardo: Cari che mi pensate, solo un braccio rotto, nulla di grave. Caduto per le scale dell’albergo. La maledizione di Ink, dopo Maripao e Zac ha colpito anche me.
    Arianna: Riccardo, ma la volta scorsa la gamba non te la eri rotta scendendo dal letto dell’albergo? Non è lo stesso albergo, vero? Altrimenti lo evitiamo. Certo che vai a dormire i certi posti pericolosi.
    Tom: Vi piace il pollo? Con le patatine o senza?
    Dafne: Tom, ti prego! Conoscevo uno che alle feste di compleanno attaccava bottone con la stessa domanda. Un tipo inquietante, che per quanto mi riguarda oggi potrebbe tranquillamente essere un serial killer.
    Achille: Scusate la mia assenza dalla tag, mia moglie è stata in ospedale per tre notti. La maledizione di Ink ha preso anche inostri consorti?
    Tom: scrittori maledetti! :), ;)

    Dafne: mi imbottisco di aulin, tacco 12 e via, anche lo sposo stupirà!
    Tom: Tacco 12? Attenta a non precipitare…
    Stefia: Tacco 12, Daf? Urca, io mi slogo le caviglie col tacco 2!
    Dafne: Ste, il tacco serve per distrarre dalle occhiaie… in qs momento in stazione sono molto personaggio noir. Aria sbattuta, sola, binario del treno in ritardo, cell quasi scarico… e naturalmente tacco 12.
    Tom: Ti ho incontrata alla stazione, che inseguivi il tuo profumo, presa in trappola da un tailleur grigio fumo, i giornali in una mano e nell’altra il tuo destino, camminavi fianco a fianco al tuo assassino.
    Dafne: Tom…”

