Scrittori per sempre

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    Il mio letto parla chiaro: è il campo dove per tutta la notte ho combattuto, avvolta tra le spire delle lenzuola che hanno assorbito il mio sudore e il mio tormento, cercando un sonno, che non è mai arrivato. Quando il nuovo giorno ha imperlato il cielo nero, mi ha trovato abbracciata al cuscino fradicio, come un naufrago al suo inutile pezzo di legno.
    Con gli occhi aperti, certo. Spalancati. A fissare il futuro che danza spaventandomi davanti ai miei occhi arrossati e stanchi.
    A fissare quel futuro che mi sta minuziosamente, scientificamente, facendo a pezzettini.
    Vigliacca!
    Ho provato anche a pregare, certo… Un dio strano e crudele, che nessuna mente perversa ha ancora inventato: il dio dei dimenticati, il dio che abbandona… Colui che si gira di là e se ne frega, offrendoti la santa schiena del suo perfetto menefreghismo.
    Sola, certo. Circondata da una girandola sterile di sorrisi senza volto.
    Ma non potrebbe essere altrimenti.
    Vago per la casa. Una doccia, qualche indumento a caso messo sulle mie rotondità. E poi esco.
    E’ il mio giorno oggi. LA MIA SPLENDIDA GIORNATA DEL CAZZO!
    L’appuntamento è per le 16.
    Ok, ho ancora un’oretta di tempo, bene.
    Bene un cavolo! Che ci faccio già qui, allora?
    Devo stare calma, respirare, così. Dentro, fuori, dentro, fuori… ampie inspirazioni e sonore espirazioni, bene… Ancora una volta: dentro, fuori, inspira, espira… è facile. Bene. Anzi no, bene un’ accidenti! Sono troppo nervosa! Non ce la faccio a calmarmi, niente, panico completo. Ok, ma non è il modo giusto per affrontare la cosa, no? Se sono qui è perché ho deciso, perché sono sicura, perché sono perfettamente, completamente, assolutamente sicura, no? Sì. Bene.
    Devo bere qualcosa.
    C’è il tempo e c’è pure il bar, adesso vado lì, mi siedo e mi bevo qualcosa, come se fosse la cosa più logica del mondo. Tutti vanno in un bar e bevono qualcosa, giusto? Sì, qualcosa di fresco, qualcosa che mi disseti e mi calmi un po', sembra una cosa giusta da fare, no? Sì, ok, perfetto.
    Ah, ci voleva proprio… Mi sento già meglio. Però qui fuori c’è il sole, un sole premuroso che mi scalda e non mi fa sudare, mentre tutt’intorno la frenesia della primavera esplode incontrastata nella bellezza della vita che sboccia. Certo, era meglio se pioveva, mille volte meglio… Ma non piove, niente. Nemmeno una nuvoletta, solo il disarmante azzurro del cielo che si stende immenso sopra di me. Che mi schiaccia con tutta la sua perfezione… Maledetto! Se almeno ci fosse stata una bella tempesta sarebbe stato tutto più facile: tenebre dentro e oscurità fuori. Sì, molto meglio, ma non è così, no, non è mai come dovrebbe essere…
    Non voglio…
    Ok, sono le 15.15. Bene… Dall’altra parte della strada vedo il portone. Perfetto. Sarò puntualissima. Una stretta di mano, due convenevoli, poi all’opera. Ha detto che ci vorrà poco, pochissimo. Indolore e veloce. Ok. Ok…
    E allora perché mi manca il fiato? Porca puttana! Perché sto… piangendo? No, cazzo! Il pianto no! Ho pianto tutta la mattina, e tutta la notte! Pensavo di averle finite tutte queste maledette lacrime! Ma no, niente, rieccole! Se passo il bicchiere ghiacciato sugli occhi, forse attutisco il gonfiore, forse non si vedrà nemmeno che ho pianto… Sììì, certo, come no!
    Accidenti a me, mi sto agitando di nuovo, basta!
    Mi devo calmare! Se sono qui è perché… bla bla, bla bla… Ma che sto facendo? Cerco ancora di convincermi? Le 15.28. Ok, tra poco si va in scena, respira, cazzo, respira.
    Il vento. Passa e mi accarezza leggero la fronte… No vento, non lo fare, ti prego… non portarmi sollievo, non tentare nemmeno di lenire questo dolore!
    Non merito la tua pietà.
    … E poi ovunque giro lo sguardo, vedo la delicata primavera che aleggia tutt’intorno, alleggerendo le anime, regalando speranze in una danza leggera di dolci promesse… No, vi prego, lasciatemi… stare…
    Com’è che diceva Seneca? “Lieve è l’atroce dolore che permette di prendere una grande decisione”, sei sicuro Seneca? Sei proprio sicuro che sia così? L’hai mai provato sulla tua pelle? E lo strazio? E questo dannato strazio che mi sta strappando l’anima dove lo mettiamo? Sei sicuro che la gente sopravviva a tutto quel dolore? Rispondi, maledetto filosofo, risolvi il mio problema… aiutami a trovare la risposta a questo tormento che mi sta trapanando il cuore.
    Silenzio. Solo la carezza disinteressata del vento…
    Al tavolo vicino al mio c’è un uomo, sereno come solo un uomo può essere. Chiacchiera sorridendo con qualcuno dentro il suo pc. Sembra quasi felice. E io? Potrei allungare un braccio e toccarlo, sfiorarlo, abbracciarlo, ma il suo mondo calmo e tranquillo rimarrebbe a milioni di chilometri dal mio. Dammi un etto della tua serenità, sconosciuto. Dammi una briciola della tua allegria… Quanto costa un grammo della tua pace?
    Dammela, ti prego! O qualcuno m’insegni a rubarla… Ne ho bisogno. Adesso.
    Non riesco a concepire che a un passo da me, ci possa essere la felicità, mentre qui dentro tutto sta crollando.
    Ma perché proprio a me, perché?
    Cosa ho sbagliato? Quale dio potente ho offeso per essere qui, oggi, con l’inferno nel cuore, a elemosinare briciole di serenità dai passanti! Io, donna di successo, avvolta nel potere della mia sfavillante carriera… Io che… Io che… Ah, voglio urlare! Voglio sbraitare contro il mondo!
