Scrittori per sempre

Votes taken by B&S

  1. .
    Bellissima e ben condotta fino alla fine.
    Credibili tutti i personaggi, belle le descrizioni, ben costruiti i dialoghi e ottimo il ritmo.
    Mi è piaciuto tutto, anche il finale con quel pizzico di umana e saggia crudeltà, mal comune mezzo gaudio.
    Brav, complimenti.
    Ele
  2. .
    Oh, che bella!
    Questa mi è piaciuta dalla prima lettura, e più la leggo e più mi piace.
    La donna/vecchia e la morte sono resi in maniera deliziosa.
    Ha un bel ritmo, un registro narrativo sempre coerente, dialoghi misurati e credibili.
    Mi ha convinta in tutto e per tutto, complimenti.
    Ele
  3. .
    C'è troppa confusione e troppi dettagli che rimangono oscuri.
    Di quale tradimento parla la "strega"? Nessuno l'ha tradita, l'hanno solo trascurata, casomai.
    Perché la principessa viene definita cozza? E la rosa rossa perché?
    Etc etc...
    Insomma mi rimangono un sacco di cose in sospeso. Io sono un'amante dei finali sospesi, ma non di tutto il testo sospeso.
    La storia è un classico, ti dirò che mi piace anche come hai impostato il registro narrativo. Peccato quei difettucci che personalmente hanno sciupato un po' la lettura.
    Ele
  4. .
    Quando conobbi Il Cacciatore stavo al Dimenticatoio già da un po’. Abbastanza da non ricordare il giorno in cui ci ero arrivato.
    Nel nostro Campo di Raccolta li chiamavamo Scacciapensieri, quelli come lui.
    Ne arrivavano a centinaia scivolando sul Filo del Discorso, folle di ragazzini attaccabrighe che si divertivano a fare comunella tra di loro e prendersi gioco di tutti gli altri.
    Non avevano un futuro. Nessuno ce l’aveva da quelle parti. Ma loro non sembravano farci caso.
    Non crescevano, non invecchiavano di una virgola e, quando arrivava il loro momento, si lanciavano nell’Oblio prendendo una gran rincorsa, schiamazzando e ridendo come dannati, felici e incoscienti come surfisti in cerca di un’onda abbastanza grande da mandarli al creatore da eroi.
    Non ci voleva un genio per capire quanto fosse diverso, il Cacciatore.
    Se ne stava quasi sempre per i fatti suoi, lo sguardo fisso sull’orizzonte, là dove il Dimenticatoio diventa una distesa di campi a perdita d’occhio e l’erba è talmente alta e fitta che la luce non riesce ad attraversarla.
    La prima volta che parlammo mi chiese “Come faccio ad andarmene?”.
    Niente salve o come va o che si dice. Non era lì che da poche ore, ma già pensava a come fare a scappare. Non aveva idea di dove fosse capitato, per certi versi non sapeva nemmeno bene cosa fosse realmente, ma il suo primo pensiero era stato quello di levare le tende.
    “Da dove, se posso chiedere?”, gli domandai.
    Non so chi gli avesse detto di rivolgersi a me. Non ero nessuno da quelle parti. Forse solo uno che era stato lì abbastanza da rispondere a certe domande senza batter ciglio.
    “Da qui”, rispose lui. “Vorrei andarmene da qui.”
    Non mi stava prendendo in giro. Quel tipo era semplicemente sceso dal Filo e dopo aver dato una bella occhiata in giro aveva deciso che era arrivato il momento di tornarsene indietro.
    “Nessuno va via”, gli dissi allora. “È qui che finiamo il nostro tempo.”
    Non gli chiesi perché volesse andarsene. Era il primo pensiero di molti, una volta atterrati qui. In quello non era più speciale di tanti altri. Ma era l’unico Scacciapensieri a cui avessi mai sentito dire di voler scappare. Di solito, a qualunque razza appartenessero, mettevano la testa a posto nel giro di qualche ora. Un giorno o due al massimo.
    Mi fissò incredulo e chiese: “E poi?”
    “Poi c’è l’Oblio, ragazzino.”
    Suonava così melodrammatico ogni volta che lo dicevo. Ma era quello che ci aspettava.
    “Guardati, cosa credi di essere?”, aggiunsi. “Sei soltanto un Ricordo.”
    “Un Ricordo?”
    “Un pezzo di vita di qualcuno. E ora quel qualcuno ti ha scaricato. Dimenticato, dillo come vuoi. Non cambia ciò che sei.”
    “E non c’è possibilità di tornare indietro?”
    “Se sei qui, un motivo c’è.”
    “E sarebbe?”
    “Da dove vieni possono anche fare a meno di te”.
    Era quella la verità. Ed era la prima lezione che t’impartivano quando scendevi dal Filo.
    Da allora non lo sentii una sola volta accennare al fatto di volersene andare. Ma credo che non abbia mai pensato ad altro dal preciso istante in cui gli dissi cos’era in realtà fino a quando non prese il volo e nessuno lo vide più.

