Scrittori per sempre

Votes taken by mangal

  1. .
    ave, popolo votante di sps.
    come avrete potuto notare, il racconto "Il destino nella sabbia" di Renata Rusca Zargar, è stato ritirato dal concorso su sua richiesta.
    ora, premesso che ovviamente ognuno è libero di scegliere il proprio modo di agire, sarebbe bello portare rispetto agli altri partecipanti.
    mi spiego meglio: è capitato pure a me di volermi ritirare da un concorso e, di conseguenza, l'ho comunicato. sia privatamente che pubblicamente.
    non ho aspettato che mi chiedessero come mai non mi facevo più vedere, avrei mancato di rispetto a tutti gli altri.

    ecco, scusate lo sfogo, se potete e, a questo punto, se qualcuno ha votato il racconto ritirato, dovrebbe cortesemente rettificare il proprio voto, togliendolo e inserendo una nuova classifica.
    grazie, e scusate ancora.

    Edited by mangal - 26/3/2020, 16:33
  2. .
    CITAZIONE (frase @ 28/2/2020, 16:48) 
    Grazie,Mangal. Ho letto la tua recensione:bella per davvero.

    come belli sono i tuoi epitaffi
  3. .
    CITAZIONE (frase @ 27/2/2020, 18:35) 
    LAPIDE DI YASIR, scafista

    Tutt’intorno silenzio
    buio, vermi e terra brulicante.
    Mi stanno mangiando l’anima e ho più male che se mi
    [mangiassero il corpo.
    La mia vita continua così
    tra i morsi degli spazzini del mare
    e le grida dei morti che non mi lasciano neppure un istante.



    Richiedo, amichevolmente, qualche recensione su amazon. Grazie

    fatto
  4. .
    Riposava all’ombra di un albero, la schiena appoggiata al tronco. Una leggera brezza muoveva le foglie lasciando passare piccoli lampi di sole che colpivano i suoi occhi. Riposava, lo sguardo perso nel vuoto e il vento leggero che giocava con i suoi capelli. Davanti a lui animali al pascolo, uccelli in volo e nuvole, veloci, che solcavano il cielo spinte dal vento. Aveva mangiato qualche frutto dell’albero, un po’ di bacche da un cespuglio vicino e bevuto l’acqua del ruscello che scorreva poco più in là. Tutto era quiete e nel silenzio di quel pomeriggio assolato si sentiva solo il cinguettio degli uccelli nascosti fra le foglie, il rumore leggero del vento fra i rami e lo scorrere dell’acqua poco lontano. Gli occhi, le palpebre, si fecero pesanti, si stava addormentando, ma proprio quando il sonno si era quasi del tutto impadronito di lui eccola, improvvisa, una fitta al petto.
    Aprì gli occhi di colpo e sollevò la schiena dal tronco.