    «Queste sono le ultime stringhe transitate sul cellulare della vittima prima che nella caduta si staccasse la batteria. Hanno insospettito i colleghi di Milano che ci hanno segnalato lei. Quel ‘precipitare’ lasciato così, sospeso; la sua frase, quella del pizzino che aveva stamattina al bar… sembravano confermare i sospetti. Senza contare che gli altri appunti ritrovati nelle sue tasche riportavano diversi stralci di questa conversazione. Perché? E perché quella sua frase sull’assassino?»
    Tom a fatica metteva insieme le varie parti del mosaico, furioso per la pochezza degli indizi che li avevano condotti a lui, furente all’idea che il limonare gli sarebbe costato dolore per diverso tempo: ma si trattenne e rispose alle curiosità del suo interlocutore:
    «È una strofa di una canzone di De Andrè. Gli appunti mi servivano per Ink.»
    «Ma cos’è ‘sto Ink?»
    «Ah, ah. Un concorso di scrittura a puntate, in vari generi. Il prossimo step era dedicato al genere giallo/noir. Non mi piace, non mi si addice e cercavo qualche spunto. E invece, più che scriverlo, lo sto vivendo il noir.»
    «Beh, buona fortuna, signor Tommaselli, e ci scusi.»
    «Eh, come no, fortuna. Posso avere una copia delle stampe della tag?»
    «Per le sue storie? Tenga quelle, ne abbiamo diverse.»
    I due si strinsero la mano. Il poliziotto accennò un timido: «senza rancore?... Arrivederci.»
    «A mai più!», fu la risposta
    Quella notte Tom non dormì. Lesse e rilesse quei fogli senza scovare nulla. Poi gli venne il dubbio che quello che cercava potesse non essere lì. Accese il computer, si loggò sul sito di scrittura e cominciò a rileggere i racconti dello step precedente. Trenta e passa racconti, ciascuno con almeno altrettanti commenti.
    Tenuto in piedi da una intera ‘tre tazze’ bevuta a tappe, resse fino all’ora di pranzo del giorno successivo.
    Quando si risvegliò era ormai buio. Mise la testa sotto la fontana, ricaricò la moka e la mise sul fuoco: riprese quindi a leggere dimenticandosene. L’odore di bruciato gliela ricordò e bevve, digrignando i denti, il percolato di caffè.
    Andò avanti così per alcuni giorni. C’era qualcosa che gli sfuggiva. Aveva la sensazione di avere sotto il naso qualche indizio importante ma non riusciva a coglierlo. Decise quindi di adottare un’approccio più scientifico: tornò alla pagina principale dello step e appuntò in colonna, su un foglio A3, i titoli di tutti i racconti. Poi riportò sulla prima riga i nomi di tutti i commentatori, creando una griglia e maledicendo la sua allergia a excel. Segnò con un segno (+) i commenti positivi, con un segno (–) quelli negativi e con una (x) quelli neutri. Alla fine riguardò più volte quello schema, che però non lo portava da nessuna parte. Mancava ancora qualcosa, o, meglio, c’era qualcosa che non riusciva a vedere.
    Una ulteriore dose del disastroso caffè, che ogni tanto si preparava, attivò il cortocircuito giusto ed ebbe la folgorazione che cercava. Riprese in mano le stampe della tag e le confrontò con la sua griglia. Finalmente l’ultima tessera trovò il suo posto.
    Tutti quelli che avevano partecipato allo step, autori o semplici commentatori, erano presenti in tag: tranne uno il cui nickname era Smoketronic. Le sinapsi del suo cervello fotografico flesharono veloci e l’istantanea che aveva scattato il giorno del suo arresto prese colore. Nitido gli apparve l’uomo al bancone del bar, con al collo la sigaretta elettronica.
    Soddisfatto compose il numero che il poliziotto gli aveva lasciato e, senza giri di parole, affermò: «So chi è stato!»
    Era sfinito e si lasciò cadere sulla vecchia poltrona di pelle. Riprese la griglia per compiacersi del proprio intelletto e scorse i commenti al racconto del probabile assassino. In corrispondenza delle valutazioni negative c’erano i nomi di coloro che erano stati vittime di quegli strani incidenti, l’ultimo dei quali era stato fatale alla povera Dafne. Una subdola inquietudine si insinuò inesorabilmente, fino a soppiantare l’euforia dei minuti precedenti. L’unico commento negativo che restava impunito era il suo.
  8. .
    Ciao aut,
    il tuo racconto è coinvolgente, ti tiene incollato per sapere che succede che succederà...
    Scorre bene, nonostante la lunghezza si lascia leggere con piacere, ed è un gran pregio.
    Brav.
    Ele
  9. .
    Ciao aut,
    nel tuo testo ci sono imprecisioni e anche un po' di confusione su chi sia l'interlocutore della tua protagonista.
    Per il resto, è martellante e mi conduce con il suo ritmo, questo tuo monologo. Riesci a trasmettermi le emozioni, la rabbia, la sofferenza, il rifiuto. Tutto questo mi arriva, brav.
    Ele
  10. .
    In piedi, davanti allo specchio del bagno, chino la testa per osservare la scriminatura e, misurando a occhio la ricrescita, mi accorgo che sono già in ritardo per fare la tinta. Che gran scocciatura! Sono anni che aspetto di averli tutti bianchi così da poter smettere di tingerli: non voglio certo diventare come quella signora che incontro al supermercato, chiaramente più vicino ai novanta che agli ottanta, con un improbabile caschetto nero corvino lucidato con la cera.
    Purtroppo, però, la mia canizie avanza a macchie e l’unico modo che ho per verificare la situazione generale, è farli crescere senza tingerli; l’ultima volta che ho osato farlo, oltre a non avere più avuto una vita sociale per la vergogna di farmi vedere in pubblico, ho notato che il castano scuro aveva perso molte posizioni lasciandomi con un maculato che sta benissimo su un dalmata, ma che è inguardabile su un essere umano. Il taglio della mia chioma, completamente fuori controllo, ricordava quello di maga Magò e mi viene ancora da ridere ricordando lo sguardo orripilato che mi rivolse il parrucchiere, quando mi decisi a porvi rimedio.
    Il primo capello bianco mi spuntò a ventiquattro anni, non ascoltai quelli che mi raccomandavano di strapparlo e dopo un po’ ne apparve un altro. Ormai non c’era più rimedio: sarei incanutita. Il giorno che me ne lamentai con mio padre, egli mi disse di non lagnarmi perché ero fortunata ad aver ereditato quel tratto genetico da mia madre. Infatti, se avessi preso da lui, a quell’età sarei stata già quasi completamente calva. Fu abbastanza convincente: smisi di lamentarmi e mi rassegnai a tingermi.
    Giro la testa a destra e a sinistra con gli occhi sempre fissi sul mio riflesso, mi avvicino a osservare una ruga e col dorso della mano do un colpetto sotto al mento, cercando di convincere la pelle a stare più tesa, infine mi allontano per uno sguardo d’insieme e sospiro. È arrivato il momento: assomiglio al ricordo che ho di mia madre.
    Lei mi ha avuto tardi, dopo i miei fratelli tanto più grandi di me ed è morta a cinquantaquattro anni, quando io ne avevo tredici; me la ricordo con un’espressione severa e i capelli sale e pepe, un po’ radi.
    Quando, da bambina, guardavo le vecchie foto di mia madre stampate su cartoncino, mi sembrava strano che potesse trattarsi della stessa persona che vedevo ogni giorno. Crescendo, ho cercato e trovato somiglianze tra me e quelle immagini, mettendomi nelle stesse pose davanti allo specchio. Già allora c’era qualcosa di lei in me e quel qualcosa, alla fine, si è completamente palesato.
    Mi piaceva il mio viso a vent’anni e mi piaceva a trenta; a quaranta era già un po’ troppo diverso da come me lo volevo ricordare, ma quando ho visto le foto scattate per il passaporto, sono rimasta di sale: per la miseria! Chi è quella donna che ricambia il mio sguardo? Di certo non posso essere io!
    Fare la foto per il passaporto è stata una procedura impietosa: sono dovuta stare seduta davanti a uno schermo bianco, con i capelli scostati dal viso e l’espressione seria senza potermi mettere in posa e senza poter sfruttare le ombre o la prospettiva per ottenere un aspetto migliore.
    È stato così che ho scoperto di avere un volto che non immaginavo; entrando in una nuova decade, sono diventata mia madre.
    Questo è l’anno dei miei cinquanta e faccio fatica ad accettarlo perché è un numero che segna un confine invisibile tra ‘quanto è stato fatto’ e ‘quanto si può ancora fare e, quasi sicuramente, questo confine si trova a più di metà strada.
    In senso assoluto cinquant’anni non sembrano tanti: il pianeta ha qualche miliardo di anni, ci siamo separati dalle scimmie qualche milione di anni fa, solo l’altro ieri gli Unni hanno devastato l’Italia… cosa sono in confronto, cinquant’anni? Non sono poi tanti, no? E invece sì, e li vedo tutti sul mio viso.
    Non sono le rughe il mio cruccio: ho sempre seguito la massima “ridi spesso e quando sarai vecchia avrai le rughe nei punti giusti” e così è stato. Senza dubbio anche la genetica ha la sua importanza: una cugina del ramo paterno della famiglia, quasi mia coetanea, a quarant’anni era già incartapecorita come Ramses, mentre la sorella di mia madre, a novant’anni, ha la pelle del viso tirata e liscia; se non altro, da questo punto di vista, dovrei poter stare tranquilla.
    Sono abituata al fatto che il corpo si trasformi: sono ingrassata e dimagrita, sono stata una tonica atleta e una flaccida nullafacente ma, ingenuamente, ho sempre sperato che il viso non sarebbe mai cambiato più di tanto.
    Ho letto che naso, mento e orecchie non smettono mai di crescere e a quanto pare è proprio vero: la pelle si rilassa e i lineamenti fini e delicati dei vent’anni scompaiono per lasciare il posto a un viso più duro, più scolpito e meno dolce.
    Mi torna alla mente quella profuga afgana immortalata due volte dal fotografo del National Geographic.
    Le due foto messe vicine mi hanno abbastanza sconvolto: il suo viso, da tondo che era, è diventato ovale e il naso e il mento si sono allungati. Si capisce che è la stessa persona dagli occhi, che sono gli stessi di tanti anni prima e dal taglio delle labbra, ma lei si è trasformata in qualcun’altra; l’espressione sfrontata che esibiva da ragazzina ha lasciato il posto allo sguardo mesto e rassegnato che una vita sicuramente non semplice le ha imposto.
    Studio nuovamente il mio viso, ma faccio fatica a venire a patti con questa nuova me stessa che non rispecchia i miei ricordi. Chi è la persona che mi osserva dallo specchio?
  11. .
    Sedersi a riposare e appoggiare la schiena ai tuoi pensieri.
    Sì perché con tutto sto’ girovagare si stanca il corpo e la mente.
    E poi dal posto in cui mi siedo, posso osservare l’intorno. Guardare da che parte sono venuto e cercare la direzione da prendere quando mi alzerò.
    Appoggiato a pensieri.
    Già è una conseguenza/conquista dei tempi moderni, quella di dedicare tempo ai pensieri.
    Credo che un tempo e tutt’oggi in molte parti del mondo, non ci sia stato molto tempo per pensare, affannati a sopravvivere nel posto e nelle condizioni dove il destino ci proiettava alla nascita.
    I “grandi pensatori del passato” che ci hanno tramandato fiumi scritti di pensieri invitandoci a pensarli a nostra volta, erano persone che probabilmente non avevano molti problemi di sopravvivenza.
    In Grecia, culla della filosofia occidentale, c’era il tempo di pensare, di disquisire il pensiero nell’ozio quotidiano, perché alla sopravvivenza provvedevano gli schiavi.
    E cosi credo, sia stato in ogni parte del mondo. Chi è oberato dal peso del lavoro, la sera crolla sfinito, non fa filosofia.
    Ma grazie a Dio i tempi sono cambiati e il tempo libero è stata una delle più grandi conquiste degli ultimi cinquant’anni. Abbiamo strappato ai poeti, scrittori, pensatori, filosofi l’esclusiva e cosi possiamo, poetare, scrivere, pensare, filosofare anche tutti noi.
    Manca un termine di paragone però: il pensare, ora tutti, in più parti, di più, produce domande che il pensare stesso inevitabilmente pone e che fino a poco tempo fa solo in pochi azzardavano : chi e perché siamo? Da dove veniamo e dove andiamo?
    Ora abbiamo tutti l’opportunità di affrontare le domande e cercare le risposte. Ma perché porsele, dirà qualcuno.
    Per il fatto stesso che ce le poniamo, significa che a tutt’oggi risposte soddisfacenti da parte di chi ha avuto il tempo di pensarle non ce ne sono state e forse non troveremo mai la risposta.
    Il guaio è che se non te le poni tu, spontaneamente, te le pone la vita con i suoi accadimenti e non possiamo bluffare più di tanto, perché a quello che ci capita di bello e di brutto nella nostra esistenza, ora abbiamo il tempo di pensarci.
    Riflettere . Specchiare il pensiero in uno specchio interiore; in quello spazio percettivo che tutti sentiamo di avere per decidere e scegliere se quello che pensiamo e agiamo va bene per noi.
    E se lo specchio non è limpido, offuscato dalla confusione, occultato dal dolore , che riflesso rimanda al nostro pensiero?
    Oddio, ecco perché mi sono fermato. A furia di pensare e cercare mi sono stancato e non poco. Cercare intorno una soluzione precostituita?
    Gigantesche e profonde orme delle religioni, ripiene di supponenza e sangue . Migliaia di profeti nel corso della storia a indicare uniche verità. Fiumi di parole scritte nei libri, pontificate dagli altari. Filosofia spicciola venduta ai chioschi e nelle edicole con certe soluzione ai tuoi malesseri fisici e spirituali. Tecniche psicofisiche astruse, e più lo sono e più ci attirano, da poter poi svendere come novità nei salotti di conversazioni, salvo poi necessariamente mentire alla domanda se per noi hanno funzionato, per non fare la figura dell’allocco.
    E tu sempre lì, dopo aver letto ricette, sperimentato alchimie, raccolto suggerimenti per terre lontane da visitare, guru e sciamani da incontrare, con la tua stanchezza e la voglia di riposare.
    Ma, stare appoggiato a questi pensieri invece di riposarmi mi affaticata oltre modo.
    Sarà meglio che mi alzi.
    Ma come metterla, con sta sensazione che non mi lascia mai di essere, collocato tra dimensioni apparentemente antitetiche. Ancorato alla terra con tutte le contraddizioni dell’esistenza ma spinto da una forza non governabile verso l’alto, verso il cielo.
    Terra: passaggio o destinazione? Cielo: innaturale tensione o metà dell’esistere?