    Il giorno dopo il suo arrivo me lo ritrovai di nuovo tra i piedi.
    “Ragazzino, gira al largo”, gli dissi. “Vai a farti un giro con quegli altri scalmanati come te.”
    “Chi?”, fece lui.
    “Gli Scacciapensieri.”
    “Non ho idea di che parli.”
    Era bravo. Anche quando non ti faceva una domanda, riusciva a tirarti fuori una risposta comunque.
    “Vediamo se capisci. A chi appartenevi?”, gli chiesi spazientito.
    “Daisy Fay Morris.”
    “Bene. Almeno una cosa la sai. Età di questa Daisy Fay?”
    “Due anni, nove mesi, quattordici giorni.”
    “Ok, diamo un’occhiata.”
    “A cosa?”
    “Al ricordo. Fammi vedere di cosa sei fatto.”
    Ridotti all’osso siamo degli schermi. Abbiamo due braccia, due gambe e una testa, ma è nel nostro corpo a forma di schermo che c’è tutto ciò di cui siamo fatti: un ricordo che viene proiettato continuamente.
    Nessuno fa veramente caso a quello che trasmettono gli altri. Eppure quel giorno guardai il Cacciatore. Lo guardai veramente. Prima di allora non l’avevo mai fatto con nessuno.
    Vidi il mondo con gli occhi di Daisy Fay Morris. Correva in un prato, con l’erba alta che le accarezzava la schiena, lasciandole gocce di rugiada sui vestiti estivi. Con un retino in mano cercava di acchiappare almeno una delle decine di farfalle che si sollevavano in volo e le giravano attorno, infastidite da quell’essere imprevedibile e testardo. Accanto al lei correva una donna. La madre forse. Ma era appena una sagoma scura contro il sole.
    “A caccia di farfalle?”, gli chiesi.
    Fu allora che lo battezzai il Cacciatore. Qui nessuno scende dal Filo con un nome. Sono gli altri a pensarne uno per te.
    “Vai avanti”, mi rispose lui.
    Vidi Daisy Fay acchiappare una farfalla. Niente di che, un esserino bianco e insignificante, fragile come un fiocco di neve al sole. Ma lei, esausta e raggiante, si buttava a terra, stringendo il retino con tutte le sue forze, cercando in ogni modo di non farla scappare, nemmeno avesse preso in trappola una Monarca.
    Poi la madre le diceva E adesso? Cosa vorresti farne? Vuoi davvero tenerla separata dalle altre? indicando le compagne che finalmente erano libere di posarsi sui fili d’erba e ora osservavano la scena come tanti spettatori di un ricordo che non gli apparteneva più.
    Ma a che serve il retino allora?, chiedeva la piccola.
    Serve a imparare a lasciarle andare.
    Daisy Fay si alzava da terra, offrendo alla farfalla la possibilità di uscire. Ma, anche scuotendo il retino, quella non accennava a muoversi.
    Perché non se ne va? chiedeva allora Daisy.
    Dille che è libera e lo sarà.
    Il ricordo finiva così. “Niente male”, gli dissi.
    Lui annuì senza aggiungere altro.
    “Vedi ragazzo”, gli spiegai allora. “A quelli dell’età di Daisy Fay non resta attaccato nulla. Ogni giorno è un nuovo giorno e tutto ciò che gli capita, bello o brutto che sia, un istante dopo scompare. È per questo che vi chiamiamo Scacciapensieri.”
    “E gli altri che sono qui?”
    “La maggior parte sono Ricordi di gente che sta invecchiando. Per una ragione o per l’altra dimentica le cose. Li chiamiamo Perditempo.”
    “E poi?”
    “Poi ci sono quelli come me. Un colpo e via. I Testavuota. Tutta una vita finisce qui. Il tizio a cui appartenevo è stato investito da un’auto. Io sono l’ultimo ricordo che ha perso. Guardami. Lo vedi il cielo che ruota sul mio schermo? È lo stesso cielo che ha visto lui prima di battere la testa e dimenticare tutto il suo passato.”
    “Scacciapensieri, Testavuota, Perditempo. Chi li sceglie questi nomi?”
    “In questo Campo li chiamiamo così. Ma certe cose cambiano da Campo a Campo, immagino. Questo posto è immenso. Ci sono centinaia di Campi di Raccolta, disposti in cerchio attorno all’Oblio.”
    “C’è altro che devo sapere? Che cos’è tutto quel verde che ci circonda?”
    “Non ha un nome. Anche se qui ogni cosa ne ha uno. E credimi, alle volte sono proprio le cose senza nome che fanno più paura.”
    “Che cos’ha di tanto spaventoso?”
    “Ammesso che tu sia così stupido da decidere di entrarci, non avresti alcun punto di riferimento per orientarti. E anche se per pura fortuna tu riuscissi a camminare nella direzione giusta, dovresti andare avanti per giorni prima di arrivare alla fine. O qualunque cosa sia quel nulla da cui spunta il Filo del Discorso. E comunque ci sono gli Acchiapparicordi. Non faresti tanta strada in ogni caso.”
    “Acchiapparicordi?”
    “A migliaia, nascosti nell’erba. Nessuno li ha mai visti. Nessuno sa come sono fatti. Qualcuno dice che sono invisibili. Loro vedono te, ma tu non puoi vedere loro. Ma basta solo avvicinarsi, sfiorare con una mano i fili d’erba ai margini del prato per sentirli muoversi, agitarsi mentre fiutano un Ricordo abbastanza folle da avventurarsi là dentro.”

    Per qualche tempo lo persi di vista. Forse non aveva altre domande da fare o forse non gli erano piaciute le risposte che gli avevo dato, fatto sta che non lo vidi più fino al Giorno della Visita.
    Accadeva una volta al mese, puntuale come un orologio. Mister Oblio in persona veniva a ispezionare il nostro Campo.
    Mentre mi univo agli altri, aspettando il suo arrivo, mi ritrovai il Cacciatore accanto.
    “Chi aspettiamo?”, mi chiese.
    “Salve anche a te”, gli dissi. “Iniziavo ad annoiarmi senza le tue domande.”
    Mi sorrise. Pensai che si stesse finalmente ambientando.
    “Aspettiamo Mister Oblio”, gli dissi allora.
    “E chi sarebbe?”
    “La persona che ha costruito questo Campo. E ogni altro Campo di Raccolta.”
    “E viene spesso?”
    “Una volta al mese. Immagino faccia lo stesso con tutti gli altri. Probabilmente non fa altro che viaggiare da un Campo all’altro.”
    Più si avvicinava il momento e più cresceva l’eccitazione della folla. Poi all’improvviso ci fu silenzio e Lui arrivò camminando sul filo. Un gioco di abilità che si concedeva entrando in scena. Tutti i Ricordi applaudirono come matti e il clamore della folla divenne nuovamente incontenibile.
    A parte quel numero da giocoliere non era uno che amava i trucchi. Non cercava di metterti paura o di limitare le sue apparizioni, trasformandosi così nel mostro leggendario di qualche favola della buonanotte. Anzi, per dirla tutta era un tipo insignificante. Ma eravamo roba sua. Da dove venivamo, ognuno di noi aveva il suo padrone, ma al Dimenticatoio c’era un padrone solo.
    “E ora che succede?”
    “Il rituale è sempre lo stesso. Per prima cosa si presenta ai Ricordi nuovi, tenendo un breve discorso sull’importanza di prendersi cura dei Dimenticati.”
    “E dopo?”
    “Chiama a sé quelli destinati all’Oblio, i Ricordi che sono qui da più tempo. C’è una specie di cerimonia. Quasi una veglia funebre. A quel punto li abbraccia uno per uno e lascia che ognuno affronti il salto come meglio crede.”
    Anche quel giorno tutto andò secondo programma. E quando anche l’ultimo Ricordo scomparve nell’Oblio, il Cacciatore mi domandò: “Ti chiedi mai cosa c’è là sotto?”, indicando il buco nero che si apriva nel terreno, quel salto nel buio dove non ci sarebbero più state né domande né risposte.
    “Alcuni credono che sia solo un passaggio verso qualcos’altro”, gli risposi. “Ma non fa per me. Non sono uno di quelli. Non ho mai nemmeno desiderato di tornare indietro.”
    “Non sei curioso?”
    “No, e anche se fosse tra poco potrò soddisfare la mia curiosità. Peccato per te che non sarò più qui per rispondere alle tue domande.”
    “Che vuoi dire?”
    “Tra un mese esatto tocca a me.”

    Non siamo stati insieme per molto, io e il Cacciatore. Troppo poco in confronto agli anni che ho trascorso in questo posto. Ma credo sia la cosa più simile a un amico che abbia mai avuto.
    È buffo come due ricordi così diversi siano riusciti ad andare d’accordo, due che nemmeno appartenevano alla stessa persona, arrivati qui in momenti diversi, destinati ad andarsene in momenti diversi, ma così è.
    Nel mio ultimo mese al Dimenticatoio trascorremmo gran parte del tempo a conversare. Parlavamo di ogni cosa e, anche se il capolinea si avvicinava, facevamo del nostro meglio per non pensarci.
    Arrivata la sera dell’ultimo giorno, lo cercai ovunque senza trovarlo. Alla fine lo intravidi in lontananza, seduto con la schiena rivolta ai bassi fabbricati dove vivevamo, vicino all’erba alta, là dove tante volte si era perso il suo sguardo.
    Lo raggiunsi. “Che fai qui fuori?”, gli chiesi.
    “Ti sei mai chiesto dove siano gli altri?”
    “Ragazzino, non sarebbe ora che ti cercassi qualcun altro che risponda alle tue domande?”
    “Parlo sul serio”, mi disse lui. “Te lo sei mai chiesto?”
    “Non so di che parli.”
    “Sì che lo sai. Gli altri Testavuota del tizio a cui appartenevi.”
    “Saranno in altri Campi. Che vuoi che ne sappia?”
    “Ma perché tenerci separati l’uno dall’altro?”
    “Non lo so e non m’interessa. Domani chiudo con questa storia.”
    “Ti ricordi cosa mi hai detto quando ci siamo conosciuti? Che da dove venivo potevano fare a meno di me.”
    “Sì, me lo ricordo.”
    “E ci credi davvero?”
    “Per una volta rispondi tu a una domanda. Ha importanza a questo punto?”
    “Forse. E se domani Lui non venisse?”
    “Non è possibile. Da quando sono qui non è mai successo.”
    “Le cose cambiano. Alle volte un retino serve a lasciarle libere.”
    Detto questo, si alzò in piedi e iniziò a passare la mano sui fili d’erba, avanti e indietro.
    “Non farlo”, gli dissi, “Non mi piace”.
    “È vero. Come hai detto tu. Li senti muoversi. Gli Acchiapparicordi.”
    “Smettila, per favore.”
    “Sei sicuro che da dove veniamo non abbiano più bisogno di noi? Che Daisy Fay non sarebbe felice di ricordare quel pomeriggio con sua madre? O che il tizio a cui appartenevi non rivoglia indietro il suo ultimo cielo, per aggrapparsi almeno a quello e provare a ricostruire la sua vita prima del volo?”
    “I ricordi sono fatti per essere dimenticati.”
    “Forse è solo quello che vogliono che tu creda. Forse non è perché ci hanno dimenticato che siamo qui. Li senti?”
    Li sentivo davvero. Arrivavano a decine, da ogni direzione. Si muovevano nervosi come bestie in gabbia.
    “Se noi siamo in prigione, loro non stanno messi tanto meglio”, disse ancora.
    A quel punto me la diedi a gambe. Anche se non avevo più nulla da perdere, non ci tenevo a incontrare un Acchiapparicordi. Avevo un salto da fare e volevo farlo a modo mio.
    Allontanandomi di corsa, mi girai a guardarlo. Stava continuando con quel suo folle richiamo. L’erba di fronte a lui si agitava come scossa da potenti raffiche di vento.
    Prima di essere abbastanza lontano, sono sicuro di aver sentito ancora una volta la sua voce. Non stava parlando con me e non era una domanda quella che sentii.
    “Dì loro che sono liberi e lo saranno”, disse.
    Qualunque cosa significasse, suonava come una risposta.