    - Ehi, cosa stai facendo?
    - Cosa? Io?
    - Sì, tu. Chi, se no?
    - Niente, perché?
    - Come niente? Ho sentito una fitta fortissima qui al torace, guarda, esce anche un po’ di sangue.
    - E va beh, e io cosa c’entro?
    - Come cosa c’entri? Siamo solo io e te, qui.
    - E allora?
    - E allora? Allora voglio sapere cosa cercavi di fare.
    - Ma niente, dai. Una stupidata.
    - Una stupidata? Mi esce sangue dal petto. Stavi cercando di uccidermi?
    - Ma no, figurati. Perché mai dovrei ucciderti?
    - E allora?
    - Stavo cercando di prenderti una costola.
    - Una costola?
    - Sì, una costola.
    - E perché volevi prendermi una costola?
    - Perché volevo fare una compagna per te.
    - Una compagna?
    - Sì, una compagna. Insomma, sei sempre qui, annoiato, tutto il giorno a fare niente, appoggiato a questo albero, lo sguardo perso nel vuoto. Pensavo che avere una compagna potesse farti piacere.
    - Guarda che sto benissimo, non mi sto annoiando, e poi perché una costola? Per fare me hai usato terra, sputo, fango. Cosa te ne fai di una costola, e mia, per giunta. Se proprio vuoi farmi una compagna falla come hai fatto me. E poi, scusa, chi ti ha chiesto niente. Cioè, prima di prendermi una costola potresti anche interpellarmi, chiedermi che ne penso, eccheccazzo! Uno si sveglia la mattina e: dai, perché non facciamo una compagna per quello sfigato? Con cosa la facciamo? Prendiamogli una costola! E perché non un osso della gamba? O il cranio! Anche l’anca andrebbe bene. Ma sì, disossiamolo un po’, quell’invertebrato! Una costola! Maccavoli, si vuol sapere cosa ti passa per la testa?
    - Proprio non capisci! Uso una tua costola così poi lei diventa carne della tua carne, ossa delle tue ossa. Ti appartiene, capito? È parte di te! Dipende da te. Sotto di te. Tua!
    - Macchilavuole. Ma chi ti ha chiesto niente. Io non voglio nessuna compagna, nessuna responsabilità, nessuna bestia che dipenda da me. Guardati intorno. Guarda! Fra tutti gli animali che hai creato ti pare che ne abbia addestrato anche solo uno? Via, liberi di pascolare, di fare quel cavolo che hanno voglia. Perché dovrei volere qualcuno da addomesticare, di cui dovermi occupare, preoccupare? Facciamo così, se proprio vuoi fare un’altra statuina falla pure, va bene? Ma non con la mia costola! Vai, prendi il fango, sputaci e alitaci addosso, giocaci quanto c’hai voglia, ma non coinvolgermi. Non voglio saperne niente. Ci siamo capiti?
    - Va bene, va bene, non c’è bisogno d’incazzarsi. Poi però non venire chiedere...
    - Tranquillo che non vengo a chiederti niente.
    - Sicuro? La tua ultima parola?
    - La mia ultima parola. E non provare mai più a disossarmi.
    - Va bene. Va bene. Ma…
    - Addio!
    - Come vuoi tu. Io allora…
    - Addio, addio!
    - Okay, io vado. Ah, a proposito degli animali, come va con quella cosa dei nomi?
    - Addio!
    - No, va beh, era solo…
    - ADDIO!
    - Addio!

    Lo guardò allontanarsi, mesto, il passo incerto, poi lo vide fermarsi indeciso, voltarsi un attimo, accennare…

    - Addio!

    E lo seguì con lo sguardo fino a che non lo vide sparire dietro la linea dell’orizzonte.

    - Addio!

    Forse era stato un po’ duro, ma in qualsiasi caso non si fa così. Va bene, era stato lui a crearlo, ma cosa vuol dire. Mica l’aveva chiesto lui di venire al mondo e poi, cos’è, solo perché mi hai creato non è che poi mi puoi fare a pezzi.

    - No, caro mio, non riuscirai a farmi sentire in colpa.

    Perso nei suoi pensieri piano piano si assopì. Sbadiglio, sonno, buio.
    Buonanotte.
    Si risvegliò ore dopo al suono di una risata. D’istinto portò subito la mano al costato. Nessun dolore, nessuna ferita, tutto a posto, almeno così pareva. Poco distante, sotto un albero simile al suo, c’era del movimento.

    - Bruzufolo! Tralicante. Pirullo! Tu pabrabico! E tu Zimifluo. Arasturico. Bru!

    Per ogni nome una risata, la stessa che lo aveva svegliato. A ogni nome un animale si avvicinava e poi se ne andava trotterellando contento. Una risata, un nome, un animale e in mezzo a tutto lei, voce squillante e risate.

    - Si vuol sapere cosa sta succedendo?
    - Sta dando i nomi agli animali.
    - Chi sta dando i nomi agli animali?
    - La nuova creatura!
    - Ma ero io che dovevo dare i nomi agli animali. Era compito mio.
    - Ah sì? E chi lo ha deciso?
    - Come chi lo ha deciso? È ovvio. Scontato. L’ho deciso io. In fondo io sono…
    - Tu sei?
    - PREPUZIO!