    Non mi resta che il viaggiare.
    Mi domando se in realtà mai sono partito.
    Da dove si parte? Dove si viaggia realmente? Dove si ritorna?
    Tolto il luogo di supposta partenza e quello di arrivo, c’è il viaggiare.
    Non avverto obbligo verso ciò che lascio.
    Non sento attesa per ciò che troverò in un qualche arrivo.
    Il viaggiare disarticolato da precisi riferimenti fa sentire libero di indirizzare i pensieri e il sentire verso quello che avverto essere il mio vero territorio di viaggio.
    Animale e uomo, marcando i confini con l’essenza della mia intimità, parto a esplorare altri territori, ubbidendo a un atavico istinto, probabilmente connesso con la mia natura e identità.
    Che c’è oltre i confini del territorio che ho segnato con la mia presenza ?
    Cosa che con tanta energia calamita tutto il mio essere a superarli?
    L’ignoto. Lo sconosciuto da conoscere.
    Lo spazio dove tutto ciò che hai accumulato come sicurezza viene invaso da dubbi.
    Non serviranno il convenzionale linguaggio, le strategie d’approccio, il passo guardingo suggerito da altre esperienze a incontrare quello che troverò.
    Già lo so.
    È cosi ogni volta che mi addentro in questi territori.
    Dovrò entrarci nudo e inventare nuove modalità che gli incontri che farò mi suggeriranno di volta in volta. Nudo, con unici segni identificativi che parleranno per me: le cicatrici che segnano la mia anima.
    E comunque devo fermarmi a riposare. M a non si fermano i pensieri.
    Ancora pensare, pensare, pensare.
    E se tutto fosse già dentro di me ?
    Se tutto, che è dentro di me non aspetta altro che smetta di pensare per abbandonarmi con fiducia alla sua forza intrinseca per auto rivelarsi?
    Se mi sedessi con calma e invece di pensare, ascoltassi?
    Se decidessi che sono io il vero paese da scoprire, da esplorare , e non quelli intorno a me ?
    Se mi togliessi di dosso la paura di sbagliare ogni volta che cerco una via, e prendessi come giudice della bontà della mia scelta, il mio cuore e non temessi di abbandonare una via se questo è quello che esso mi dice di fare ?
    Se cercassi una via che invece di indicarmi la verità mi indicasse il suo cuore?
    Già. Staccarsi dai miei pensieri, sedermi con calma e ascoltare.
    Lasciare che ciò che si rileva agisca al di la della mia volontà.
    Forse la verità è un sentire e non un pensare.
  12. .
    È giorno, è giorno, perché dovremmo andare nel vicolo dietro il ristorante? Non vedi che il locale è pieno di gente? Sei una cameriera, dolcezza. Ci sono tavoli che aspettano, persone che contano su di te. Non ricordo l’ultima volta che qualcuno mi ha preso per mano. Poteva essere mia madre. Quando il mondo si reggeva sui fumetti, sulle musicassette da riavvolgere usando una matita e facendole girare in un verso o nell’altro, sui videogiochi da bar. Sulla sensazione che ogni cosa sarebbe rimasta uguale, crescendo. Sciocchezze, sciocchezze. Perché nessuno ci guarda mentre usciamo mano nella mano? Frena ora, dolcezza, non m’importa se c’è qualcosa che devi farmi vedere nel vicolo. È giorno, è giorno. Qualunque cosa può aspettare la notte. Non credere di sapere quello che fai, non credere che sia giusto darmi una chance. Non verrà mai fuori che sono meno peggio di quello che sembra. Magari no, magari no? Sei come un libro aperto. Non mi piace il finale che stai pensando per noi. Non è vero che tanto vale provarci comunque. Paura. Mi attraversa il corpo come un liquido di contrasto durante un esame che non potrà che andare male. Peggio del solito, se è possibile. Così sarà l’ultima volta che andremo nel vicolo, dolcezza. L’hai voluto tu. Mi toccherà filarmela a gambe levate, mollare tutto come faccio di solito quando non riesco più a togliermi di dosso la realtà, quando qualcuno si mette in testa che forse sono meno peggio di quello che sembro. Magari no, magari no? Chiudi quel libro. Perché credi che valga la pena provarci comunque? È per qualcosa che ho fatto? È per qualcosa che non ho fatto? Non ricordi? Il vicolo è soltanto il posto dove andiamo di notte. Quando è ora di staccare mi lanci la tua occhiata, tutte le sere la stessa. Ti togli l’uniforme, mi guardi come se fossi l’ultimo tavolo da sparecchiare dopo una giornata interminabile. Alza i tacchi! Non vorresti dirmelo anche ora? Non vorresti lasciarmi andare la mano? Alza i tacchi, dobbiamo chiudere! Non è una specie di segnale, il tuo? Perché butti giù quel che resta del bicchiere che ho di fronte, infili in tasca il libro che sto leggendo e vada nel vicolo ad aspettarti? Alza i tacchi! Detto a voce alta perché tutti ti sentano. Dimmelo anche ora. Non fai che uscire con tipi di cui ti vergogni, dolcezza, certi farabutti con cui non ti va di farti vedere alla luce del sole e io sono uno di quelli, uno dei tanti. Non è nemmeno una storia, quella tra di noi, perché non c’è nessuna storia se non vuoi che gli altri la vedano. E, se diventi brava a nasconderla, finisce che non esiste più nemmeno per te. Ma non è così oggi. È giorno, è giorno. Cosa devi farmi vedere nel vicolo che non può aspettare stanotte? Che cosa c’è in quel vicolo di te che non ho già visto? La notte non parliamo. La notte andiamo di fretta. Perché vorresti cambiare le cose? E non importa se c’è dell’altro. C’è sempre dell’altro per due come noi. C’è dell’altro quando ti sistemi i vestiti guardando altrove. C’è dell’altro quando tiro fuori il tascabile di prima e mi metto a leggere e faccio del mio meglio per togliermi di dosso la realtà. Ho sempre paura che mi resti attaccata un po’, di continuare a sentirla anche dopo, quando tornerò nel mio appartamento, quel buco dove la mia roba è ancora chiusa dentro scatoloni e dormo su un materasso buttato per terra e dal soffitto pendono fili scoperti. Non c’è giorno che non mi ritrovi a fissarli, quei fili, chiedendomi se finirò mai per toccarli una buona volta. Ma non lo faccio mai, e forse è peggio, peggio che se li toccassi davvero, perché arrivo lì lì per farlo e poi mi tiro indietro e la paura che continuerò soltanto a fissarli è peggiore di quella di scoprire quel che potrebbe accadere se mai li toccassi. Ma ora? È giorno, è giorno, dolcezza. Non importa se nel vicolo è buio anche di giorno. Se la luce non arriva mai e il posto ha l’odore che hanno tutti i posti dove la luce non arriva mai. Perché ci sediamo? Perché non posso toccarti e devo guardare là dove il buio finisce e inizia la strada? Inizia lo spettacolo! Quale spettacolo? Non m’importa se qui ci vieni anche senza di me. Non sono geloso. Perché dovrei esserlo? Non m’importa se questo posto esiste da sempre, da prima di noi due, prima di questa storia e di tutti gli sforzi che facciamo per convincere noi stessi e gli altri che in realtà non esiste alcuna storia. Vorrei il mio tascabile ora. Potrei leggere ad alta voce per te come faccio la notte. Potrei persino inventare una storia per te se solo mi dicessi che non cambierà nulla tra di noi, che non mi farai domande, che continuerai a dirmi alza i tacchi sapendo che non c’è molto da sapere su di me. Altre ragazze come te, altri vicoli come questo. Altri tascabili, tanti da aver perso il conto. Pagine e pagine in cui nascondersi, come città da cui andarsene o verso cui scappare. Posti insignificanti, per lo più, da cui andarsene senza rimpianti, lasciando situazioni irrisolte, domande senza risposta. Non mi dire più che sono bravo con quei libri che mi porto in tasca e che dovrei raccontarne di mie, di storie. Lo sai che ho paura, che per raccontare storie non devi averne affatto. Ne basta appena un po’ perché le storie alzino i tacchi, perché vadano dietro a qualcun altro, qualcuno abbastanza furbo da non fare del suo meglio per togliersi di dosso la realtà, qualcuno che quei dannati fili che pendono dal soffitto li ha toccati e magari è ancora lì per raccontarlo. Io non sono così. E non m’importa se nel vicolo di giorno sembra di stare al cinema perché dove finisce il buio inizia la strada e lì c’è sempre il sole, se sembra che ci sia il sole anche nei giorni di pioggia, se sulla strada c’è tutta quella gente che cammina sotto la luce come attori su uno schermo luminoso. Se tu li vedi ma loro nemmeno si accorgono che tu esisti, che sei laggiù nel buio, con gli occhi sgranati, terrorizzata all’idea di quello che ti succederebbe su decidessi di uscire dal vicolo e andare sotto la luce. È per questo che ti piace tanto? Tutta quella gente, ognuno con la propria storia. Difficile immaginarne tante tutte insieme. Solo il fatto di pensare che ognuno di loro ne abbia una, ti fa sentire bene, dolcezza? Cosa daresti per averne una? Perché qualcuno si occupasse della tua, di storia? Magari lo scrittore di uno di quei libri che mi porto sempre in tasca. Essere il personaggio di qualche racconto e basta. Nemmeno una persona vera. Perché in fondo non ci proviamo nemmeno a essere persone vere. Lo siamo appena un po’. Ed esserlo soltanto un po’ magari è peggio che non esserlo affatto. Come la paura di toccare quei fili, come la paura di non toccarli affatto. Quelle persone che passano sotto il sole sono i tuoi fili? Sono loro la tua chance di sporcarti le mani con la realtà senza preoccuparti di uscirne pulita? E allora so cosa vorresti ora, dolcezza. Che ti prendessi per mano. Vorresti sentire una musica solo per noi e che i miei piedi si muovessero a ritmo mentre ti trascino verso la strada, anche se non sono un gran ballerino. Ma chi di noi lo è veramente? Tu vorresti che desiderassi la luce, un’intera città oltre noi due. Vorresti che quella città non fosse soltanto il prossimo posto da cui alzerò i tacchi per andarmene. Ma è giorno. È giorno, dolcezza. E io non ricordo se ho mai preso per mano qualcuno. Non ricordo quando il mondo ha smesso di reggersi sulle sciocchezze. Magari no, magari no. Se anche c’era una storia, ha alzato i tacchi. Non valeva davvero la pena provarci.
  13. .
    Come da accordi presi presso il Suo studio il 15 c.m. Le invio, dottor Gaudenzi, quanto mi ha richiesto: “Compri un quadernetto e racconti, così come le viene e senza curarsi della forma o dell’ortografia, il suo problema. Si addentri nei dettagli evitando inutili pudori: è uno scritto destinato solo a me che sono il suo medico, legato al segreto professionale.”
    Mi chiamo Aurora Aldobrandi, ho quarantun anni e sto benissimo: ottime analisi cliniche, una casa confortevole, un buon lavoro e una bella presenza. Ho tutto, compresa una forma perniciosa d’infelicità dovuta alla solitudine. Mi sento sola anche quando sono fra un sacco di gente, sola nel gruppo di amici, sola dentro la mia casa vuota.
    Nessuno sospetta di questo buco nello stomaco, anzi, sono una persona ricercata, la spalla su cui piangere di amici e colleghi, sono prodiga di consigli, rimbrotti, pareri come fossi esperta nelle cose della vita, in realtà dico loro soltanto quello che mi suggerisce il buonsenso. Pensano che io non abbia un compagno accanto esclusivamente per mia scelta: forse in gioventù ha avuto un grande amore finito tragicamente, forse ama e frequenta qualcuno di nascosto… C’è chi ha provato a far domande, ma è stato sempre gentilmente rimesso al posto suo.
    Sola.
    Nel corso degli anni ho avuto (e ho tuttora) parecchi corteggiatori e prove di aggancio, mai andate a buon fine. Quando si tratta di superare il passaggio da “dolce amicizia” a qualcosa di più serio, mi ritraggo, mossa da un impulso incontrollabile. Sono stata definita stronza, superba e anche frigida, penso invece di non aver mai provato un sentimento tanto forte da riuscire a penetrare la barriera del mio profondo senso d’inferiorità che mi fa assumere atteggiamenti scostanti, ma questa, dottore, è materia sua, attendo lumi.
    Penso che molto sia dovuto all’educazione che mi è stata impartita.
    Figlia unica, sono stata allevata da genitori anziani severissimi, con mille tabù; ne ho assorbito la mentalità e sono stata alla larga da tutto e specialmente dalla Vita che intanto scorreva senza di me. La Vita accade mentre facciamo altri progetti, cantava Lennon come se mi conoscesse e finalmente qualcosa è accaduto anche a me quando mi sono iscritta a un sito di giochi online: giochi di carte, di parole, di abilità… niente di pruriginoso e per di più completamente gratuito.
    Mi ci sono tuffata a pesce e con grande piacere anche perché a margine del gioco c’era una piccola chat, aperta a messaggi brevi e veloci. Ho incontrato un sacco di gente di ogni tipo, ci si sfotteva, ci scambiavamo notizie, mail e con alcuni si stringeva amicizia.
    È stato così che, a trentadue anni, ho conosciuto Max.
    Da perfetti estranei, lontanissimi anche geograficamente, abbiamo cominciato a raccontarci.
    Lui era medico e scriveva in modo splendido: mi parlava della sua vita di bambino, di posti, abitudini e fatti lontani dalle mie esperienze. Adoravamo leggerci.
    Avrebbe voluto le mie foto, il cellulare e l’indirizzo, ma io ero restia per una forma di pudore e per la consapevolezza di essere inerme, ingenua, incapace di difendermi davanti a eventuali truffe o prese per i fondelli. Ho sempre rifiutato e ci siamo accontentati delle descrizioni sommarie. Attendevamo le mail con impazienza, ognuna era fonte di gioia reciproca.
    Quando Max ha cominciato a raccontarmi le sue fantasie erotiche su di me, ho indugiato un po’, poi mi sono ritrovata a fare altrettanto. Non ci vedevo niente di male, erano parole nel vento, ho pensato di amarlo. Amavo un perfetto estraneo mai visto né sentito: era come innamorarsi perdutamente di Proust, ma a me sembrava naturale e anche a lui.
    Stavamo insieme da un anno, quando Max mi ha mandato in dono un messaggio vocale.
    Era un messaggio dolcissimo, giunto da una voce maschile splendida, profonda, con una cadenza e un’inflessione particolari, tipici della sua terra. Non so quante volte l’ho ascoltato.
    Da quel momento ha preso a tempestarmi di mail perché io facessi altrettanto e mi allegava le spiegazioni.
    Ho obbedito e da quel momento c’è stata la svolta. Voleva assolutamente incontrarmi. Non chiedeva foto, ma me di persona: prendere o lasciare.