    Menomale ho gli occhiali da sole, altrimenti mi prenderebbero per matta… Nessuno mi deve vedere, nessuno deve vedere la mia… disperazione… Disperazione? Ma io non sono disperata! Io sono completamente, assolutamente, perfettamente sicura di…
    Cazzate!
    Oddio, mi scoppia la testa…
    Devo bere, sì, ottima idea! Ma non la solita spremuta, vorrei qualcosa di più serio, magari un bel martini con ghiaccio e fettina d’arancio, sì, ecco sarebbe perfetto! Come dice? Non servite alcolici alle donne in gravidanza? Oh, bè, ma tra, diciamo, 27 minuti, io non sarò più una donna incinta lo sa? Vado ad abortire! Sì, proprio lì di fronte, dal dottor Corsini… Ah, lo conosce? Un dottore in gambissima non c’è che dire…
    Smettila, smettila, SMETTILA!!!
    Mi faccio schifo… Ecco, lo sapevo, ho ricominciato a piangere, accidenti! Maledetta che non sono altro! Ma perché proprio a me, perché proprio a… noi! Ecco, ci sono cascata di nuovo! Non devo, ma ti sto di nuovo parlando, cosino lì dentro. Ti sto ancora una volta considerando, tu, che non esisti e mai esisterai… ma non devo, no… Non devo affezionarmi a te. Non posso! Perché tra poco infileranno un attrezzo dentro di me che ti ridurrà in poltiglia, e poi ti aspireranno via dal mio corpo e… ti… getteranno… nella… spazzatura…
    Oddio, mi sento male, sto per vomitare… Cazzo, cazzo, cazzo!
    Pensavo di portare dentro di me il seme di una pianta bellissima, e invece mi hanno detto che ci sei tu: un piccolo semino d’ortica, guasto, sbagliato, deforme. Mi hanno detto, con frasi addolcite per mascherare il sapore del veleno, che non vale la pena farti nascere, che non posso vederti e rischiare d’innamorarmi di te. Perché se tu nascessi, saresti talmente malato da non sopravvivere che pochi giorni, e che quindi farti nascere o meno non ha poi così tanta importanza… E poi, soprattutto, i semini d’ortica non possono infestare i giardini delle principesse, perché sono sgradevoli, brutti, inutili.
    Mi hanno detto tante cose su di te, e io mi sono fatta convincere a strapparti e buttarti via.
    Ma sarà vero? E’ veramente così facile sbarazzarsi di te?
    “Mi dispiace, credimi, ma non potrà mai funzionare… Con il prossimo andrà meglio, vedrai… Questo no, questo è un errore…” Tutti d’accordo, sai? Tutti uniti nel dirmi queste cose, un muro di saggezza inespugnabile, eretto per proteggermi da… te. E io sono qui oggi, da sola, ad aspettare che finalmente scocchino le 16 per entrare in quel palazzo e ucciderti.
    Ma oggi non posso, proprio no.
    Non con questo sole gentile che mi abbraccia delicatamente, non con questa brezza leggera che mi accarezza il viso, asciugando con discrezione le mie lacrime. Sento intorno a me la frenesia della vita che pulsa, che preme per sbocciare, che reclama la sua voglia incontenibile di rinnovarsi nell’eterno bisogno di vivere, nonostante tutto e tutti. No, oggi non posso davvero farlo. Non ci riesco.
    La primavera assetata di vita e di speranza non vuole scendere a compromessi con la mia codardia: la vita stessa ti pretende, ti vuole con sé, ti reclama perché fai ormai parte di un disegno immenso che non riesco a capire, ma che voglio accettare, come un dono inatteso che apprezzerò col tempo.
    Andiamo via, mio piccolo seme d’ortica, torniamo a casa…
    Scusa se la mamma ti ha spaventato oggi, ma la mamma si è sentita piccola e impaurita davanti a quello che sembrava un enorme e insormontabile problema, e che, stupida che non sono altro, credevo fossi tu… La mamma non è forte come sembra, no… La mamma ha paura della paura stessa, e questo non ha senso.
    Torniamo a casa, angioletto sbagliato.
    Troveremo insieme la strada migliore per percorrere questo tragitto impervio che ci è stato assegnato, saremo audaci e valorosi, e troveremo insieme il…
    coraggio?
    … modo giusto per affrontare tutte le difficoltà che intralceranno il nostro cammino.
    Senti quest’onda che sale dal profondo? Non so cosa sia, so soltanto che mi lascerò travolgere dal suo entusiasmo, dalla sua audacia inaspettata. Chissà, forse sei tu che mi aiuti a decidere…
    Oggi, distratta dal mio egoismo, potevo ucciderti, sfortunato semino…
    Domani, sono sicura che vedendo i tuoi occhi brillare, troverò il riscatto per tutta questa angoscia. Più in là non voglio vedere, no. Non ne ho bisogno.
    Andiamo a casa, mio piccolo semino d’ortica, la mamma è stanca, ha sonno, e ti voglio sognare.
    Sognerò di noi due seduti sul bordo del mondo, a contare le stelle cadenti che moriranno all’orizzonte. Sognerò di quella manciata di giorni in cui sarò tua madre e tu sarai mio figlio. Non più un semino d’ortica, ma un bambino fragile e disarmato che potrò stringere al mio seno e, finalmente, baciare… Poi, succederà quello che deve accadere, adesso non me ne importa niente.
    Se proprio si deve compiere il nostro infausto destino, sarà la vita a ucciderti, mio piccolo semino d’ortica, non io. Non ora.
    Adesso voglio solo innamorarmi di te.
  2. .
    Il sole oggi ha gli occhi chiari o forse sono io che vedo più luce. I miei passi seguono la strada fino al belvedere, lontano mi appare il mare solcato da raggi di sole sottili che appaiono a pelo d’acqua.
    E tu sei con me.
    Quanti ricordi insieme. Eravamo entrambi cocciuti e amanti del silenzio, ma fondamentalmente opposti, pronti ad andare ognuno per conto suo trascurando l’altro. Da bambini non ci separavamo mai, io ero la tua ombra e ti seguivo in ogni cosa: ci lanciavamo sull’altalena, inventavamo giochi, raccoglievamo papaveri. Quando eravamo stanchi o pensavamo di non essere capaci di fare qualcosa guardavamo gli altri, quelli più grandi, correvano sulle bici mentre noi non lo sapevamo fare.