    E subito la risata e lei, che lo indica da lontano.

    - Prepuzio? Come si permette? GUARDA CHE IL MIO NOME LO DECIDO IO, HAI CAPITO! Questo è troppo. Ma chi si crede di essere. Ora gliela faccio vedere io a quella!
    - È venuta bene, vero?
    - Come?
    - No, dico, è venuta bene, vero? Terra e fango, come hai detto tu. Non so se l’hai notato, ma ho fatto qualche modifica rispetto al progetto originale.
    - Modifica?
    - Ma sì, piccole modifiche. Per esempio ho tolto la proboscide lì davanti. Ero indeciso se sostituirla con qualcos’altro, ma nell’incertezza ho lasciato un buco. Il fango che ho tolto l’ho piazzato un po’ qua e un po’ là, sopra il petto. Non male, vero? Hai notato le curve e l’aerodinamica? Dopo aver creato te qualche correzione era necessaria. Ho anche aumentato il numero di neuroni dentro la testa. Ho pensato che forse due erano pochi così ne ho aggiunto qualche decina di miliardi. Che ne dici?
    - Mi ha chiamato Prepuzio!
    - Cosa?
    - Mi ha chiamato Prepuzio!
    - Beh, cosa c’è che non va con Prepuzio? Non è male come nome. Ha un che di esotico.
    - Prepuzio. Come ha potuto.
    - Senti, cerca di calmarti, non è poi così...
    - Prepuzio.
    - Si, ho capito, ti ha chiamato Prepuzio.
    - Prep…
    - Ebbasta! Va beh che hai solo due neuroni, ma non esageriamo! Avrei dovuto dartene di più, lo so, ma non avevo più fango, mi spiace, l’ho usato per la proboscide, un errore di calcolo.
    - Prepuzio.

    Prepuzio si lasciò cadere ai piedi dell’albero e nascose il volto fra le ginocchia. Era sconsolato. Un piccolo movimento attirò la sua attenzione. Un insetto! Un insetto stava camminando vicino ai suoi piedi. Ebbe un sussulto.

    - FORMICA!

    Prepuzio si mise a urlare indicando il piccolo insetto. FORMICA! FORMICA! FORMICA! L’animaletto si levò in volo spaventato e andò a rifugiarsi sotto l’altro albero, appoggiandosi sulla spalla di lei che lo accarezzò con gentilezza.

    - Coccinicchia!

    Sorrise e guardò Prepuzio dritto negli occhi.
    I loro sguardi si incrociarono per un attimo e Prepuzio si sentì esplodere il cuore nel petto. Subito tornò a rannicchiarsi, il volto nascosto, e si mise a piangere. Toccava a lui dare il nome agli animali, non a lei. Come si era permessa. Non è giusto! E che nomi! Pirullo, Zimifluo, Arasturico, Bru! Quelli che aveva pensato lui erano più belli: cavallo, cane, mucca, pecora, capra, solo che non aveva avuto ancora il tempo di dirli, li aveva lì, sulla punta della lingua, e quella, quella arriva e…
    Non è così che si fa! Pirullo, Zimifluo, Arasturico. Checcavolo di nomi!

    - I MIEI SONO PIÙ BELLI, HAI CAPITO! Gatto, piccione, coniglio, leon…

    Oh, cazzo, eccolo ancora lì a fissarlo.

    - Si vuol sapere cosa vuoi? Vattene! Vai da quella là, che vediamo checcavolo di nome è capace di darti!
    Lei sorrise da lontano:

    - SMICIUFLONE!

    E lo smiciuflone andò da lei, si lasciò carezzare sotto il mento e poi le diede una tenera leccata sul volto.
    A quel punto Prepuzio si alzò infuriato e se ne andò.
    Basta, quando è troppo è troppo!
    Camminò per ore, sotto il sole a picco, quando trovò un albero ancora più bello. Era enorme, verde, carico di frutti. Gli era venuta fame. Ne raccolse un paio e se li mangiò subito. Come erano dolci! Si stese poi all’ombra dei rami. Aveva bisogno di riposare, riposare e pensare.
    Si addormentò
    e fece sogni strani.
    Si svegliò all’improvviso con un fortissimo dolore al costato.