    Ho preso.
    Gli ho dato appuntamento alla stazione della città più grande e più vicina a casa mia: entrambi avremmo indossato una giacca di camoscio e una maglia bianca.
    Il giorno fatidico ero uno straccio impaurito: ho comprato un biglietto per la stazione successiva in modo da potermi eventualmente mimetizzare fra le persone in viaggio; non contenta, ho infilato la giacca prescelta in un borsone, ne ho indossata una nera, ho coperto la maglia con un foulard e infine ho infilato la massa dei capelli lunghi in un Panama.
    Con la testa vuota e il tremore nello stomaco, ho aspettato dentro un gruppetto di persone. L’annuncio ha riempito l’aria e quando lo stridio dell’attrito sulle rotaie si è spento, il treno ha cominciato a vomitare passeggeri.
    Ero in piedi, sacca alla mano come dovessi salire e intanto osservavo senza parere. L’ho visto subito: svettava sopra la massa di gente e la fendeva sicuro. Era un bell’uomo atletico, sulla quarantina, con una buffa giacca frangiata e un leggero principio di calvizie.
    Avevo le gambe di ricotta. Quando ho incrociato il suo sguardo indagatore, mi sono girata e sono salita di furia sulla vettura, inseguita dalla mia timidezza feroce. Tremavo come per un febbrone e sono tornata a casa in taxi.
    Appena arrivata, sono filata alla scrivania, ho acceso il computer, ho cestinato tutto il carteggio, ho disabilitato la casella di posta e, a ogni buon conto, ho ripulito il disco rigido.
    Perché? Non lo so.
    Ancora una fuga infantile e vigliacca.
    Max era stato di parola, si era sobbarcato un lungo viaggio, somigliava perfettamente alla descrizione di se stesso e mi era piaciuto molto; in fin dei conti ci saremmo potuti limitare a una cena, a una giornata insieme. Qui il mare a maggio è stupendo…
    No, va bene, niente alibi.
    Era implicito e chiarissimo che non sarebbe stato soltanto una visita fra amici, ma avevo messo tutto in conto, perfino la possibilità che sarebbe andato tutto liscio, che avrei affrontato serenamente insieme a lui tutte le mie paure, anche il nuovo, anche la ventata di cambiamento radicale, lo stravolgimento di una vita contenuta dentro binari ben oliati e sicuri.
    Avrei dovuto incontrarlo. Non c’erano scuse.
    Non capisce, vero, dottore? Va bene, le spiego: c’è una cosa che devo sputar fuori perché lei possa cauterizzare la ferita. In verità ho accettato l’incontro con Max perché pensavo che lui, con la sua sensibilità, la sua dolcezza e l’intimità che si era creata, avrebbe capito e mi avrebbe aiutata senza problemi: a trentatré anni ero ancora vergine. Ecco qua, finalmente ho avuto il coraggio di dirlo. Chissà cosa avrà pensato lei, ma ognuno ha i problemi che merita.
    Avevo letto un sacco di riviste sull’argomento e quasi tutte dicevano che per l’uomo è un onore e un vanto essere quello della prima volta.
    Mi ero autoconvinta che sarebbe andato tutto bene, ma c’era un bastiancontrario interno che mi sbeffeggiava: sosteneva che Max si sarebbe sentito usato, che avrei dovuto dirglielo a tempo debito invece di fare la porno diva.
    Pensavo anche (vuole che butti alle ortiche il pudore, no?) che l’imene ormai era indurito, che la penetrazione sarebbe stata difficile, ma lui era un medico, avrebbe saputo come fare.
    Nelle notti precedenti l’appuntamento ho avuto diversi incubi terribili dai quali mi svegliavo stravolta e completamente sudata. Sono arrivata a pensare di farlo da sola, senza tante complicazioni inutili, ma poi inorridivo al pensiero di una eventuale emorragia, la corsa in ospedale, la scoperta da parte del ginecologo di cosa era accaduto. Ho un’amica ostetrica che durante una cena ce n’ha raccontate tante, fatti anche assurdi, tipo due che nonostante gli sforzi non riuscivano più a separarsi e hanno dovuto, in quelle condizioni, chiamare il centodiciotto; e poi, tante, tante altre cose. Per me quell’ambito specifico è un mistero, credo a tutto. Naturalmente ho visto film porno prestati da amiche, ma mi sono sembrati sempre umilianti, uno svilimento insopportabile di un atto che avrebbe dovuto e potuto essere splendido. Un dono che a me non è stato fatto.
    Per un lungo periodo ho vissuto in trance.
    Mi sentivo in colpa, Max mi mancava moltissimo, cento volte ho avuto l’impulso di chiamarlo eppure, allo stesso tempo, mi sentivo libera e leggera come se mi fossi tolta un gran peso dalle spalle. Non mi facevo più domande e non cercavo risposte.
    Piano piano, ho cominciato a prendere coscienza della situazione: nessuno aveva attentato alla mia incolumità, né fisica né psichica e Max aveva schivato un grosso rischio salvandosi da una pazza. Ritengo sia inutile, dottore, scendere in particolari con lei: l’alternanza di esaltazione e depressione profonda penso sia un classico.
    Sono ricorsa alle gocce di “En”, farmaco usato da sempre nella mia famiglia, e mi sono ripresa. Mi sono ripresa a tal punto da decidere a tutti i costi di sovvertire gli accadimenti: sarei andata io da Max. Per chiarire, per scusarmi…
    La tendina di Libero conserva tutti gli indirizzi in uso e a me era bastato ricordare le prime tre lettere per trovare il suo, ma immaginavo la reazione a un eventuale contatto.
    Ho scartato l’idea di scrivergli, era imperativo che andassi di persona come aveva fatto lui.
    Ho inventato la storia di una truffa telematica e ho chiesto a un mio amico, che lavora per la polizia postale, di risalire all’indirizzo. Il giorno stesso mi ha fornito il nome della località e della via, compreso il numero civico, così ho preso una settimana di ferie, ho prenotato una camera in Hotel e sono andata.
    Ho raggiunto in taxi il paese abbarbicato sulle montagne. Dopo curve e controcurve, il mezzo si è fermato accanto a un prato e l’autista mi ha indicato, in alto, un grumo di baite: dovevo procedere a piedi.
    Ho pagato per un’ulteriore ora di sosta, ho preso il suo numero di cellulare e mi sono avviata lungo il sentiero in salita.
    Il paesaggio era una cartolina profumata di buono, immersa nell’azzurro, ma la passeggiata non smorzava la tensione interna. All’altezza della prima costruzione, ho sentito i tonfi cadenzati di un’accetta. Con il cuore in gola sono andata a vedere.
    Un anziano, in maniche di camicia, lavorava di buona lena e non si era accorto dell’intrusione.
    L’ho salutato e lui si è girato con calma, ha sorriso poi si è sfregato i palmi lungo i calzoni prima di porgermi la mano.
    - Aurora? - l’ho guardato a bocca aperta.
    Si è presentato come Sebastiano Caula, amico di famiglia e vicino di Max. Mi ha fatto strada alla volta di una piccola baita che sembrava finta tanto era perfetta e, saliti i pochi gradini di pietra, ci siamo trovati in una bella stanza rustica, con una scala di legno al centro.
    Ci siamo seduti al tavolo e, mentre declinavo l’offerta di una limonata fresca, mi ha spiegato di aver intuito il mio nome perché gli era stato affidato un pacchetto destinato a una certa Aurora che forse sarebbe venuta a prenderlo o forse no.
    Doveva essere un uomo particolarmente intelligente perché mi ha letto in faccia la domanda che mi urgeva dentro e mi ha detto che lui era partito un mese prima senza dare spiegazioni. Forse lo avevano richiamato i suoi amici di Emergency o forse era stato lui stesso a ripartire di furia - e mi ha guardata in tralice, come per indagare se c’entravo qualcosa - ma io non capivo niente, pensavo soltanto: Emergency, l’organizzazione di quei medici che vanno nei posti più pericolosi del mondo, nei territori di guerra, quella del medico italiano con i capelli bianchi che sembra un profeta, che sembra Pannella e chiede aiuto per aiutare, ma aiutare chi? Perché Max? Lui cosa c’entra? Lui lavorava tanto bene qui a casa sua, era stato ferito, lui aveva già dato, bastava.
    Sebastiano aveva ripreso a raccontare. Max era tornato due anni prima per via di quella ferita seria, (dava per scontato che io sapessi ogni cosa) in paese la gente sperava che si sarebbe fermato, che avrebbe continuato a dare una mano al dottor Vicari con le visite a domicilio e la guardia notturna. Era uno di loro, gli volevano bene.
    Mentre parlava, aveva appoggiato un gomito sulla tavola, con la mano sorreggeva la fronte e teneva gli occhi bassi per il dispiacere.
    A un tratto si è riscosso, ha preso una piccola foto sul camino e me l’ha data: erano Max e il figlio Luca. Erano cresciuti insieme, poi Max era rimasto solo, l’aveva allevato la nonna…
    Il quadretto, con la cornice a giorno, ritraeva due ragazzi sorridenti che mostravano una pesca miracolosa. Uno sedeva rigido e aveva un vistoso cerotto su una guancia. Non riuscivo a staccare gli occhi; Sebastiano mi ha messo una mano su una spalla, mi ha detto: – La prenda pure - e per distrarmi mi ha raccontato dell’ultimo giorno in cui aveva visto Max.
    Gli era comparso davanti smagrito, con una luce decisa negli occhi e gli aveva spiegato in poche parole che ripartiva; gli aveva lasciato la chiave di casa, il suo cane Scott che adorava e delle cose per Aurora poi l’aveva abbracciato e il giorno dopo non c’era più.
    Ho chiesto se gli aveva detto il nome della destinazione, ma l’uomo ha scosso la testa senza parlare, vinto dall’emozione e si è diretto verso la scala.
    Quando è ritornato mi ha consegnato un minuscolo pacchetto marrone, una voluminosa busta gialla e mi ha spiegato che non c’era una destinazione fissa, loro vengono spostati spesso, inviati dove serve e sempre in posti pericolosi, poi ha fatto un gesto come a scacciare un insetto molesto davanti al viso e si è girato.
    Lo squillo del cellulare ha colto entrambi di sorpresa. Il tassista chiedeva cosa intendevo fare.
    Avrei voluto fermarmi, chiedere a Sebastiano di raccontarmi ancora Max, ma lui era convinto che io sapessi già tutto. No. Meglio tacere, non avrebbe capito. Ho abbracciato l’anziano, l’ho ringraziato e, dopo aver infilato tutto nella borsa, sono scappata correndo lungo la discesa, accecata dalle lacrime.
    Appena salita in taxi, ho tolto la cornice alla foto e mi sono persa in quella sua faccia pulita, nella bocca troppo grande, negli occhi che ridevano. Era bello. Molto bello. E l’avevo perso per colpa mia. Ho lacerato la carta della scatola. Conteneva un piccolo anello antico: una margherita con un cuore ovale di zaffiro blu e una corona di brillantini montati in oro bianco. L’ho infilato e sembrava che fosse stato mio da sempre.
    Quando ho aperto la busta gialla, un grosso fascicolo mi è caduto in grembo. Era coperto da una scrittura larga e regolare, in stampato maiuscolo. Ho sorriso pensando che lui aveva voluto evitarmi la grafia illeggibile da medico e ho letto tenendo davanti a me la foto.
    Max apriva dicendo che sperava, al di là di ogni evidenza, che le sue parole mi avrebbero raggiunta. Era un ottimista.
    Nella lettera non mi accusava mai, nelle sue parole non c’era il minimo astio. Mi ringraziava invece, diceva che ero stata più lungimirante di lui: un mestiere pervasivo come il suo alla fine ti risucchia, è una sirena che allenta le catene per un po’ poi… Mi assicurava che non era ripartito per via del mio rifiuto, arrendersi non faceva parte della sua indole. Raccontava che, dopo la delusione forte, dopo il dolore per aver scoperto che il suo sentimento non era, in ultima analisi, ricambiato, si era rassegnato. Forse già era in atto il subdolo richiamo del mondo intriso di dolore e di morte, che faceva comunque parte della sua vita: si era reso disponibile di nuovo e alla prima chiamata era partito.
    Mai dire mai, mi scriveva. Assicurava di amarmi come e più di sempre e mi intimava di stare sul chi vive: un pazzo è imprevedibile, avrei potuto vedermelo piovere fra capo e collo nel momento in cui meno me l’aspettavo. L’anello era quello della madre e voleva che lo tenessi io.
    Nemmeno una parola a proposito dell’indirizzo mail. Non so se avesse provato a chiamarmi.
    Sono tornata a casa quella sera stessa e in treno mi sono resa conto di aver dimenticato il cellulare da qualche parte. L’ho dato per perso, ma il giorno dopo, al fisso, mi ha contattata il figlio di Sebastiano per chiedermi l’indirizzo a cui mandare il pacchetto. Gliel’ho fornito e mi sono scusata per il disturbo che arrecavo. È stato gentilissimo.
    Ventisei giorni dopo ha usato quello stesso indirizzo per scrivermi che il blindato su cui viaggiava Max, durante il recupero di due feriti, era saltato su una mina.
    Tengo la foto del mio grande amore, mai visto di persona e mai sfiorato con un bacio, in uno scomparto speciale del portafoglio, protetta come la rosa al naso; non invecchia mai ed è come guardare un santino infilato nel messale. Mi sorride e a volte ci parlo. Anche il suo anello mi fa compagnia, lo sfilo solo durante le pulizie a fondo: è il muto testimone di una storia che, dopo quasi nove anni, sta irrimediabilmente sbiadendo, ma non me ne separerei per tutto l’oro del mondo.
    Le amiche della mia età si sentono coetanee delle figlie, intrecciano nuovi amori e rifioriscono mentre per me gli anni si avvitano velocemente gli uni sugli altri: mi sento vecchia, stanca e irrimediabilmente sola.
    Ebbene, dottore? Senza muovere un dito, è riuscito a fare la diagnosi e ha scoperto il mio male di vivere, ma veniamo al dunque: ha una cura per me? Dispone di una pozione magica per incerottare la mia anima e per riempirne tutte le crepe?
    Mi è stato detto che le sue prestazioni sono carissime. Sappia che posso tranquillamente far fronte alla parcella, ma spero che lei sia all’altezza della fama, che conservi in qualche armadietto un rimedio creativo, e soprattutto efficace, per restituirmi la serenità.
  14. .
    D’accordo, ci vado. Non voglio sentire altro, va bene. Sono conscio di essere arrivato a un punto veramente basso e se questo deve servire a raddrizzare le cose non mi tiro indietro. Sia chiaro comunque che la mia opinione su una certa categoria di professionisti non cambia. Non me ne vogliano, ma è così. Sono perplesso e per ora rimango dell’idea che questa soluzione non sia altro che una perdita di tempo e soldi.