    Il giorno dopo arrivò. Il mio ultimo giorno da Ricordo. O così pensai mentre mi radunavo con gli altri, aspettando l’arrivo di Mister Oblio.
    Cercai nella folla il Cacciatore, per averlo accanto al momento del salto o anche solo per assicurarmi che fosse vivo, ma non lo vidi.
    Non vidi nemmeno Mister Oblio. Nessuno di noi lo vide. Non ci fu alcun discorso, o alcuna veglia. Nessun salto.
    Aspettammo e aspettammo ancora, ma Lui non venne.
    Vidi alcuni Perditempo piangere e ripetere senza sosta “Cos’è successo?” “Cos’è successo?”.
    Persino gli Scacciapensieri se ne stavano in un angolo, smarriti e confusi come surfisti davanti a un mare senza onde.
    Le cose cambiano, aveva detto il Cacciatore.
    Il giorno dopo ci radunammo di nuovo sotto il Filo, aspettando che Mister Oblio si facesse vedere. Lui, o chiunque altro. Ma non accadde nulla.
    Non arrivarono nemmeno altri Ricordi. Il Filo era immobile, come se il meccanismo che lo aveva sempre fatto muovere si fosse all’improvviso rotto.
    Ancora oggi continuiamo a radunarci, aspettando. Nessuno ci ha detto che possiamo andarcene.
    E mentre aspetto, immagino il Cacciatore camminare nell’erba. Gli Acchiapparicordi gli si stringono attorno, arrivando da ogni direzione. Lo immagino mentre dice loro che possono essere liberi.
    Certi giorni penso che sia arrivato fino in fondo, a quel nulla da cui spunta il Filo del Discorso, e da lì abbia fatto un salto per tornare da dove è venuto. Ma quello che credo è che sia soltanto andato in cerca di un altro Campo di Raccolta, per trovare un altro come lui, un Ricordo di Daisy Fay.
    No, nessuno ci ha detto che possiamo andarcene. Dì loro che sono liberi e lo saranno.
    Siamo in un territorio inesplorato. Senza nome.
    Ho sempre pensato che le cose senza nome fossero quelle che fanno più paura. Ma non è così. Non più.
  5. .
    Acqua di fiume chiara di febbraio, asfalti, campi incolti di velluto verde, attillato. Monumenti.
    Sotto un’emorragia di sole.
    Per la manutenzione di un volo di pennuti, pitturati e scoccati di fresco da un orizzonte sbilenco, una città:
    Roma.
    Il fruscio del traffico è sedato dai lamenti dei gabbiani mentre rivoltano gli avanzi nei cassonetti
    che nessuno si preoccupa di svuotare.
    Gino, gabbiano vegano, mangia solo insalata e si lascia fotografare.
    Andrea, bambino tristemente strabico, lo osserva da lontano per paura che si spaventi.
    - Stai facendo un sacco di soldi a guardarmi, gli dice Gino ridendo come sa ridere un gabbiano.
    - Ma tu parli? – Sussurra avvicinandosi Andrea, dopo aver scansato tre foglie dentellate di rughetta.
    - Certo, ho questa sfortuna. Di questi tempi meglio stare zitti e mangiare vegano.
    Per un momento Andrea resta in silenzio davanti alla cosa buffa di un gabbiano che sa parlare, poi chiede: -
    Da dove vieni?
    - La metà di noi viene dal mare, gli altri sono nati e vissuti in città.
    - Migranti, siete migranti, un Andrea che guarda troppa tv, - dice.
    - Qualcosa di simile, ma per fortuna ci spostiamo con le nostre ali, amico, non abbiamo bisogno di
    gommoni.
    - Piacere, io sono Andrea, mi chiamo Andrea.
    - Io sono Gino - dice con sguardo amorevole e glorioso il gabbiano.
    - Vado a trovare mia madre in ospedale, all’isola Tiberina, ti ritrovo dopo? Gino?
    - E chi si muove, qui c’è cibo e acqua fresca.
    L’ospedale è a pochi metri, Andrea assapora l’odore delle scale fino al terzo piano. Andrea è timido e garbato, l’infermiera che gli fa interrompere l’imitazione dell’aspirapolvere è solo un ostacolo superabile tra lui e la mamma che continua a ridere tanto in quella stanza grigia d’ospedale, pure se le fischiano le orecchie per via dei troppi medicinali. “Questo è un reparto dove si soffre”, ha detto l’infermiera, e non sa che pure lui è uno che soffre se la mamma sta male. La notte, Andrea, si addormenta con la paura di addormentarsi per colpa di quel sogno ricorrente che lo perseguita da giorni, sente il rumore del carrello con tutta l’attrezzatura delle pulizie che la mamma spinge lungo il corridoio degli uffici, sente la sua voce melodiosa ripetere la ninna nanna che gli cantava da bambino, e quando prova a raggiungerla, inciampa e cade. Andrea oltre all’incarico di fare brutti sogni amministra la casa e tutti i soldi che la mamma ha lasciato nel cassetto. Per sicurezza ha spostato il gruzzolo sotto il grappolo di uva rossa finta, e lo sposterà ancora per paura di qualche furto.
    “Ho solo te figlio mio“, devi diventare grande e forte, gli ha detto la mamma prima del ricovero. Andrea si è sentito prima una nausea assoluta, poi, superata la paura, pieno di muscoli. Per trasportare la cassetta dell’acqua minerale ora gli basta una mano come il garzone dell’alimentari, prima ci volevano tutt’e due. Andrea ha gli occhi che sembrano due taglietti per quante volte piange, ma questo è un suo segreto oltre a quello di comprare di nascosto un gratta e vinci per far diventare ricca la mamma. La portiera, che non ci pensa su molto a trattarlo con finta severità quando attraversa il pavimento dell’androne con il fango panoramico della collinetta dove va a giocare, ora gli sorride. Solo i compagni di classe sono rimasti un ambaradan scadente confinati nelle loro battute, e Andrea marina la scuola non per cattiva condotta, ma solo perché non prova più gusto a frequentarli, né a viaggiare con loro in piedi sul bus della statale che per come si sta stretti non riesce nemmeno a soffiarsi il naso. Tutte le sue preoccupazioni diventano un po’ più leggere nei momenti in cui parla con le brave persone anziane che vanno alla Messa e che si sforza a guardare con affetto e gratitudine quando gli mollano la principesca somma di un santino.
    - Che hai sul maglione? Sembra cacca di uccello, - gli dice la mamma.
    - Niente, non è niente, è di un gabbiano che ho conosciuto, nemmeno puzza, - dice Andrea.
    Per nulla sorpresa la mamma accarezzandolo aggiunge: - Meglio un gabbiano che niente, figlio mio.
    Tornato ai cassonetti sul fiume, Andrea crede di riconoscere il suo amico, ma quello con un’alzata spavalda vola via. Sulla strada di casa si ferma al bar gastronomia del supermercato, dove c’è odore di cibo bollente. Compra supplì che fumano, poi si siede a un tavolino di alluminio tenendo in mano una bottiglietta di aranciata incominciata. Poco distante, una donna innaturale, con occhi troppo truccati e capelli troppo rossi, beve caffè e scrive su un taccuino spesso con copertina nera come quella dei vecchi quaderni che si usavano a scuola tanti anni fa. Andrea con lo spirito capovolto dalla tristezza per la salute della mamma e per non aver ritrovato il suo amico Gino, la guarda come si osserva un incidente. La donna toglie gli occhiali e sventolando il suo abito leggero, colorato, tipo da villeggiatura, per niente invernale, gli bussa sulla spalla destra.
    - Devo fare una telefonata, ho il cellulare scarico, ci sarà un telefono qui giovanotto? – dice.
    - Sì, vicino la toilette, - risponde Andrea, contento di rendersi utile per propaganda.
    - Lascio sul tavolo i miei appunti, se li tieni d’occhio mi fai un grande favore, - dice la donna.
    - Non faccio il posteggiatore di oggetti personali.
    - Ma che caratterino, ti insegnano questo a scuola?
    Andrea pensa che in fin dei conti la breve carriera di posteggiatore di effetti personali si può perdonare a
    chi l’ha chiamato giovanotto a dieci anni, e dice : - Va bene signora, ma si sbrighi.
    La donna, al suono di collane e bracciali d’argento, raggiunge l’abitacolo sgargiante di un vecchio telefono ammaccato a monete. Andrea avvicinando la sua sedia all’altro tavolo segna il pavimento di granito con il filo del supplì che gli scende da un dente. Per noia, perché la telefonata è lunga, non per curiosità, prova a leggere qualcosa sul taccuino e si rende subito conto che sono solo appunti, frasi mozze con l’aggiunta di scarabocchi, disegnini infantili. Prova l’impulso improvviso di aggiungere qualcosa e afferrata la bic sul tavolo disegna la mamma nel miglior modo possibile incorniciandola di lacrime vere a opera finita. Per tirarsi su di morale aggiunge sulla tela minimale un gabbiano in volo e ci scrive vicino: Gino.
    Al ritorno la donna con occhi sfondati di dolcezza gli chiede:
    - Cosa mi scrivi? Bello che sei Andrè, vuoi farti perdonare?
    Andrea con il viso porpora comincia a chiedersi come fa a conoscere il suo nome, poi rivolto a un pubblico
    che non esiste, e con una voce strana che non aveva mai sentito prima, dice:
    - Non le chiederò la mancia, c’era qualche disegno da correggere e ho corretto.
    - E io sono contenta se Andrea mi corregge i disegni delle favole.
    Ride, con portamento aristocratico, sottovoce.
    - Ma che favole sono? – chiede Andrea ormai entrato nel ruolo di fumettista.
    - Sono una scrittrice, scrivo favole per bambini, se vuoi… questa te la regalo.
    Ogni complimento è letale, sempre più rossastro Andrea si sporge in avanti, prova a accavallare le gambe e
    dopo aver fallito dice:
    - A me non serve una favola, le storie zuppe di animali, fatine grasse, gnomi, principi e principesse, sono
    inutili, ho troppi problemi per poterle leggere serenamente.
    E, con apparente distacco, manda giù un altro sorso d’aranciata.
    - Mi fai morire dal ridere, di fatine grasse non ne avevo mai sentito parlare. I personaggi delle mie
    favole sono reali, come quelli che incontri tutti i giorni quando non vai a scuola… la cassiera del bar, un
    fornaio, un dottore, un gabbiano.
    - Ecco mi servirebbe proprio un buon dottore, mi servirebbe una favola specializzata in medicina.
    - Stai così male?
    - Mamma è in ospedale, niente di grave mi hanno detto, ma io non ci credo, è un mese che sta lì e
    l’ospedale non può essere un passatempo, un buon dottore mi servirebbe per saperne di più.
    - Tu sei un bambino buono, continua a fare il bambino buono e le cose si aggiusteranno. Questa è la tua
    favola, ma se non la vuoi leggere perché ti scoccia farlo la terrò io.
    - Meglio, mi sentirei più stupido di questo stupido supermercato.
    Andrea ficca le mani in tasca e assume un’espressione drammatica, dolorosa.
    - Cos’hai, - chiede la donna preoccupata da quella passività, più che dall’improvviso silenzio.
    - Sto girando a vuoto come un mio amico gabbiano mentre dovrei essere vicino a mamma, ho lo stomaco
    come un cartoccio di castagne, bollenti e ammucchiate.
    - E tu mangiale le castagne, non le conservare dentro. Ride.
    Il forte dolore gli fa diventare la faccia lucida di sudore.
    - Devi smettere di mangiare come capita e di essere così tormentato, tua madre guarirà se guarisci tu,
    vuoi scommettere?
    La donna raccoglie le sue cose e si allontana smuovendo una polvere azzurrina, forse i rimasugli di uno
    scarico di merce, forse nebbiolina simbolica, pubblicitaria, artificiale, forse quella cosa che
    esiste nei libri delle favole e che accompagna tutte le magie buone.
    Rassegnato, ma non vinto, raggiunge la sua casa, si sdraia sul letto disfatto da giorni e si addormenta.
    Al mattino rifiuta di fare colazione da solo e senza rispettare l’orario di entrata si imbuca nel pronto
    soccorso nell’ospedale, raggiunge la stanza della mamma al terzo piano salendo per le scale per non farsi
    notare, entra e si rende conto che il letto è vuoto.
    In un angolo della camera, appesa a un sorriso, la mamma lo sta aspettando, vestita con l’abito bello,
    quello per uscire.
    - Me lo sentivo che saresti arrivato fuori orario, Andrè.
    - Uhm…sei una veggente.
    - La malattia è sparita, dicono i dottori per magia o per miracolo, e io stufa di quel pigiama mi sono vestita a
    festa, finalmente.
    Andrea osserva il pavimento, le pareti, la mamma. Tutto sembra mescolato con cura.
    - Ora si è messo a scrivere le favole l’amore mio?
    - Chi?
    - Tu.
    - Guarita dalla malattia si è ammalata la testa, mamma?
    - La tua amica con i capelli rossi, quella che sembra una fatina, è passata ieri sera
    con la tua magnifica fiaba illustrata. L’ho letta tutta di un fiato.
    Andrea non si meraviglia più di niente.
    Pure se.
    Sul davanzale della finestra c’è fisso lo sguardo di un gabbiano, simile a Gino.
    Pure se.
    Lui e la mamma.
    Tornano a casa.
    Mano nella mano.
  6. .
    L'ultima frase non ho fatto in tempo a leggerla, e quindi ho apprezzato il racconto nella sua forma revisionata.
    Il racconto è ben gestito e mi piace il modo delicato in cui mi presenti questo momento nella vita del tuo protagonista, questo approccio con la morte che non è solo una cosa "per vecchi".
    Sei stata anche brava a gestire i cambi di umore del bambino, un'improvvisa tristezza e poi di nuovo il buon umore, che è il modo in cui gestiscono le emozioni questi piccoli umani.
    Penso che tu sia pronta a buttarti in una competizione, hai la padronanza delle storie che racconti (ho letto anche altri tuoi pezzi, che poi piano piano commenterò).
    Riservati la possibilità di metterti in gioco, magari il prossimo step richiederà un genere che è nelle tue corde e nel quale ti senti sicura. E se anche non fosse così, vale sempre la pena buttarsi.
    Siamo puntigliosi, è vero, ma sappiamo ancora stupirci.
    A presto.
    Ele
  7. .
    Questo il link per votare, Triss
    https://scrittoripersempre.forumfree.it/?f=64762166
    apri una nuova discussione e ci metti i racconti che hai deciso di votare.
    Non ti preoccupare se vedi la tua discussione, il voto agli altri utenti rimane segreto fino a quando non hanno votato tutti gli aventi diritto ;)
  8. .
    Sabal mi aveva lanciato un ultimo sguardo prima di abbassare sugli occhi la mascherina. La sua capsula era passata a velocità ridotta davanti alla mia giusto in tempo per far incrociare i nostri sguardi. Si trattava di un giorno dispari e quelli del braccio Abram ci superavano di 1295 unità kilometriche, per cui erano loro a trovarsi più lontani dal Tunnel. Spero per lei che riesca a riposare un po'.