    - Ancora? Ma porca miseria pensavo che…

    Aprì gli occhi e un pugno lo colpì in pieno volto, poi calci sul fianco, una ginocchiata sullo stomaco.

    - TI AVEVO DETTO DI NON MANGIARE I FRUTTI DELL’ALBERO!

    E ancora botte.

    - TI AVEVO DETTO DI NON…
    - Ehi, basta, si vuol sapere che ti prende?
    - TI AVEVO DETTO DI NON MANGIARE I FRUTTI DELL’ALBERO!
    - Tu non mi hai detto un bel cazzo di niente.
    - TI AVEVO DETTO DI NON… Come? Come non ti ho detto niente?
    - Non mi hai detto niente, cazzo! E smettila di colpirmi, mi stai facendo male!
    - Opporcatroia. Ero sicuro di avertelo detto. Cristo!
    - E adesso chi è ‘sto Cristo?
    - No, niente, un progetto a cui sto lavorando, ma lo farò più avanti, ora non ho tempo. Porca puttana, ecco, lo vedi? È tutta colpa tua. Avevo già preparato tutto. Ti prendevo la costola, facevo una compagna per te, carne della tua carne, ossa delle tue ossa, poi vi dicevo di non mangiare del frutto dell’albero, poi arrivava il sericante che vi…
    - Il sericosa?
    - Il sericante. Lei lo ha chiamato così. Insomma, quella roba lì che striscia. Avevo organizzato tutto e poi tu e la tua cazzo di costola! Hai mandato tutto all’aria. Non doveva andare così. Ora ti devo punire.
    - Come mi devi punire?
    - Ti devo punire. Hai mangiato il frutto proibito! Guarda, ho già pronto il discorso. Cavolo, dove l’ho messo? Ah, eccolo: moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito…, ecco, vedi, qui ora devo correggerlo, allora, verso tua moglie sarà il tuo istinto, ma lei ti dominerà!
    - No, scusa, di cosa stai parlando?
    - È scritto qui, guarda. E c’è anche scritto che devo scacciarti dal giardino.
    - Come scacciarmi dal giardino?
    - Ti devo scacciare. Hai mangiato il frutto proibito quindi devo scacciarti.
    - Ma non sapevo che era proibito. Non è colpa mia. È colpa di quella là. Se non si fosse messa a dare i nomi agli animali io ora me ne stavo ancora tranquillo all’ombra del mio albero. Senti, non possiamo sistemare le cose? Dai. Non potresti chiudere un occhio? Alla fin fine tu sei il creatore. Come hai creato puoi distruggere. Senti, facciamo così, tu la distruggi e io ti lascio prendere una mia costola. Eh? Dai, chiudi un occhio! Che ne dici? Così ne fai una come vuoi tu, carne della mia carne, ossa delle mie e bla bla bla.
    - Vade retro satana! Non mi tentare! Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tua moglie sarà il tuo istinto, ma lei ti dominerà.
    - Aridaje! Io non partorirò un bel cavolo di niente. È proprio una questione meccanica! Non mi hai creato per partorire. Guarda, manca la via d’uscita.
    - Uova?
    - Come?
    - Potresti fare le uova.
    - Senti, non scherziamo, io non partorisco e non faccio uova, punto e basta.
    - Okay, allora eiaculerai con dolore. E verso tua moglie sarà il tuo istinto e lei ti dominerà! Prendere o lasciare!
    - Merda.
    - Se no le uova.
    - Okay, accetto!
    - E cerca di essere gentile con lei.
    - Va bene.
    - E servizievole.
    - Okay.
    - E sottomesso.
    - HO CAPITO! Mammamia che rompico…

    Gli arrivò un altro pugno in faccia che gli fece perdere i sensi facendolo crollare a terra tramortito. Si risvegliò al suono di una risata e con un dolore fortissimo, ma non era alla testa e nemmeno al costato o allo stomaco. Era più in basso, all’altezza…
    Aprì gli occhi e la prima cosa che vide era lei, a cavalcioni sopra di lui, che si muoveva in modo frenetico, scossa da spasmi, convulsioni e che ansimando cominciò a parlargli:

    - Ti sei svegliato! Era ora. Temevo non ti saresti più ripreso.
    - Quanto ho dormito?
    - Dormito? Eri svenuto, in coma profondo! Sei rimasto incosciente per non so quanti anni.
    - Anni? Cosa stai dicendo? Ahi! Vuoi smetterla di muoverti. Mi stai facendo male!
    - Male? Ma se è bellissimo. Non smetterei mai.
    - Non è bellissimo. Fa male, un male boia.
    - Pensavo ti piacesse. Mentre te lo facevo che eri svenuto gemevi dal piacere.
    - Non è piacere. È dolore!

    Uno fremito scosse il corpo di lei mentre un’altra fitta fortissima colpì il basso ventre di Prepuzio.

    - Ahhh, basta! TI PREGO!

    E in quel momento gli vennero in mente le parole del creatore: “Eiaculerai con dolore!” Eccheddolore!
    Lei rise, poi si lasciò scivolare stesa al suo fianco. La risata. L’aveva quasi dimenticata. Era bellissima! Lo eccitava. Lei prese da una scodella una foglia rinsecchita, la sbriciolò e avvolse i frammenti in un’altra foglia verde per poi accenderla con un bastoncino che raccolse da un fuoco acceso lì a fianco.

    - Che stai facendo?
    - Mi fumo una sigaretta!
    - E quello cos’è?
    - Quello? Il fuoco. Oh, santo cielo, ma non sai proprio niente! Senti, mentre te ne stavi lì bello tranquillo in coma a far niente io mi sono data da fare. Ho scoperto il fuoco, la ruota, il ferro, ho costruito una casa, ho partorito, per primi due gemelli, Caino e Adele, e poi non ricordo più nemmeno io quanti altri figli. Ho imparato a lavorare la terra, a costruire oggetti con la creta. Lo sai che se fai sciogliere la sabbia con il fuoco puoi costruire degli oggetti bellissimi, trasparenti? E lo stesso con il ferro.
    - Aspetta, aspetta. Hai partorito due gemelli e poi altri figli?
    - Sì. E come ovvio tu sei il padre.

    In quel momento si rese conto di non essere più sotto l’albero, quello dei frutti proibiti. Sopra di lui un tetto, sotto una pelle morbida, calda, di animale, adagiata sul pavimento di legno e a fianco, in un camino di pietra, il fuoco.

    - Dove sono?
    - A casa! Dove vuoi essere?
    - E l’albero? Il giardino?
    - L’albero e il giardino? Con l’albero ho costruito la casa e per quanto riguarda il giardino, beh, siamo proprio al centro.
    - Ma lui aveva detto che mi avrebbe cacciato.
    - Sì, lo so, lo ha detto anche a me, ma alla fine l’ho convinto e se ne è andato lui.
    - L’hai convinto? E come hai fatto?
    - L’ho minacciato! Gli ho detto che se non la smetteva di fare il guardone lo dicevo a sua moglie e allora se ne è andato.
    - E i gemelli?
    - Adele è da qualche parte nel giardino. Starà partorendo. È la quarta volta da quando è nata. Caino è sparito da un po’ di tempo. Non facevano che litigare.
    - No, no, aspetta. Partorendo? Siamo nonni?
    - Nonni? Forse anche bisnonni. Ho perso il conto. C’è un villaggio qui tutto intorno a noi. A proposito, ora che sei sveglio, ci sarebbe da portare fuori l’immondizia. È il giorno dell’umido. E quando torni preparati, che ho voglia, ho tanta voglia.
    - Ancora? Ma io ho un po’ di mal di testa, nausea, non mi sento bene.
    - Oh, non ti preoccupare, tu non devi far niente, faccio tutto io.

    E ancora la risata, bellissima, con il potere di scioglierlo, addolcirlo, eccitarlo.