    Ti ricordi quella volta? La bambina era lì con suo abitino estivo; era nuovo con farfalle stampate di ogni colore e la mamma si era raccomandata che non lo sciupasse, poi era arrivato il ragazzino della casa di fronte dicendo:- Va a cercare tua sorella che ha preso la mia bici e la rivoglio!- La bimba era andata di corsa e aveva attraversato la strada mentre passava un camion. Era caduta a terra, sull’asfalto sciupando il suo bel vestito con le farfalle e un sandalo bianco perduto nella corsa era dalla parte opposta della strada. Io stavo per gridare, ma tu mi hai trattenuto e sei rimato immobile ed è stata una fortuna perché il camion è passato ai lati del corpo della bambina; impaurita ma illesa poco dopo era tra le braccia della mamma.
    Io ho continuato a essere ribelle e tu a rimanere immobile, ma intanto ti nutrivi di paure, di incubi che andavi a nascondere in parti recondite che poi cercavi di dimenticare.
    Eri robusto ma fragile tendevi a isolarti per una parola di cattivo gusto o un piccolo sgarbo e gli altri si mostravano falsi, ti prendevano in giro e ti sentivi inutile, ma le ferite guarivano e c’era la voglia di ricominciare a credere, di crescere lasciando le paure alle spalle e di correre sulla riva del mare a raccogliere conchiglie.
    Vedi, il mare si sta colorando col sole che tramonta, cammineremo ancora sulla riva. Ci puoi giurare! Io sarò sempre eternamente giovane e spericolata come ero un tempo e ti aiuterò, avrò cura di te.
    Ricordi, la giovinezza… quanta strada abbiamo percorso alla scoperta di luoghi nuovi, persone, strade e ogni volta era una gioia perché un granello prezioso di conoscenza entrava nel nostro scrigno magico e ogni volta era qualcosa di nuovo di prezioso e quindi una vittoria un punto in più segnato nel gioco della vita.
    Eri bello, di quella bellezza della gioventù che non ha eguali, che ride dentro, che ti porta a sognare a essere sempre più importante per raggiungere traguardi, realizzare sogni e scacciare ogni sorta di male che sentivi intorno, ad allontanare ogni cosa negativa che avevi dentro.
    Ricordi quella notte?
    Ormai non passavano più né pullman né mezzi e per tornare a casa facemmo l’autostop come in film si fermarono due ragazzi e ci presero a bordo della loro macchina. Furono gentili, chiacchieravano, poi a certo punto chiesero: -Ma voi siete felici?- Non rispondemmo.
    Era una cosa così difficile, così seria la felicità che sconcertava, ma di una cosa fummo certi in quel momento che se la felicità era da qualche parte noi l’avremmo cercata con tutte le nostre forze.
    E poi l’abbiamo anche trovata e abbiamo avuti i nostri momenti in cui si siamo persi insieme a lei perché non abbiamo mai smesso di cercarla la nostra felicità e di inseguirla anche quando giocava a nascondino.
    Ricordi la nascita del nostro bambino? Era una notte estiva e aspettavamo con ansia. Il bimbo pigro rannicchiato nella pancia non aveva voglia di venire al mondo e solo dopo ore di dolore lacerante si fece vedere e si annunciò col pianto. Tu eri troppo stupito per fare anche un minimo gesto io non sapevo se ridere o piangere, mi sembrava un miracolo; eravamo artefici della vita quel piccolo era parte di noi ed era la felicità più grande che aveva preso forma. Cominciai a vivere d’amore. Avevo un amore infinito per ogni cosa, e se a volte la vita non era generosa l’amavo lo stesso e lo mostravo, tu invece non eri capace di farlo e accettavi tutto senza distinzione: il bene e il male e io volavo nei miei sogni immortali lascandoti a guardia dei miei giorni.
    Mentre cercavi comprensione nel mondo hai trovato solo delusione e false illusioni e allora hai cercato sempre meno amore da dare e da ricevere fino ad arrivare quasi a odiarti per come eri, per i tuoi difetti le tue fragilità e io non ho saputo confrontarmi con te e capirne la ragione. Perdonami. Credevo di amare tanto e invece non ti ho amato abbastanza, l’amore non basta mai e ti ho lasciato da solo a lottare contro tutto e anche contro te stesso e tu a poco a poco non hai voluto più essere amato da nessuno e hai cominciato ad assorbire come una spugna ogni sorta di male, fino ad ammalarti seriamente. Come ho fatto a non accorgermi di quanto ti stava accadendo eppure mi parlavi, a modo tuo mi parlavi. Eri quello che nascondeva ogni sofferenza la stipavi dentro per paura che si vedesse. Abbassavi gli occhi e sopportavi poi tutto diventava insostenibile allora urlavi e il tuo grido angoscioso mi svegliava impaurita e mi sentivo indifesa, stupita dello sconosciuto che era con me e non riuscivo a capire. Ho cominciato a tradirti preferendo a te le mie fantasie, i sogni, le bambole di carte con cui giocavo. Erano brutte, avevi ragione tu, senza capelli, senza denti, senza senso, ma guai a chi me le toccava era il mio tesoro prezioso anche se non sarebbero piaciute a nessuno. Avrei dovuto metterle da parte, invece erano sempre lì ai primi posti nei miei interessi dove tu eri cosa di poco conto; eri sono il contenitore dove riversare il superfluo, l’inutile e tu ti abbrutivi, ma io neanche ti vedevo o mi accorgevo di te riservandoti solo il minimo indispensabile.