    Domanda. Mani giunte.

    Quando ho fatto il concorso per entrare volontariamente nell’esercito, ho dovuto sostenere una serie di prove mediche, fisiche e psico-attitudinali. Quest’ultime consistevano in una serie di test scritti, i cui risultati, in base a chissà quali parametri – smorfia - avrebbero determinato in che maniera indirizzare i successivi colloqui con psicologi e psichiatri, in divisa e non. Dopo aver compilato cinquecento domande in un test e duecentocinquanta in un altro, avevo la nausea di quel posto e me ne volevo soltanto andare – annuisce con la testa. Per i colloqui ho dovuto aspettare un po’ e per fortuna mi sono calmato. Mi mandano da una gentil dottoressa, giovane e formosa, che sembrava più un’attrice che una psicologa – socchiude gli occhi. Mi ha chiesto qualche cosa sulla mia famiglia, se avevo avuto problemi con la droga o l’alcool – sghignazza – se da piccolo ho subito traumi, se avevo la ragazza. Un colloquio che più moscio non si può, sembrava finto. Alla fine, quando già aveva messo timbro e firma su ciò che aveva scritto di me, mi rivolge l’unica domanda importante tra tutte quelle che mi aveva fatto: “Ma perché vuole fare il militare?” – faccia perplessa, mani appoggiate palmo al tavolo. Mi ha spiazzato, perché in realtà stavo facendo quel concorso un po’ per gioco – stupore. Come faccio a spiegartelo, perché voglio mettermi la divisa? Non lo so neanch’io – sorrisone. Dopo la dottoressa, la stessa domanda su questo benedetto “perché vuole fare il militare?” mi sarà stata rivolta almeno un milione di volte – il suo viso dice “ci credo”. E quando cercavo di spiegare il perché della mia scelta, lo psichiatra in divisa, un colonnello medico, mi interrompeva continuamente:“…si ma perché?”. Era una provocazione bella e buona, per testare se avessi resistito a non spaccargli la faccia – allarga le braccia lentamente e mi fissa. Per farla breve, mi hanno fatto idoneo. E pensare che qualche anno prima, quando avevo fatto l’ormai scomparsa visita dei tre giorni per il servizio di leva, test e colloqui analoghi mi avevano giudicato non idoneo. Ci ero rimasto male, perché il militare l’avrei fatto volentieri come esperienza di vita – espressione di approvazione. Dico questo perché ritengo che psicologi e psichiatri non servano a niente, ti giudicano utilizzando parametri che non sono altro che aria fritta. Ti incasellano, ti classificano. Sarà riduttivo, ma la penso così – quando ho detto che psicologi e psichiatri non servono a niente, ha fatto fatica a trattenersi e deglutito due volte.
    L’esercito? Ci sono rimasto abbastanza tempo per innamorarmene. L’avrei fatto per tutta la vita, con un’energia e una passione che ormai non ricordo più. Quell’esperienza si è conclusa e ci ho messo un po’ per digerirlo – sguardo di compassione. Non ne ho mai fatto e non ne faccio una malattia, ma non posso dire di non pensarci ancora, anche a distanza di anni. Amaro in bocca. Ma per fortuna a qualcosa è servito – guarda il cellulare.