    ***


    Tutto era cominciato cinque evoluzioni prima, quando un gruppo di scienziati aveva individuato la Porta di accesso per la Contemplazione di Dio, la cosiddetta P.C.D. Era una galleria, un passaggio lungo ed oscuro che dalla Terra si spingeva verso il mondo dell’ultra-materiale.
    Alcuni terrestri avevano sperimentato l’esistenza del Tunnel durante l’assenza di vita momentanea, dalla durata variabile, ma comunque di un tempo sufficiente per avere coscienza e percezione. Questo era stato possibile perché anche in arresto cardiaco l’attività del cervello continuava ad essere ben organizzata e perfettamente funzionante.
    Alla fine di questo lunghissimo attraversamento, raccontavano di intravedeva una luce bianca, accecante, fortissima.
    Il ricordo e la consapevolezza che ne conservavano aveva convinto un nucleo specializzato di studiosi ad analizzare il fenomeno per cercare un approccio scientifico con cui affrontare l’argomento.
    La luce sembrava che per potenza fosse al di sopra di tutte le lunghezze d’onda messe insieme, per quantità e proporzioni era rapportabile solo a quella solare, ma di energia infinitamente superiore.
    Di una tale risorsa illimitata si era cercato, da subito, di individuare l’utilizzo, finalizzato a risolvere tutti i problemi energetici dell’intero pianeta. Non erano mancati certo gli obiettori che sostenevano la necessità di rispettare le questioni divine, a difesa dell’Ente Supremo.
    Ma la scienza e il progresso dovevano andare avanti.

    ***


    Ho conosciuto Sabal il primo giorno di ingresso in facoltà. Era piccola di statura, portava grandi occhiali sopra due profondi occhi neri. Teneva i capelli lunghissimi raccolti sulla nuca in uno stretto chignon. Indossava una tuta acetata bianca e verde, aderente.
    Eravamo entrambi fuori sede, non conoscevamo nessuno, per cui era nata tra noi una simpatia e un’istintiva solidarietà, sentimenti che i nostri colleghi sembravano non ricordare.
    Avevamo una preparazione di base molto simile, le stesse conoscenze matematiche e molti interessi in comune: la lettura e la musica. Eravamo amanti della letteratura antica, conservavamo ancora i testi cartacei di autori russi, di alcuni americani e di un francese.
    Ci incantava la musica classica, gli arpeggi coordinati e puliti di accordi semplici, ma anche la metal-energi-punk, più dura, meno armonica e più scoordinata. A me piaceva scrivere le parole e suonare la chitarra, quella a corde, ma anche ad ultrasuoni color regolabili.
    Sabal aveva una voce bellissima, limpida, per niente artefatta, né nasale né gutturale ma di cuore, come si diceva nel nostro gergo. Effettivamente per essere degli scienziati del trentunesimo secolo eravamo abbastanza particolari.
    Ci sentivamo come due anime sperdute in un mondo che andava troppo veloce per i nostri riflessi. I paesi da cui provenivamo avevano ritmi ormai superati, troppo lenti e considerati antichi per competere con una società ultra moderna.

    ***


    Avevano reclutato più di centocinquanta studenti della facoltà di Eliologia Comparata per realizzare un programma innovativo, sperimentale e di sicura efficacia.
    Erano state eseguite accurate ricerche per reclutare individui giovani e resistenti alla fatica. Le selezioni erano state condotte sulle cellule cerebrali di quanti erano capaci di stare per molto tempo in uno stato comatoso più vicino alla morte che alla vita.
    Attraverso elettroencefalogrammi simultanei, gli studiosi avevano visto che alcuni soggetti, con maggiore predisposizione e contemporaneamente ad altri, riuscivano anche in assenza di stimolazioni a vedere il Tunnel e la Luce.
    I mesi erano passati veloci, tutto era pronto ed era arrivato il momento di partire per studiare un fenomeno così straordinario.
    Era previsto l’utilizzo di capsule o navicelle spaziali, simili a piccole sfere monoposto, iperbariche, insonorizzate e resistenti alle alte e basse temperature.
    Dotate dell’essenziale ogni viaggiatore poteva portare alcuni oggetti personali per rendere più confortevole la permanenza spaziale non potendo prevedere i tempi necessari alla missione.
    Una chiusura ermetica rendeva l’ambiente comodo e sicuro. Le pareti, rigorosamente di materiale trasparente, erano grigio opache per un angusto spazio, quello necessario all’espulsione dei bisogni corporali e per i punti di contatto con la Base.
    Nella storia dell’Umanità era la prima volta che uomini e donne si accostavano e studiavano così da vicino la Fonte della Vita, l’Origine di tutte le cose.
    Dalle sofisticate navicelle gli osservatori avrebbero guardato con i loro occhi e gli immagazzinatori di energia avrebbero assorbito corpuscoli luminosi da inviare sulla Terra.
    La parte più complicata era stata la fase di dematerializzazione. Una dieta ferrea aveva preceduto il momento in cui le molecole erano state ridotte in particelle minuscole e scomposte per permettere l’entrata nella capsula senza subire danni emozionali.
    La delicatezza dell’operazione prevedeva la massima concentrazione per completare tutte le fasi: chiusura dell’involucro, lancio delle navicelle con espulsione alternata, aggancio al braccio orbitante nell’emisfero spaziale.
    Quando le navette si erano trovate in orbita, era stato possibile ai corpi di ritornare alla forma fisica originaria, prima che il processo potesse diventare irreversibile.