    E non mi è bastato che ti ammalassi anche allora invece di occuparmi di te affidavo i miei sogni al vento che li portava in luoghi segreti erano la mia fonte di bellezza, mentre tu mi apparivi come una massa informe di cui non sapevo che fare. Ti relegavo in un angolo con le tue ferite e le sofferenze che ti divoravano fino al punto che saresti scappato da questa vita, questa vita così strana e imprevedibile ma nonostante tutto meravigliosa. Solo che io non vedevo il tuo soffrire era come se ogni cosa ti riguardasse fosse coperta da un sipario che mi impediva di scorgerlo, ma poi un giorno…
    Eravamo accanto alla finestra di casa. Tu poggiavi un fianco contro il muro freddo, c’era il sole fuori. Chiudesti gli occhi e andasti, dove non lo so, ma eri andato via. Eri rimasto immobile, rigido contro la parete e non sentivi chi ti scuoteva e ti chiamava. Poi hai riaperto gli occhi e hai fatto un sorriso strano- Stavo meglio prima, tutto il dolore era sparito. Ho sentito il silenzio poi una grande armonia che ha cancellato ogni male, se morire è qualcosa di simile non mi dispiacerebbe affatto.- Eri stato al confine tra il nostro e un mondo diverso ma io non potevo permetterti di andare. Non era tardi, no, avevamo ancora tante cose da fare insieme. Sarei stata la tua ombra, accidenti, e ogni giorno ti avrei portato a vedere il mare, non importa dove , non importa se vicino o lontano, perché tu ne avresti assaporato il profumo, ne avresti seguito il movimento capriccioso ovunque, tu il mare lo avevi nel cuore.
    Ti seguo da giorni in questi incontri col mondo e ogni volta è diverso. Consapevoli che il tempo ci rallenta siamo spettatori di alberi che si vestono e si spogliano, sole che brucia, vento che scompiglia, pioggia che nutre la terra, bambini che cambiano aspetto. E noi in questo angolo di belvedere.
    Guarda, il mare ha quel gioco di colori che rapiva il cuore, lo fa anche adesso ma con un dolore silenzioso. Ora è lontano, un’immagine da cartolina che si stringe nel cielo e ci fa sentire piccoli, piccoli, come granelli di sabbia che danzano senza pace. Fai fatica a seguirmi, ansimi, come faccio a proteggerti ora; ora che sei così fragile? Quanta felicità ho perduto, dovevo ascoltare le tue sensazioni, le tue lacrime asciutte, i tuoi gridi soffocati che adesso sono aliti, respiri di vento che sto raccogliendo per poterti stringere a me. Domani andremo sulla riva a contare granelli di sabbia dorati. Saremo insieme in una foto a colori senza sbavature: anima e corpo immortalati sullo sfondo di un mare baciato da un sole con gli occhi chiari.
  3. .
    Vivo come se la mia identità fosse continuamente in pericolo, minacciata, a rischio di estinzione e ho paura che mi venga rubata, che la calunnia e l’oblio rendano la mia immagine distorta, evanescente, temporanea. Dovrei arrendermi, accettare la mia temporaneità. Finirò.

    Ho la data di scadenza tatuata dietro al collo. Mi basterebbero un paio di specchi per vederla, ma non vado a cercare quello che non voglio sapere. Finirò. La memoria di me, sì, quella mi sopravviverà, ma per poco. Sarò una scartoffia d’archivio per un certo lasso di tempo, non certo per l’eternità. Un dato in un faldone che nessuno si disturberà di consultare. Bella memoria di me.
    Scomparire mi fa paura e non mi consola il raccontarmi che l’intero universo è vittima del medesimo destino e che esso stesso proviene dal nulla, da un vuoto di radiazione incandescente. Cenere alla cenere, polvere alla polvere, nulla al nulla.
    Mi preoccupo della mia identità e della mia memoria e temo una società liquida. Liquido è la parola del momento, è sulla bocca di tutti, un mantra, ma, se indago, mi rendo conto che non so cosa voglia dire. Società liquida perché scorre e sfugge dalle mani senza lasciare niente, almeno in apparenza? Perché ogni cosa è mutevole e arbitraria e ogni certezza può essere messa in discussione? Sicuramente non perché tutto fluisce senza intoppi e io scorro in armonia con il creato e le creature. L’altro giorno ho abbaiato a un’infermiera che si è fregata una sedia dal mio ufficio. Mi serviva quella sedia? No, ma faceva parte del mio territorio, l’avevo marcata con i miei feromoni. La coabitazione con il felino mi segna. Faccio le fusa e poi pianto le unghie. Non scorro.
    Liquido in antitesi al concreto forse, analogico contro digitale, ma il digitale non è liquido, semplicemente muta con facilità e non gli si può assegnare una forma o una consistenza, è più un impulso che una liquidità. Vado a impulsi, a bit, zero e uno, acceso e spento, ovvio che mi ritrovo sola. Come si fa a restare accanto a una tizia che un giorno è zero e il giorno dopo è uno, non si può. Devo tornare a essere analogica, definibile, descrivibile, solida. La stazza c’è, sul resto ci potrei lavorare.
    Rimango in bilico, tra il mio essere analogico e il mio essere digitale, tendo al liquido e temo che in quella dimensione acquosa si sciolga la mia identità.

    Esco. Prendo la reflex e anche lei è in bilico. Concreta fra le mie mani, trasformerà un sorriso in codice binario, che passerà a uno schermo calibrato e ibrido e poi il sorriso ritornerà concreto, nel rassicurante bianco e nero bidimensionale, spalmato su una morbida carta di bambù.
    Scatto e conservo e di nuovo mi assale la sensazione di fine, di dimenticanza. Vorrei condividere, mi sento social, ma come fare, la privacy mi è nemica. Viro postando amene pucciosità e stravaganze: gli insetti che fanno all’amore, il bucato alternativo, gli addobbi di Via Garibaldi, la scala davanti alla Scala. Perché lo faccio? Perché sono social, perché faccio parte del popolo, sono pop.
    Sono connessa ma senza fili. Tutti i miei pensieri sono senza fili, lo sono sempre stati e questo non è un bene, soprattutto non lo è quando escono dalla mia testa. Di sicuro ho qualche disfunzione o dei pensieri troppo ansiosi, perché, una volta fuori, sono totalmente privi di controllo. Alta probabilità di mandare qualcuno affanculo, quando in realtà volevo dirgli “ti voglio bene”. Monosillabica, meglio che mi mantenga monosillabica. Less is more.

    Vivo come se la mia identità fosse continuamente in pericolo. Ma sono io la minaccia più grande per la mia identità. Io che temo ciò che è “straniero”, quello che esula dal mio consueto, che ha un sapore più forte o una sfumatura più delicata.