    Grassi saluti. Domanda.

    I miei genitori sono gente normale. Hanno sempre lavorato e facendo dei sacrifici si sono comprati due case e non mi hanno mai fatto mancare niente – sguardo compiaciuto. Al giorno d’oggi purtroppo, noi giovani non potremmo fare la stessa cosa. Creperemo prima di finire di pagare il mutuo cinquantennale, ammesso che ci venga concesso. La pensione la paghiamo ai pensionati di adesso – annuisce. A parte questo, mia madre è una che sta perennemente in paranoia. Pensa sempre a tutti i possibili risvolti di tutte le situazioni di vita quotidiana, con particolare attenzione a quelli negativi. Faccio un esempio che li racchiude tutti: quando le è stato detto che sarebbe diventata nonna di una nipotina, ha fatto la faccia da branzino lesso perché la sua mente è andata in una frazione di secondo oltre la felicità che poteva provare, pensando a quella povera creatura ancora nel grembo della madre e hai problemi che avrebbe avuto in futuro in quanto donna. Non so se mi spiego, roba da matti – sorride. Se le dico che ho pagato una bolletta in ritardo di due giorni, si scurisce in volto, facendomi notare che gli interessi mi saranno addebitati sulla bolletta successiva – roba da matti.
    Mio padre è tranquillo. E’ sempre stato presente, ma piuttosto geloso delle sue cose – espressione incuriosita. Intendo dire che con me non condivideva molto le sue opinioni su determinati argomenti, né mi coinvolgeva in quelli che erano i suoi hobbies, nonostante io gli dimostrassi tutto il mio interesse. Quando ero piccolo andava a pescare durante le lunghe serate estive. Tornava dal lavoro e via. Portava a casa dei bei pesci che io ammiravo a bocca aperta come loro. Ho iniziato anch’io a pescare quand’ero già più grandicello. Ci andavo per conto mio anche se avrei voluto andarci qualche volta in più con lui. Lo stesso vale quando andava a fare i funghi in autunno – sopracciglia aggrottate.
    Quando c’era da scegliere che scuola fare alle superiori, io volevo fare come aveva fatto lui, ovvero un istituto tecnico. Faccio un inciso: non ho mai saputo di preciso che lavoro facesse mio padre. So che disegnava. L’ho scoperto a vent’anni suonati quando mi ha detto che aveva brevettato un forno per il pane e i grissini – espressione incredula. Per carità, i miei nonni avevano concesso ai miei genitori di andare a scuola dopo le medie, ma solo in una scuola che gli avesse insegnato un mestiere per lavorare. Altro che liceo e università – approvazione, gambe incrociate. Io non avevo questo problema e potevo andare al liceo. Imporre qualcosa da una soddisfazione immediata se chi hai di fronte abbassa la testa. Potrebbe rivelarsi una strategia giusta, ma se non lo fosse le conseguenze sarebbero devastanti nel medio lungo periodo – non ha capito. E infatti i primi due anni di liceo furono di burrasca: io ho la testa dura e se una cosa non la voglio fare non la faccio, fregandomene delle conseguenze. Il compromesso è arrivato dopo due bastonate, due anni persi solo per orgoglio adolescenziale – hai voluto fare di testa tua? Alla fine, ho concluso senza spargimenti di sangue il mio percorso di maturità al liceo linguistico, anche perché ho praticamente vissuto di rendita, dato che la mole di studio era molto minore rispetto allo scientifico. Io non avevo voglia di fare niente – annuisce, ma prova disgusto.