    ***


    La nostra amicizia cresceva di giorno in giorno. L’intesa era totale. Con lei potevo parlare di tutto, anche di sentimenti, senza provare vergogna. Mi spronava a scrivere canzoni ed io volevo che fosse lei a cantarle.
    Eravamo studenti esemplari, menti capaci di assorbire qualsiasi nozione ed in corso di apprendimento riuscivamo ad elaborare nuove idee. Ricordo quando dall’Università ci hanno comunicato che eravamo risultati idonei per una missione molto speciale. Le selezioni erano state durissime ma noi avevamo superato test di enorme difficoltà, finanche in meditazione rascetica con calcoli simultanei di accoppiamenti quantici avevamo avuto il massimo dei voti.
    Vedevamo il nostro futuro luminoso, ci aspettava un’esperienza unica che avrebbe marchiato per sempre le nostre vita. Partivamo per la P.C.D., attraverso il Tunnel per contemplare la luce di Dio. Potevamo portare con noi poche cose, la capsula in cui avremmo viaggiato era piccola ma dotata di ogni confort. Io avevo scelto di tenere con me una copia cartacea de I fratelli Karamazov e una serie di cdd tra cui c’era l’Adagio di Albinoni.

    ***


    La missione doveva essere sicura e di una durata limitata, il tempo necessario ai pannelli di immagazzinare e trasmettere più luce possibile alla Base. Per controllare e monitorare tutti i movimenti all’interno e all’esterno non era possibile utilizzare altri macchinari, per quanto precisi e sofisticati: dovevano essere gli occhi a registrare ogni cosa, perché l’uomo era la creatura più simile a Dio, l’unica a sua immagine e somiglianza.
    Dall’emozione e dal benessere iniziale i viaggiatori erano passati ad uno stadio di angoscia non percepibile sulla Terra, perché ciò che trasmetteva gioia e felicità incontenibili poteva causare un dolore e una sofferenza altrettanto insopportabili.

    All’inizio si pensava che la missione avesse una durata e un termine, ma quando il laser pulsante aveva annullato il processo di sintesi era stato chiaro che le capsule non sarebbero più tornate indietro.

    ***


    L’idea di essere immersi nella Fonte della Vita non mi lasciava nella pelle, mi riempiva di orgoglio di entusiasmo, di eccitazione, ma anche di timore.
    Sapevo che guardare Dio dalla propria condizione umana era ritenuta un’esperienza impossibile. Nessuno poteva farlo senza venirne schiacciato o accecato. Avevo letto le Sacre Scritture, dove si parlava di Trasfigurazione. “E mentre pregava il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”.
    Era il Cristo che aveva mutato le sembianze umane, la sua persona si era mostrata in uno splendore straordinario, stupefacente era il candore delle vesti, tale che lo sguardo umano non riusciva a sostenere.

    ***


    Erano inconsciamente destinati ad una contemplazione senza fine, all’eterno giorno, all’assenza della notte.

    ***


    All’inizio pensavo che la missione avesse un termine, adesso non lo so più. Siamo intrappolati come all’interno di una lampadina.
    Siamo ridotti a particelle corpuscolari pensanti, simili a fotoni che si autoalimentano, ognuno isolato nel proprio guscio, come una camera gestionale al contrario, in visione continua e perpetua della Luce senza possibilità di nascita. Il nostro utero è un involucro di vetro, sospeso nello spazio, proteso sul nulla.
    Non ho più legami con la terra, aspetto i giorni dispari per incontrare lo sguardo di Sabal che passa con la sua capsula vicino alla mia.
    Non ho bisogno di cibo, né di acqua, a volte penso che deve essere così quando si è morti: nulla è più necessario, ma io non sono morto. Anche con gli occhi chiusi la luce è troppo forte, non riesco a fare buio.
    Metto sulle palpebre, ormai arse e rosse perché secche e asciutte, la mascherina che ho in dotazione. Allora mi sembra di vedere quello che ho lasciato e che credo non potrò più riavere: il mare, l’interno di una grotta, un prato di girasoli, un uccello che vola, il bacio che ci siamo dati io e Sabal prima di partire. Ho paura che questa situazione non avrà mai fine, che io non vedrò mai la fine.