    Mi risuonano gli slogan nelle orecchie e alta sventola la bandiera, mano sul cuore a cospetto e a difesa della mia identità. Ma poi ecco un’ammaccatura sull’asta, una scucitura tra il verde e il bianco. Il vento si fa meno spavaldo, i cori inneggianti sono ormai lontani. Mi siedo all’ombra delle mie certezze e mi rendo conto che esse sono una prigione, non un riparo. Ora vedo il tarlo che intacca lo splendore dell’identità. Il suo nome è memoria.
    La memoria, ciò che apprendo, che fa parte di me, l’esperienza che mi cambia in maniera stabile. La vita stessa è memoria.
    Non ho più paura, non devo averne. Più sono disposta a cambiare e più la mia identità si rafforza. Meno mi affermo e più mi riconosco.
    La mia identità vive nel presente ed è in continua evoluzione e, allo stesso tempo, mi ricorda chi sono, nel rapido mutare del tempo. Essa ha forse vita più breve rispetto alla memoria, ma la sua espansione è in orizzontale.
    La mia memoria sarà di pochi, è vero, e di me dirà ancor meno, ma la mia identità incontrerà molti e non mi importa se di me dirà tanto o quasi niente. Vivrà il confronto, sarà condivisa e tornerà a dirmi chi sono.


    Che fine ha fatto il bel sorriso adagiato sulla carta di bambù? Eccolo, è sempre rimasto qui, sulla mia scrivania. Mi dispiace, non posso condividerti. O non voglio. Decisamente non voglio. Però ti ho recapitato in molteplice copia al tuo legittimo proprietario, ti ricordi? Che vendetta stupida. Come quando lui mi ha portato a vedere i cigni ballare perché io lo avevo trascinato al concerto di jazz contemporaneo. Sai cosa mi piace di lui? Che è uno e zero, come me. O forse siamo come quei cigni, lui bianco e io nera, con tutti gli altri nostri colori nascosti all’interno. È il tarlo dal quale mi lascio mordere l’anima, è lo specchio in cui mi riconosco.
  4. .
    Non sono il primo, non sarò l’ultimo, ma parlare da sopra questo palco, da sopra questo scanno, dà sempre una certa emozione, anche se il pubblico siete voi, perdigiorno-curiosi-barboni-ragazzini-casalinghe, anime di questa Nuova York. Tutto è cosi… vasto, e veloce, e indifferente, e fantastico.
    Oggi non ho storie da raccontarvi ma solo voglia di parlare. Allora…
    Vogliamo ragionare?
    Vi leggerò questo mio… flusso di monologo flessuoso?
    Vogliamo ragionare su che cosa sia? Vogliamo ragionare su che cosa? E sia. Sia quel che sia.
    Io con voi e voi con io; no, voi con me.
    Una cosa leggera: leggermente più pesante di un qualcosa, ma sempre leggera; come una cosa così.
    Così, tanto per passare il tempo, mentre il tempo ci passa sopra, o a fianco, ci sorpassa. Sovrasta.
    Pronti? Via.
    No, non andate via. Zitti. Ascoltate. O meglio: leggete.
    Partiamo da una cosa a caso. Casualmente.
    Perché temiamo l'altro? Di cosa siamo gelosi? Quanto siamo golosi?
    Il tempo passa: muoviamoci, troviamo soluzioni, fermiamoci a pensare, muoviamoci da fermi.
    Perché la valanga d’informazioni disponibili non contribuisce a far nascere nuovi geni?
    È una questione di geni? Nel dna la soluzione? Nel Nba i geni vanno a canestro? Meglio essere ambidestro? E se il bagno si trovasse nella seconda in fondo a sinistra?
    Con le lettere dell'alfabeto si è già detto tutto il possibile? E possibile che qualcuno lo abbia già detto? Anche proprio questo che io ho appena detto?
    Salumiere: mi dia un etto di tutto il già detto.
    Vogliamo inventare nuove forme di espressione? Mi sono espresso bene? Male?
    Bene, proseguiamo.
    Quanto tempo è passato dall’inizio di questo sproloquio? E cosa avremo potuto fare, io e voi e voi e io, invece che ragionare a vanvera? Meglio? Peggio? Qualcosa di diverso?
    Diverso. Allora perché temiamo il diverso? Perché distoglie la nostra attenzione dal nostro ragionare? Perché rappresenta quello che saremo potuti essere? Potuto fare? Dire, fare, baciare?
    Il diverso baciare? Un diverso modo di baciare? Se ci baciasse il diverso?
    Solo un diverso modo di ragionare, cosi solo per non stare a guardare; o ancora, guardare noi stessi che oltre al guardare non sappiamo più toccare. Noi stessi che, oltre al non saper più toccare, sappiamo guardare è vero… ma solo in modo errato. Errante. Giudicante.
    Così, tanto per ragionare, è stato un progredire? Un regredire? Meglio trasgredire?
    Meglio? Peggio? Ora diverso dal prima, diverso dal normale, noi diversi nel futuro e diversi per gli altri. Diversamente abili. Abili arruolati nella confusione disordinata, alla deriva. Di continenti incontinenti.
    Come ci fa sentire “essere temuti? Essere incompresi?” Temiamo essere offesi? Vogliamo essere difesi? Ci sentiamo presi in giro? Girando a vanvera: offendiamo gli indifesi?
    Meglio andare a farsi un giro, certo, un giro in giro, ma se dovessimo incontrare il diverso? Scansiamo girando a largo? Allarghiamo il nostro orizzonte? Culturale? Spaziale? Temiamo, fuggiamo, somatizziamo?
    Sodomizziamo il senso logico dei nostri avi credendoci migliori?
    Cosa ci è stato lasciato? Lo abbiamo custodito per bene quello che ci hanno lasciato? Il bene è un valore da custodire? Il custode del bene lavora -acca ventiquattro-? Le ventiquattro ore rosa sono state ben gestite? Il direttore rubava? Come tutti? E tutto alla luce del sole? Sole ventiquattr’ore?
    Chi diavolo ci guida? Ci guida il Diavolo? Un diavolo di guidatore? Chi diavolo gli ha dato la patente?
    Patente e libretto! Prego. La prego. Vi prego. Pregiamo, per il mio e il vostro sacrificio io, tu, egli, noi, voi, essi.
    Essi siano.