    Grassissimi saluti e gesti affettuosi. Domanda.

    Giocavo a calcio. Ho giocato da quando avevo sei anni fino a oltre la maggiore età. Mi sono divertito un botto e ne ho viste di tutti i colori. L’ambiente dello spogliatoio era molto crudo: turpiloquio e bestemmie gratuite, apprezzamenti sconci alle ragazze dell’atletica e non solo, risse e schiaffoni – disgusto. All’esterno dello spogliatoio era anche peggio: ho visto genitori agguerriti darsele di santa ragione anche se i figli giocavano nella stessa squadra, mi sono messo in mezzo ad alcuni facinorosi che avevano invaso il campo per aggredire l’arbitro, ho visto gente sputarsi addosso. Ricordo un signore che seguiva sempre le nostre partite casalinghe anche se non aveva nessuna parentela con qualcuno di noi. Dopo il triplice fischio finale, si avvicinava al tunnel e urlava: “Uomo vestito di nero, il peggiore in campo”. Lo diceva a prescindere, anche perché non tutti gli arbitri avevano diretto male, al massimo avevano toppato qualche fuorigioco, ma erano senza guardalinee e non era facile – si vabbè andiamo avanti. Non so quanti anni sono che non do due calci a un pallone. E mi manca un sacco – espressione di tenerezza, mani incrociate.
    Il mondo del calcio di allora penso fosse marcio come adesso, solo che senza la tecnologia, gli smartphone, i social, forse te ne accorgevi di meno. In compenso avevo mio padre che mi faceva mal digerire i post partita accusandomi di scarso impegno. L’anno in cui l’ha detto di più abbiamo vinto il campionato e le uniche due volte che non mi ha accompagnato a una partita per protestare contro il mio rendimento scolastico, ho fatto due goal – succede sempre così. Come quando collezionavo le figurine dei calciatori per cui andavo pazzo: verificavo quale mi mancasse e quale era doppia, per scambiarla poi a scuola con gli altri compagni collezionisti. Il bello vero era attaccarle all’album, per vedere piano piano le caselle riempirsi, le squadre completarsi. Era mio padre ad attaccarle, casomai io le attaccassi storte – che stupido.

    Domanda. Respiro profondo.

    Sono cresciuto in un paese di provincia. Calmo e tranquillo, dove non succedeva mai niente. La democrazia cristiana governava da oltre sessant’anni e nemmeno tangentopoli era riuscita a spazzarla via. Avevano solo cambiato nome – sorriso compiaciuto. Tutto girava intorno alla parrocchia e all’oratorio. I miei genitori erano comunisti vecchio stampo – occhi sbarrati, viso tirato – quelli che adesso non esistono più. E’ chiaro che certe idee cozzavano con l’impostazione cattolica della scuola, del catechismo e di tutte le attività parrocchiali, ma loro dicevano che io dovevo andare al catechismo, dovevo andare a messa, dovevo frequentare l’oratorio. Penso lo dicessero più per evitarmi problemi con la massa, perché conoscevano bene i loro concittadini – annuisce, saggi. Anche tutto questo è servito: ne sapevo così tanto di religione, sacramenti, preghiere, canti e azione cattolica che a un certo punto ho preso una decisione – sentiamo, pende dalle mie labbra. In realtà detta decisione è scaturita da un episodio particolare. Un’estate ho fatto l’animatore presso il centro estivo dell’oratorio come tanti miei coetanei. Un giorno il prete mi prende in disparte dicendomi che la maglietta che indossavo era inopportuna. C’era raffigurato un uomo barbuto in nero su sfondo rosso con la scritta “Hasta la victoria siempre” – vabbé. La maglietta era un regalo di compleanno di mio padre e ancora la conservo. Da quel giorno schifo, ma con rispetto, tutto ciò che è religione, chiesa, preti e quant’altro. Aveva ragione Marx. Non saprei nemmeno dire se sono ateo o agnostico. Sarò cenere, quindi – applausi.