    “Amerai la luce perché ti mostrerà la strada, tuttavia sopporterai l’oscurità perché ti mostrerà le stelle.”
  9. .
    – Intelligente, ma non si applica. Così ha detto la professoressa – conclude mia madre. Una rapida occhiataccia di sbieco a me, poi torna a fissare mio padre.
    La disapprovazione scorre da lei a lui e infine mi schiaccia. Chino la testa, non riesco a sostenere quello sguardo. In un lampo mi appare l’espressione di disgusto che la professoressa mi elargisce con generosità, negli ultimi tempi.
    Già le cose non mi vanno troppo bene, la risata è davvero di troppo. Il mio fratellino. Si è goduto la scena e mi deride con impegno. Ride della mia umiliazione. È bravo in Tecniche di Umiliazione, e ci tiene a dimostrarlo. Mia madre lo ricompensa con una carezza e un sorriso pieno d’orgoglio.
    Mi alzo di scatto, do un calcio alla sedia, esco di corsa dalla cucina e mi rifugio nella mia camera. Sbatto la porta e sprofondo nel letto.
    La risata mi è rimasta inchiodata in mente. Insomma, che ne sa lui delle scuole superiori? È solo un bambino. A lezione di Desensibilizzazione vede addirittura solo filmati virtuali. Sparatorie, esplosioni, torture, massacri, tutto è finto. Il sangue non è ancora quello delle persone vere. Non fanno nemmeno Pesta il Verde, solo vivisezione su animali. E Criptocolonizzazione Planetaria nemmeno sa cos’è.
    Io non sono stupido. Intelligente, ma non si applica. Non è vero che non mi applico. Non che ci sia un gran bisogno di applicarsi, in Criptocolonizzazione Planetaria. Una volta capiti i principi di base, alla fine i problemi si assomigliano tutti.
    Sul pianeta X sono presenti grandi giacimenti del minerale Y, necessario per il miglior rendimento del prossimo comunicatore interstellare della multinazionale Z. Le caratteristiche storiche, sociali, economiche, culturali delle razze senzienti presenti sul pianeta X sono le seguenti (segue elenco delle razze e delle caratteristiche). Progetta un programma di sterminio reciproco tra le razze che permetta alla multinazionale Z, entro un periodo di due anni, di controllare l’economia del pianeta.
    Naturalmente il tutto è corredato dalle tabelle tecniche necessarie per effettuare i calcoli. Ma il mio problema non sono i calcoli o la progettazione. Li so fare i calcoli, anche bene, e nella mia testa il progetto si sviluppa con chiarezza. È quando devo andare a scrivere, che mi blocco. Non faccio apposta. Inizio senza esitazioni. Prima fase, seconda fase. Terza fase, scrivo, si prevede il massacro della razza A ad opera della razza B nel numero approssimato di unità tot mila… E qui mi blocco. Perché non vedo più i numeri, ma le facce, quelle dei filmati.
    A Desensibilizzazione guardiamo spesso le riprese fatte nelle aree di intervento. La classe ulula di entusiasmo e si torce dal ridere davanti allo spettacolo dei nativi che si scannano. Io, non so perché, non ce la faccio più.
    Anche a me una volta sembrava tutto divertente. Adesso no. Certo, rido. Ho imparato a farlo bene, per fortuna, così nessuno si accorge di niente.
    Deve esserci qualcosa che non va, in me. Che sia un problema di crescita? Mai avuto difficoltà a scuola, prima. Forse avrei dovuto dirlo a qualcuno. Agli insegnanti, ai miei genitori. Magari mi avrebbero solo dato qualche farmaco per rimettermi a posto, ma ho avuto paura di finire in una di quelle Scuole Speciali. Così sono stato zitto. Con gli altri ragazzi, prima di tutto. Ci vuole un attimo a diventare quello “strano”.
    Non posso nemmeno dare la colpa alla scuola. I miei sono ottimi professori, loro non c’entrano.
    Non so cosa è successo.
    No. Sto mentendo. Forse invece sì, lo so. Almeno credo. Alcuni mesi fa. È stato qualcosa nell’espressione del Verde, qualcosa nel modo in cui tremava, raggomitolato a terra, o negli occhi stretti per il dolore e la paura. O forse la lacrima. Strano, perché non mi aveva mai dato fastidio prima.
    So che il nome ufficiale della materia è Desensibilizzazione Pratica, ma a tutti piace chiamarla Pesta il Verde. Alla fine della lezione portano via il Verde per rappezzarlo, poi passano a pulire. Si fa sempre un sacco di sporco a Pesta il Verde, soprattutto sangue, a volte anche roba più schifosa, dipende da dove viene colpito e da quanta paura ha. Dobbiamo colpirlo, forte quanto ci pare, ma entro il limite della sopravvivenza. Insomma, ferite o fratture vanno bene, ma meglio non accopparlo in fretta. I Verdi devono durare un po’, non possono sostituirli sempre, sono un costo per la scuola. All’Università no, so che lì non ci sono limiti di costi e ricambi, anzi, e non usano solo Verdi.
    All’inizio ho provato a non fare tanto caso alla faccenda, ho sperato che passasse. Invece no. Addirittura è peggiorata. Perfino andare giù a guardare i Verdi nelle gabbie ha iniziato a darmi fastidio. Pesta il Verde è diventata un bel problema, non solo perché è un’attività di gruppo e tutti vedono quello che fai. Questa è una materia fondamentale: il mio rendimento è calato parecchio negli ultimi mesi, non potevo rischiare brutti voti anche qui. Mi sono dovuto davvero applicare, così ho sviluppato qualche buon trucco: in pratica, molta scena e poca sostanza. Non è stato subito facile, poi sono diventato sempre più bravo. Finora non se n’è accorto nessuno, credo. Solo il Verde, forse.
    Certo, non potevo sperare di passarla liscia anche nelle altre materie. Comunque, l’insufficienza in Criptocolonizzazione Planetaria è l’ultimo dei miei problemi, a questo punto.
    Ieri notte ho aperto le gabbie dei Verdi e li ho guidati fuori dal recinto della scuola.
    Temo proprio che non verrò promosso, quest’anno.
  10. .
    Il suo amore per me sembrava un esperimento.
    Mi spiego meglio.
    All’epoca, oltre a frequentare un paio di corsi virtuali facilitati, lavoravo in una piccola libreria, un bar più che libreria, dove non c’erano testi importanti, né vini importanti, c’era solo un recinto di amichevoli buone voci e l’aroma di caffè. Conoscendo la mia passione per la lettura i clienti più generosi avevano cominciato a lasciare un libro come mancia e poco a poco i libri impilati avevano coperto un terzo della superficie sbiadita del pavimento. La voce si era diffusa e anche a imposte chiuse qualcuno veniva a portare il suo contributo all’unica biblioteca estemporanea e gratuita della città, bastava infilarlo nella cassetta esterna con sopra la scritta essenziale: il tuo libro qui.
    Una sera, ché l’orario di chiusura non esisteva proprio, sento dei colpi sulla saracinesca per metà abbassata, mi inchino e vedo un lembo di quello che sembra un pigiama che non spiega un bel niente, solo che spunta da un cappotto femminile.
    - Non so come tu la pensi, - dice la proprietaria del pigiama afferrando con brutale rapidità la mano libera dal panino con cui stavo cenando.
    - Puoi spiegarti meglio, - dico semi infastidito.
    - In questo che sembra un rifugio quanti libri distribuisci?
    - Tanto per cominciare io non distribuisco un bel nulla, - dico da dietro la grata con la sfrontatezza di un pesce in scatola. Il suo modo di comunicare è stravagante, le parole sono accompagnate da una gestualità esagerata e dopo ogni gesto appare un sorriso raggiante. I suoi capelli all’indietro spettinati e spugnosi ricordano lontanamente il pelo di una barboncina rossiccia infilata nel tunnel del vento.