    È troppo complicato, e solo incasinato, non ha molto senso, anche se a dire il contrario del falso, a dire tutto il vero-vero, dobbiamo ammettere che tutto il non senso ha un suo senso profondo, lo sentiamo con il nostro sesto senso. Spesso il senso, un senso non ce l’ha, spesso il sesso un senso non ce l’ha, spesso il senso e il sesso stesso. Fino a quando però? Sessanta? Mi dicono di sì. Settanta? Pillole Blu. Ottanta? La gallina canta. Canta il gallo, canta la gallina e pur sempre vero che alla notte segue sempre una mattina. Con l’oro in bocca. Denti d’oro. Zingaro? Anche capre dai denti d’oro. Leggenda di Tavolara. Sommergibili nucleari parcheggiati sotto zona militare protetta? Il dubbio insidia e crea insinuazione? Convinzione? Leggenda più vera del vero? E se si ridimensiona troppo? Insomma, a chi diavolo dobbiamo credere? Dobbiamo credere al Diavolo? Diavolo di un bugiardo.
    Che poi io dico: senza confini sarebbe tutto più facile, potremo spostarci più facilmente, io e voi e voi e io. Potremo sconfinare. Tutti.
    La rete non ha confini ma restiamo imprigionati nella sua rete, tutti. Dipende dall'utilizzo che se ne fa, mi dicono.
    Ma vogliamo ragionare?
    Rete. Pesci. Strascico. Forse l’avremo dovuto capire da subito. Una trappola. Per topi. Tutti topi in fila per due. Topi in fila indiana dentro riserve sempre più piccole, prigionieri, illusi di spazi infiniti. Finito lo spazio. Finito il tempo. Finito il senso.
    Intrappolati nel non senso, tutti, io e voi e voi e io, cercando un senso che ci porti al di là dell’al di qua.
    Senza armi sarebbe tutto più semplice, difficile compiere stragi a colpi di pietra, poi, visto che nessuno è senza peccato, nessuno potrebbe scagliare la prima pietra.
    Aia! Non c’era mica bisogno di dimostrare la tua assenza di peccati. È proprio me che hai colpito con la tua pietra, e mio il sangue che sgorga dalla ferita alla testa.
    Lacero contuso.
    Un acero confuso.
    Un pero fuso.
    L’ero non la uso.
    Abuso di non senso. Tanto è gratis.
    Senza il denaro sarebbe tutto più semplice, o anche: sarebbe tutto più semplice con il denaro diviso in parti uguali. Chi divide? Chi guida la fila? Chi sta in coda alla fila? Chi si fila la cassiera? Chi incassa i resti? Chi resta fregato? Che ci frega di chi resta? Cosa resta poi da fare una volta fatto tutto?
    L'anarchia aiuterebbe? E la monarchia? Chi aiuterebbe? Chi anarchierebbe? Chi monarchirebbe?
    Quante cose finiscono per “chia” e ci fanno paura? Quante paure abbiamo? Quale la paura che guida la fila delle paure?
    Dobbiamo morire. È un dato di fatto. Fatto cento, in quanti si muore? Cento. Esatto.
    Cosi tanto per ragionare, vogliamo l'immortalità? Come ottenerla?
    Ma ne siamo poi sicuri? Sicuri che chi si cura faccia bene? La cura giusta. Trappole gravitazionali.
    Ragionando, ragionando, stiamo arrivando…
    A ogni scrittore serve un pubblico, cosi come a ogni muratore servono clienti che vogliano costruire case. Lo scrittore è un muratore che cementa parole costruendo frasi, quando è proprio bravo-bravo gli riesce di costruire un rifugio per lettori bisognosi o curiosi.
    Lo scrittore è immortale? Questa è una possibile cura? Il lettore è immortale? Quel che è scritto è immortale? L’immorale è più immortale della morale? Dove sta la morale di un molare che fa male? Quanto male fa un commento… mortale? Noia mortale. È la noia il vero male?
    Decrescita? È una soluzione? O forse solo un altro “non modello”? Un modello modellato da un monello per far passare il tempo? Tempo di vita. Tempo di morte in tempo di vita. Il cuore batte a tempo. Vitale. L’amore batte il tempo. L’amore è umorale. L’umore è bestiale. La bestia è animale? L’animale è amorale? La chiesa è temporale? Il potere è passeggero? Chi scende e chi sale?
    Morendo si sale o si scende? Con ascensore o con scale? Fisse o mobili? La mobilità è sostenibile? Chi sostiene il contrario? A cosa si sostiene chi sostiene il contrario del contrario?
    Cosi tanto per ragionare, ora di tempo ne è passato, qualche minuto a me per scrivere, qualche minuto a te per leggere, cosa è cambiato? Siam più vecchi di dieci minuti, gli ultimi dieci minuti sono ormai vecchi. Peli crescono. Cellule muoiono. Follicoli piliferi muoiono. Stazioni spaziali orbitano. Spermatozoi incontrano ovuli, si stringono la mano e fanno conoscenza. Altri precipitano nel cesso. I cessi vengono riempiti, poi svuotati, poi riempiti, poi svuotati, poi riempiti, a volte puliti, a volte no.
    A Bari esplosione in fabbrica di fuochi d'artificio: 4 morti e 6 feriti.
    Islam o non Islam? Questo è il problema. Falso.
    A Bhutan cosa sarà successo? Pil o non Pil, questo è il dilemma. Vero solo a tratti.
    Cosi tanto per ragionare: fa un caldo bestiale, le bestie hanno i nostri stessi diritti? Il tema dei diritti è un tema caldo, il caldo ha diritto di essere caldo e di fregarsene dei nostri diritti? Noi abbiamo il diritto di combattere il caldo a suon di condizionatori? Quanto condizioniamo il mondo che ci ospita? Siamo ospiti o padroni di casa? Casa mia e anche casa tua? E chi c’era prima? Chi verrà dopo? Ci frega qualche cosa? Ho vinto qualche cosa?
    Non c'è soluzione, anche se è cosi solo per ragionare.