    Domanda. Sorrisone.

    Ne è valsa la pena perché ho trovato la persona che amo – strizza gli occhi. Spero che ne valga la pena anche tutto ciò che sto facendo con lei, dottoressa, sennò vuol dire che non ci ho capito niente. Lo faccio perché non voglio perdere chi amo – occhi semi lucidi, labbra socchiuse. Sappia che io l’ho osservata.

    Fattura o ricevuta?
  15. .
    Me ne vado, terra d’Africa, ma questa volta lo faccio a testa alta...
    Ti saluto con la fierezza di chi si è messo in gioco e l’animo combattuto che non sa come abbandonarsi al perdono.
    Ho in cuffia No caution for time, nessun riguardo per il Tempo. Adoro Zimmer e adoro questo soundtrack. È l’ideale per un addio: dolce e triste insieme. L’ascolterei per tutto il viaggio, vedendoti scorrere tra campi, colline e villaggi, immerso nel mio mare di ricordi.
    Nessun riguardo per il trascorrere del Tempo. Esattamente ventitré anni, quelli che non mi hai concesso di vivere con te, terra di Rwanda, ostinata a sprofondare nelle tue stupide e inutili diatribe etniche.
    Già. Sorrido quando penso ai sensi di colpa che assalgono i bianchi, supponenti anche nel sentirsi gli unici depositari di quel vomitevole retaggio che è il razzismo, quando gli stessi figli d’Africa hanno marchiato e massacrato i propri fratelli distinguendoli tra i più alti e i più bassi, selezionando chi doveva vivere o morire solo in base a dei linmmenti più o meno marcati, alla lunghezza o alla forma del naso, ai ranghi sociali, alle caste di appartenenza. Essere Hutu o essere Tutsi, la differenza tra la vita e la morte.
    Mi costringesti a fuggire, piccolo tuo figlio solo e atterrito, a bordo di un aereo come questo, senza neanche il coraggio di affacciarmi dall’oblò, come fa invece adesso il mio Isidore.
    Io ti odiavo.
    Ti sapevo rossa, affogata nel sangue, tanto sangue. A fiumi, da poterci nuotare.
    Ti sapevo nera, come il cuore dei tuoi figli, improvvisamente divorati dall’odio fratricida e dal disprezzo per la vita umana.
    Ho convissuto per ventitré anni con quei due colori impressi nell’anima. Ho nascosto in un cassetto della mia mente mostri invisibili che avevo dimenticato, o fatto finta di dimenticare. Zavorre del cui peso non potevo liberarmi, perché ciò che avevo di fronte era troppo grande, troppo difficile da accettare.
    Avevo giurato che non sarei mai tornato da te. E invece eccomi qua.
    Non illuderti, comunque. Non dimenticherò!
    Questi ultimi giorni sereni, trascorsi a fare il turista qui a Kigali come uno straniero in patria, non cancelleranno le grida di pietà dai miei genitori. Posso ancora distintamente ascoltare l’eco delle loro suppliche gridate al vento.
    Non mi faranno dimenticare il suono dei machete che affondano nelle carni delle mie sorelle. E gli insulti osceni, i balli e i canti di scherno degli assassini, ancora sozzi del loro sangue.
    Non cancelleranno lo smarrimento di un bambino di otto anni e quei giorni passati nascosto tra i ruderi della propria casa, al riparo dalla luce del giorno che sembrava anch’essa nemica; e il vagare nella notte tra cadaveri e macerie, alla ricerca di qualcosa da mangiare.
    Non mi restituiranno l’infanzia perduta e notti infestate da indicibili incubi.
    Ma dovevo mantenere una promessa fatta a Isidore.
    Domenica scorsa, da quella scaletta all’aeroporto di Kigali, era sceso un uomo, un padre, a metà.
    In fondo quasi un impostore, un corpo orfano dell’anima. Perché quella, codarda, era rimasta lì; avvinghiata alla poltroncina di velluto azzurro nella carlinga del boeing, intestardita a non voler niente a che fare con te, Rwanda! A non voler più respirare la tua aria. A non volersi mischiare ancora tra la gente. Tra la tua gente.
    “Non sei uno di loro, Andy. Non più.”
    Un pensiero, un chiodo fisso, in taxi, in albergo, al mercato della domenica. Al Burger King. Durante l’omelia di padre Jacob, a messa.
    Ma ho trovato la forza di vedere oltre e un modo per regalare un po’ di luce al mio cuore accecato. Un motivo per fargli inforcare un paio di occhiali: il mio Isidore.
    Per questo ho scelto di tornare e di portarlo con me.

    Però non sprecarti a dirmi grazie. No, Rwanda, semmai ringrazia mio figlio e la sua voglia di conoscere. Sii riconoscente solo con lui, perché rispondere alle domande di quel bambino, del mio bambino, è per me il più sacro dei doveri. Sappi che non ti ho scontato niente, non ho sottratto una sola delle tue colpe nella più comprensibile delle versioni che potevo raccontare a un ragazzo di nove anni.
    Devi molto a mio figlio, sai? Si, perché ai miei occhi è come se lui avesse riconsacrato il tuo suolo.
    Già...
    A pensarci - e Dio mi perdoni per quello che sto per dire - era quello che forse speravo tornando qui: riconsacrarti tramite lui.
    E lo ha fatto, cazzo se lo ha fatto! Lo ha fatto correndo nei tuoi parchi, lo ha fatto mangiando avidamente decine di quei dolci, intrisi al miele di Ubugali, che gli ha offerto l’anziana mama ‘Mbayela. Lo ha fatto passeggiando sulla vecchia mulattiera a tirar calci ai sassi, con le mani sprofondate nelle tasche dei jeans come stesse camminando tra gli empori di Oxford Street.
    Osservarlo è stato come sbirciare in uno specchio, come spalancare una vecchia finestra sprangata, inchiodata con le assi del dolore e dell’oblio, e contemplare uno scorcio felice del mio passato. Belle scene, di quelle che non credevo di poter più ricordare. Quante corse a perdifiato, con gli amici,lungo quella carrettiera! Tra le piantagioni di caffè che si estendevano a perdita d’occhio. Tra i filari allineati, per noi come polverose corsie di una pista infinita verso le rimesse dei contadini, il nostro “traguardo”.
    Eh eh, se eravamo sfrontati! Si entrava in quelle casupole, alla ricerca di tesori o qualcosa da mangiare, con la sensazione d'impunità e al tempo stesso il terrore di essere scoperti.
    Come quella volta che il vecchio Mobutu mi sorprese nella sua cascina, mentre ero ancora seduto al tavolo a divorare le sue patate bollite. Ora posso capirti, povero vecchio Mobu: tutto il giorno a spaccarti la schiena sotto il sole, per ritrovarti in casa un ladruncolo famelico, tanto più un Tutsi, a consumare il tuo meritato pranzo.
    Voglio lasciarti così, terra d’Africa, con un pizzico di nostalgia che non avrei voluto dedicarti.
    Ormai con la coda dell’occhio riesco a vedere solo le tue ultime propaggini del tuo territorio, lentamente rischiarato dalla luce dell’alba.
    Eccola! La sagoma del sole comincia a delinearsi a est, nell’incavo tra quelle due colline. È l’unico momento in cui posso sfidarlo e fissarlo dritto negli occhi; ora che è ancora un’innocua biglia rossa dai contorni tremuli e indefiniti.
    Saluto anche te, allora, sole d’Africa! Perché, vecchio mio, questo ha il sapore di un commiato definitivo.
    Lo so, lo so perfettamente che sei lo stesso, identico, astro che ritroverò a Londra. Lo stesso che mi accolse pallido e quasi solo disegnato nel cielo. Che abbracciò un profugo rimasto solo al mondo per mano dei suoi stessi fratelli e di una guerra fratricida di cui non fregava niente a nessuno.


    Dedicato al genocidio del Rwanda, ignorata carneficina consumatasi tra aprile e luglio del 1994 e costato la vita - in soli 100 giorni - a quasi un milione di persone, gran parte delle quali uccise all’arma bianca.
146 replies since 30/12/2011
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