    -Vuoi entrare? - Dico distraendomi con l’acrobazia di un ragno sulla saracinesca fresca di vernice color carne. Mentre l’ellisse della sua ombra mi circonda sento il respiro accelerato di chi prova a nascondersi dietro il polpaccio di ferro di una grata. Pure lei ha paura.
    -Ti faccio entrare, - ripeto, per non far somigliare quel colloquio a un castigo infinito.
    - No vado via, sono convinta che tu sia particolarmente impegnato, - dice.
    - A fare nulla, sì, - dico e sorrido.
    Avevo improvvisamente in mente di riuscire a trattenerla e nessuno al mondo sarebbe riuscito a farmi cambiare idea.
    Accendo tutto il neon possibile e sparita tutta la semioscurità interna alzo la saracinesca. Quando entra sento l’intensità del suo profumo in ordine decrescente di latte scaduto, funghi di bosco, cipolline. La faccio accomodare su una sedia di alluminio vicino a un tavolo di alluminio. Io resto in piedi a osservare la sua fronte spaziosa, l’attaccatura delle sopracciglia, la testa ovale, i suoi occhi viola.
    Si toglie il cappotto. Quello che sembrava un pigiama è una tuta spaziale che copre un corpo malnutrito, o solo acerbo. Le scarpe sono delle buffe appendici infiocchettate.
    – Bevi un sorso di questo, - dico. Poi ne parliamo.
    E lei beve senza sapere cosa, mentre la luce fredda del neon ne illumina la fronte. Nel frattempo cerco di riordinare i libri accatastandoli uno sull’altro per farmi spazio accanto a lei. Inconsapevolmente creo una stanza di libri tra i libri, tutto diventa fatto di pagine: il soffitto, le pareti, il pavimento, la luce, l’aria.
    – Se volevi restare solo con me non c’era bisogno di tutta questa fatica, - dice e ride.
    Adesso è lei a osservarmi, il panorama sono io con una mano in tasca per l’imbarazzo.
    - Perché sei qui, - dico, osservando il muschio delle copertine dei vecchi libri, unico a restare intatto nella
    stanza.
    - Faccio il diavolo a quattro per essere qui, mi piace la vostra terra.
    - Se ti intendi di diavoli vieni da molto lontano, - dico e rido.
    - Mi intendo di viaggi spaziali, ho avuto uno strano incidente, per capire di più dove mi trovavo sono entrata
    in questo posto e ho preso un libro per informarmi.
    - Solo un libro?
    - Solo un libro: Bel Ami. – Ci somigli, sei tu? E questa è Parigi?
    Stando al gioco rispondo: - Sì, sono io, ma non so dirti se sia proprio Parigi. Rido. Segue la mia manovra per raggiungere l’arsenale alcolico del bar e agguantare l’aggiunta di qualcosa di forte. I suoi occhi viola si stringono sonnacchiosi e felici come quelli di un cartone animato mentre mi accendo una sigaretta.
    - Me lo sentivo che eri tu, -Georges, mio caro Georges.
    Ha tutta l’aria di essere irrimediabilmente pazza, poi penso che è troppo garbata per essere pazza e forse è solo delicatamente brilla, lo testimonia il suo sguardo ora perso nel vuoto come quello di un lanciatore di frisbee.
    Alle 3 del mattino promette di mostrarmi la sua astronave. Usciamo dal bar e prendiamo la direzione del quartiere abbandonato senza nessuna cautela superando al buio muri e macerie come due campioni di parkour. Alle spalle del bosco di eucalipti l’apparizione luminosa di quella che sembra l’apparecchiatura bianca di una TAC adagiata sullo scolo di un canale. Resisto alla tentazione di una risata e chiedo:
    - Questa è la tua astronave?
    - Sì, si sta riparando.
    - Da sola?
    - Da sola.
    - Siete in molti da queste parti?
    - Migliaia, ma non ci conosciamo, né riconosciamo.
    -Quindi sei sola?
    - Sola soletta.
    Mi sembra di essere tornato ai vecchi tempi, quando corteggiavo le strangers a Piazza di Spagna, ho la stessa tonalità di voce per dimostrarmi buono e affidabile e meno pezzente possibile.
    - Cosa pensi di fare?
    - Per ora aspetto, aspetto e basta. Non ho altre alternative, altre possibilità per riprendere la mia rotta. Non sono stata capace di prevedere la tempesta. Hai mai sentito parlare di substorm? Gli elettroni che acquistano velocità quando sono vicini alla vostra Terra possono essere mortali per qualsiasi viaggiatore planetario, e io mi sono trovata lungo il percorso a ritroso delle particelle.
    - In teoria potevi morire.
    - Potevo.
    - Sono perplesso, non posso credere che un’astronave si ripari da sola.
    - Tu hai presente il sistema con cui le ferite si rimarginano? La riparazione funziona così, come le cellule del tuo corpo che si riuniscono. Nessuno potrà garantirmi che la mia astronave sarà sana, ma se riparte, ripartirò.
    - Come capirai se è a posto?
    - Hai presente quando la demenza ha la meglio sul tuo cervello e tutto diventa scolorito e confuso? Ora la mente dell’astronave è così, quando ritroverà luce e colori sarà a posto e i suoi due emisferi cerebrali diversamente specializzati ritroveranno la loro efficienza totale.
    - Pazzesco, ma ti credo, la tua astronave è straordinaria e tu donna pallida e misteriosa sei formidabile nel comandare un aggeggio simile.
    - Non troppo formidabile se sono qui non è per passatempo. Ride.
    Il giorno dopo lei è ancora convinta che io sia Georges. Incremento quella idea con affascinante distacco interpretando bene la mia parte. Una passeggiata sul davanzale del Tevere sotto l’ombra di platani curvi di foglie durante una breve chiusura del bar diventa testimone oculare del nostro primo bacio e di tutta l’emozione che lo accompagna. Il suo timore improvviso per quella sensazione forte la fa apparire buffa, diversa, manovrata, ma non le fa perdere punti. Confortata dalle mie parole gentili e dal mio abbraccio parla a voce alta della sua astronave come quando si parla a un soffio dal banco di un bambino, con tono dolce e dottrinale che tutti possano sentire. Evitando di rappresentare nella mia mente una sua partenza penso che se per una ragazza l’innamoramento può avere una cadenza mensile misurata dal sanguinamento della sua vagina, il mio non poteva avere una tempistica precisa e poteva benissimo essere unico e solitario per tutta la vita. Morivo dal dubbio, anzi più speranza che dubbio, che un’aliena non avesse sanguinamento preciso e che anche il suo amore potesse essere infinito. Se qualcuno crede che fossi io a tirare i fili si sbaglia. Ovviamente mi si sarebbe spezzato il cuore a vederla andar via, ma era la macchina a decidere, a comandare, a farle prendere i rischi di una vita diversa da quella pattuita sul suo pianeta.
    L’astronave non si aggiustò, lo fece apposta. Penso.
    Per chi sa a malapena della mia esistenza posso aggiungere che la mia esistenza continuò a essere la stessa, pure con qualche turbamento per il futuro: apertura del bar alle sette, graffiti romantici sul tetto dei cappuccini per le signore, brioche calde a ripetizione, caffè bollente irresistibile, controllo della fila alla cassa dove una cassiera con lo smalto color menta, i capelli rossi da barboncina e gli occhi viola faceva i conti senza bisogno di consultare le somme, sostenuta in ogni azione dal suo hobby per Georges che la osservava con un amorevole sguardo terrestre.