    Vogliamo poi parlare degli scioperi passando da grandi temi evanescenti a piccoli temi marcescenti? Passando da lì a là e poi dal qua al più in là? Saltando di palo in frasca? Ora io mi chiedo e vi chiedo: perché si salta prima il palo, difficile, e poi la frasca, molto più semplice? Chi diavolo utilizza normalmente la parola frasca? Forse il Diavolo? Forse il Diavolo ci riceverà biascicando “palo in frasca, fracco di botte, per quattro palanche, tirare la paglia più corta…”
    Ma chi diavolo se ne frega poi, ma chi cazzo se ne frega poi! Ecco l’ho detto: “cazzo”, o meglio l’ho scritto: “cazzo”. Intercalare del cazzo. Eppure mi ero ripromessa di non utilizzarlo. O mi ero ripromesso? Cosa fa di me un lui? Il messo? Messo cosa? E una lei?
    Mutba non può scioperare in Congo, non saprebbe contro chi, inoltre non verrebbe ascoltato da nessuno.
    Allora io voglio forse dirmi e dirvi che se ci guardiamo indietro o in basso non abbiamo proprio nulla di cui lamentarci?
    Mi dicono che si tende sempre avanti, senza tende d'avanti agli occhi, o era prosciutto? E i vegani? Han sempre gli occhi liberi per guardare? E gli ariani? Han sempre lo stomaco che ha disimparato a brontolare? È Brontolo? Era uno dei nani? E i giardini? Son belli anche senza nani?
    Ma siamo sicuri di voler ragionare?
    Fermiamoci e guardiamoci indietro, io, tu, voi. NOI. Come una guida alpina che non vince nulla se raggiunge per primo la vetta, che aspetta tutto il gruppo per procedere insieme. Arriviamoci insieme a questa vetta, qualunque essa sia, senza paura del diverso, senza distruggere il sentiero sul quale scorriamo, perché potrebbe esserci utile per rituffarci in discesa, tutti insieme, senza confini, senza armi, senza rete, crescendo in saggezza e serenità, amando e creando condizioni per essere amati. Amiamoci e partiamo.
    Vogliamo ragionare?
    Ma anche no.
    La ragione funge alla comprensione, ma l’amore fugge alla troppa ragione.
  5. .
    Si parla così a una madre? Una rispostaccia, le ha dato. Sì, lo so, magari questo avranno pensato, gli altri. Più facile che non abbiano capito niente.
    Anche perché non c’era niente da capire. Gli ho detto una cosa, lui mi ha risposto, io ho ignorato la sua risposta e sono andata dritta per la mia strada.
    Mica perché non l’abbia sentito, ma se avessi dovuto dargli retta… A volte coi figli altro non c’è da fare. Non che lui sia un cattivo figlio, anzi. Ma anche quando sono buoni, non è sempre facile crescerli.
    È nato da me, credo di conoscerlo, invece no. Vorrei stringerlo, afferrarlo, trattenerlo, invece no. Qualcosa in lui mi sfugge sempre.
    Ho sempre saputo che un giorno avrebbe seguito una strada lontano da me, ma sono stata così felice quando ho visto che quel momento non arrivava. Sì, lo so, non avrei dovuto. Fossi stata una mamma più brava, forse l’avrei spinto prima a partire, ma questo figlio è capitato a me, e io lo sento nel mio cuore, vorrei tenerlo stretto e mai lasciarlo andare.
    Il mio bambino. Ti ho cullato, allattato, pulito, sgridato e consolato. Ti ho abbracciato, ho sentito il tuo calore e il tuo odore per tutta la tua vita. È così difficile capire che non ti vorrei lasciare andare via? Capire perché non avevo fretta? Perché vedere che continuavi a lavorare con tuo padre mi dava gioia? Tutto a posto, tutto tranquillo, tutto bene, niente cambia.
    Eppure lo sapevo che sarebbe cambiato, prima o poi. Lo sapevo, lo aspettavo e lo temevo. Eppure a volte, sì, ho sperato che essere felici, così, fosse per sempre. Sì, lo so, era sbagliato, non dovevo. Avrei dovuto guardare lontano, a cose più grandi e più importanti, ma a me bastava quello che c’era, che mi sembrava enorme e bellissimo. La normalità è bellissima.
    No, non avevo fretta, lo confesso. Anche tu, forse. L’ho capito dopo, lo capisco ora. Bella e preziosa è stata questa vita, non solo per noi, per me e per tuo padre. Anche per te.
    Anche a te ha riempito il cuore? Per questo sei rimasto così a lungo?
    Forse. Sì, penso di sì, ma non solo. E anche questo l’ho capito dopo.
    C’era gioia, nel vostro lavorare insieme. Soddisfazione. Qualcosa tra uomini che io vedo, colgo, ma che nel profondo mi sfugge. Di cui sono felice. Ero felice. Anche tu, credo.
    C’era rispetto. Per la vita di tuo padre. Per quello che avrebbe significato il tuo andartene, per lui.
    Timore di ferirlo. Lo amavi. Cosa avrebbe pensato? Cosa avrebbero pensato tutti di lui? Cosa avrebbero pensato di suo figlio? Cosa gli avrebbero detto? Come si sarebbe sentito?
    Per questo hai aspettato. Prima. Per tuo padre.
    Hai aspettato finché hai potuto, finché lui c’è stato. Finché lui se n’è andato. Inginocchiato di fianco al suo letto, gli tenevi la mano. Ho ascoltato i tuoi sussurri, ho visto le tue lacrime.
    Abbiamo vissuto insieme il dolore.
    Ho creduto allora che il momento fosse arrivato. Invece no. Di nuovo hai aspettato. Giorni, settimane, mesi. Sei rimasto. Per me, questa volta. E io ti ho lasciato fare. Troppo triste, troppo sola.
    Ma ora il tempo è passato.
    Sono pronta a lasciarti andare. Tu no. Ci sono cose che devi fare, lo so, ma ancora non vuoi. Mi pensi sola, ti preoccupi per la mia tristezza, e mi vuoi restare vicino. Certo, ci sono i parenti, gli amici. Ma l’unico figlio sarà lontano.
    Credi che non sia difficile, per me? Potrei averti qui, con me, stretto, per sempre. Per tutta la mia vita, almeno. Saremmo felici. Tu saresti felice: una moglie, dei figli. Dei nipoti. Ho sognato, immaginato, quante volte. Sogni di madre: tu padre, io nonna, nipotini da viziare e coccolare.
    Quanto sarebbe facile tenerti ancora qui, con me, vederti ritornare a casa ogni sera, sentirti ancora respirare la notte.
    Eppure no. Non è così che deve andare. Io lo so. Tu, da quanto tempo lo sai? Quando lo hai capito?
    Mi hai aspettato? Hai aspettato che io fossi pronta?
    Quante domande. Avrei risposte? Non sempre ti ho capito. Anzi. E dire che sono tua madre. Ma non è facile crescere un figlio. Mio e non mio. Parte di me e lontano da me. Amato. Ferocemente amato. Questo sì, assolutamente. Sempre. Anche ora, che sto facendo la cosa più difficile.
    Io sono l’unica persona che ancora ti trattiene. L’unica persona che ti può aiutare. Che deve, per quanto mi possa costare.
    Avevi bisogno solo di una piccola spinta. Da un po’ ci pensavo, ma non sapevo come. Certamente non avevo in mente niente di questo genere, quando mi hanno invitata al matrimonio. Nemmeno ci volevo venire. Sì, è vero, il periodo di lutto è ormai passato, ma non ho voglia di feste e confusione. E dire che sei stato tu ad insistere: Cana non è lontana da Nazareth, sarei stata in mezzo a parenti.
    Per convincermi hai accettato anche tu l’invito, con i tuoi amici. Mi volevi vedere felice?
    E io ho pensato che sì, sarebbe stato bello, di nuovo una festa, con te vicino.
    Così è stato. Ho dimenticato il resto. Ho ricordato il mio, di matrimonio. I canti, i balli, le risa, la gioia. L’emozione, anche, e un po’ di preoccupazione. Che tutto vada bene, che niente vada storto, che gli invitati siano contenti. Forse per questo mi ha toccato, che gli sposi non avessero più vino?
    Ho colto l’occasione.
    Non mi hai risposto male. Mi hai voluto dire qualcosa che solo io potevo capire. Hai anche un po’ sorriso – quel tuo modo di sorridere dietro le parole che solo io conosco – quando mi chiedevi cosa volevo da te e mi dicevi che il tuo tempo non è ancora venuto, mentre con gli occhi mi tenevi stretta.
    Sì, invece, il tempo è venuto. Voglio che tu vada.
    Così ti ho ignorato e ho detto ai servi di fare quello che avresti chiesto.
    Un po’ però viene da sorridere anche a me: che penseranno, un giorno, del fatto che il tuo primo miracolo sia stato trasformare dell’acqua in vino?
    Be’, potrai sempre dire che è stata colpa di tua madre.
  6. .
    Non ti liberi
    delle mani e dei piedi
    che ti hanno attraversato
    - chi indugiando, chi correndo,
    chi salutando appena.
    Ti camminano dietro
    smuovono i ricordi
    siedono accanto a te
    su un divano rosso.
    Ti ricordano
    -dondolando, pigri-
    quanti futuri hai cambiato.
  7. .
    CITAZIONE (Achillu @ 3/4/2017, 16:11) 
    CITAZIONE (Bosone&Sacripante @ 3/4/2017, 12:04) 
    Be' onestamente e personalmente non "aggiusto" mai i miei pezzi per piacere di più a qualcuno.
    Se piace e convince me, allora posso darlo in pasto ai lettori, ma quanti sono lettori e quali sono i loro gusti non è un mio problema.
    Bisogna solo imparare a disinnamorarsi di quello che si scrive, difficile lo so, ma molto utile a filtrare complimenti e critiche e a migliorarsi.

    In realtà no. Bisogna amare ciò che si scrive come un figlio, provo a spiegare perché. Un figlio lo tiri su, o dovresti tirare su, in modo che possa rendersi indipendente da te e vivere di vita propria, vivere la propria vita. Questo non è "disinnamorarsi", dal mio punto di vista. Questo è amare incondizionatamente. Non è facile farlo con i figli. Dovrebbe essere più facile con i racconti, ma probabilmente - perdonatemi la battuta - riversiamo sui nostri racconti più aspettative di quante ne riversiamo sui figli.

    In realtà no secondo te. Io ho espresso il mio parere personale. Io non riverso aspettative sui miei racconti, ci riverso quello che sono. Dopodiché volto pagina e vado avanti. Quello che scrivo sono io fuori da me, e non mi posso proteggere continuamente, devo imparare a lasciarmi andare via.
    Non è come un figlio, per me.
  8. .
    La protagonista femminile è una donna e sì, è un gioco tra innamorati che soffrono ma cercano un modo per dimenticarsi che soffrono.
    :)
  9. .
    Be' onestamente e personalmente non "aggiusto" mai i miei pezzi per piacere di più a qualcuno.
    Se piace e convince me, allora posso darlo in pasto ai lettori, ma quanti sono lettori e quali sono i loro gusti non è un mio problema.
    Bisogna solo imparare a disinnamorarsi di quello che si scrive, difficile lo so, ma molto utile a filtrare complimenti e critiche e a migliorarsi.
  10. .
    Grazie a te, aki, per questo 100.
    Grazie davvero.
    Ele
  11. .
    Complimenti a tutti tutti tutti.
    E poi grazie, che bello, non mi aspettavo di vincere, non mi aspettavo nulla, in verità. E sono molto molto felice
  12. .
    Forse è un problema mio, ma sono davvero basita dalla quantità di voi che non hanno visto questo film, non ne hanno sentito parlare, non ne conoscono praticamente l'esistenza. Ragazzi, ma come mai? Questo film ha gettato le basi del cinema contemporaneo, riparate subito e andate a guardarlo adesso, vi prego.
  13. .
    Ciao aut,
    Questo 100 è un bel delirio gestito con grande efficacia, a mio avviso risente solo del 5 obbligatorio, che è l'unico passaggio che mi lascia perplessa (probabilmente non dovendo inserire un riferimento al 5 sarebbe filato via più liscio)
    Brav.
    Ele
  14. .
    Grazie :)

    Per i brindisi ripasso in un orario più consono eheheheh
  15. .
    Mi piace la voce che mi parla da questo racconto, non mi piace il disordine. E non mi sento di giustificare le formattazioni che non sono creative ma semplicemente noncuranti.
    E mi piacciono ancora meno se penalizzano una voce così personale.
    La storia è bella, fa emozionare, le immagini restano.
    Ele
146 replies since 30/12/2011
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