    Edited by mangal - 2/1/2017, 18:00
  11. .
    CITAZIONE (tommasino2 @ 17/11/2016, 16:07) 
    Ci sono molte imprecisioni e se lo affermo io è tutto dire.
    I numerosi complimenti ti arrivano perché non sei in concorso, autore.
    Altrimenti sarebbe stata altra storia.
    Un vero racconto breve, forse troppo per INK, ma io l'avrei fatto partecipare lo stesso.
    Per far capire all'autore che è bravo, non infallibile.

    Ho trovato il tuo commento davvero eccessivo.
    Non dico altro.
  12. .
    Rintocchi coi piedi
    dondolando il tempo
    sulla punta delle unghie.
    Mastichi, sorridi,
    cammini. Vivi.
    Giri i sogni -stretti-
    in una cartina lunga.
    Li accendi tu
    passando il giro
    e respirando forte.
    Senza mani.
    Ti svuoti e riparti.
    Capelli, occhi
    e un fiore nuovo
    che ti sboccia in testa.
    Non dimentichi
    non muori.
    Sei nel mondo come un chicco
    e vorresti essere pannocchia.
    Gialla - e gonfia di sole.
  13. .
    CITAZIONE (Achillu @ 20/11/2016, 20:10) 
    CITAZIONE (vivonic @ 9/11/2016, 18:34) 
    Gli Autori regolarmente in gara avranno tempo per votare fino alle ore 24 del 22 c.m., contrariamente a quanto precedentemente annunciato. Questo proprio per permettere tutti i controlli del caso ed evitare situazioni al limite.
    Ricordiamo che chi non dovesse esprimere il proprio voto (ma siamo sicuri che ciò non accadrà) sarà purtroppo squalificato e il suo racconto ridotto a zero punti.
    Buon divertimento, e per qualsiasi cosa... Siamo qui! :)

    C'è scritto tutto, tranne come si esprime il voto. O sbaglio? Si può avere una anticipazione su come votare, per favore?

    Si esprime il voto indicando i 5 racconti scelti in ordine di preferenza, aprendo un post nell'area di voto che verrà aperta domani in mattinata :)
  14. .
    Mi lascio circondare dalla scena che mi racconti, dal momento che mi descrivi, incasellato perfettamente in un contorno ben delineato con poche pennellate.
    Mi tieni celate molte cose, ma allo stesso tempo mi dai gli strumenti per capirle (o inventarle, perché no?) da sola.
    Il racconto ha un bel ritmo, bei dettagli, dialoghi scorrevoli.
    Bellissime le immagini che riesci a regalarmi.
    Piaciuto, tanto.
    Brav.
    Ele
  15. .
    Buongiorno a tutti.
    Siamo veramente felici del vostro entusiasmo per questo nostro nuovo concorso, e la vostra partecipazione ci scalda il cuore.

    Siete tanti e siete attivi, ma vi chiediamo di prestare attenzione a 2 punti essenziali per arrivare alla fine del concorso senza nessuna esclusione dei racconti attualmente in gara.

    Anonimato
    Va mantenuto, fino alla fine del concorso e fino a quando non verranno pubblicati i risultati delle votazioni. Nel post della classifica saranno indicati tutti gli autori, e a quel punto avrete via libera per rispondere a critiche, elogi e via dicendo. Abbiate pazienza fino ad allora. Chi dovesse violare l'anonimato verrà squalificato.

    Commenti

    Di seguito, per chiarire, una parte del punto 8 del regolamento: “Tutti i partecipanti dovranno, pena l’esclusione, commentare tutti i racconti in gara con una critica costruttiva o un elogio motivato.”
    Queste sono le linee guida per i commenti. I commenti che non presenteranno queste caratteristiche verranno considerati nulli.
    E ci teniamo ad aggiungere che sì, ognuno ha il proprio metro di giudizio, ma gli errori, quando ci sono, è opportuno farli notare. Non per denigrare l'autrice/autore, ma per aiutarlo/a a crescere.

    Grazie a tutti, come sempre.

    Lo staff
146 replies since 30/12/2011
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