    - Dai, su, veloce, porta fuori l’immondizia che poi ci divertiamo.

    Lui uscì e si guardò intorno. Fuori c’erano altre case, in legno, come la sua. Da alcune provenivano urla, gemiti e risate. I gemiti erano di piacere, le urla di dolore e le risate, quelle risate! Si guardò per un attimo indietro e poi cominciò a correre, più veloce che poteva, nella foresta, fino a che le voci, le urla e le risate sparirono del tutto. Cominciò a correre e di lui non si seppe più niente.
    Il creatore tornò a farsi vivo. Le urla, le risate, i gemiti, non ne poteva più. Non riusciva a concentrarsi. Era un continuo, notte e giorno, insopportabili! Aveva minacciato il diluvio universale, un’invasione di locuste, carestie, siccità, aveva anche dettato dei comandamenti che potessero mettere un freno a quella lussuria. Aveva scritto per dieci volte “Non commettere atti impuri”, ma niente. Tutte le volte quelle creature maledette lo cacciavano via in malo modo, si prendevano gioco di lui, lo provocavano, gli davano dell’impotente, lui, l’onnipotente. Era arrivato a convincere il povero Abramo a sacrificare per lui il figlio. Voleva dimostrare a quelle creature chi era a comandare, ma quando la moglie di Abramo lo scoprì picchiò a morte il marito e ne bruciò il corpo sull’altare.

    - Volevi un sacrificio umano? Eccotelo!

    Per ultimo minacciò di bruciare le intere città di Sodoma e Gomorra. Prima di agire aveva avvisato Lot e sua moglie, una tenera coppia di vecchietti.

    - Andate, salvatevi almeno voi e non voltatevi indietro o diverrete statue di sale!

    Ma quando la moglie di Lot capì quali erano le sue vere intenzioni si voltò e gli mostrò il dito medio per poi tornare in città maledendolo in tutte le lingue del mondo. Il marito rimase di sale mentre gli abitanti di Sodoma e Gomorra diedero vita alla più grande orgia che si fosse mai vista nella storia.
    Fu la goccia che fece traboccare il vaso e così il creatore se ne andò.
    Passarono anni, secoli. Il regno di Egitto, sotto Cleopatra, aveva conquistato tutte le terre conosciute e ancora non aveva intenzione di fermarsi. Non c’era stato bisogno di guerre o campagne militari, perché bastavano la serenità e prosperità che lei riusciva a dare a tutti i sudditi. I prepuzi venivano trattati con riguardo, fonte di godimento e necessari per la riproduzione, ed erano considerati quasi alla pari del resto delle creature.
    Del creatore nessuno sentiva la mancanza e questa, questa era la cosa che più lo mandava in bestia:

    - Dopo tutto quello che ho fatto per voi questa è la vostra riconoscenza? Maledetti. Ora rimetterò le cose a posto. Manderò mio figlio e vedrete, vedrete se non vi sistemo una volta per tutte.

    Fu così che decise di inviare un suo angelo a parlare con Maria, una giovanissima creatura ancora vergine.

    -Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso il creatore. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Cleopatra, regnerà per sempre e il suo regno non avrà fine.
    - Come è possibile? Non conosco prepuzio.
    - Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Nulla è impossibile a Dio.

    Allora Maria disse:

    - Senti un po’, bello. Non so cos’ha in mente il tuo creatore, ma non ho certo bisogno di lui per mettere al mondo un figlio e non ho nessuna intenzione di rinunciare ai piaceri della vita per i suoi stupidi progetti, chiaro?
    - Ma sarai la madre di colui che regnerà in eterno!
    - Un prepuzio re? Non farmi ridere.
    - Si sacrificherà per le vostre colpe, le vostre iniquità. Morirà per voi, risorgerà.
    - Quindi io sarei la prescelta dal creatore per mettere al mondo un figlio che soffrirà e si sacrificherà per quali nostre colpe non si sa, e non solo, per metterlo al mondo, oltre a tutto, dovrei anche rinunciare ai piaceri del sesso? Ma per chi mi avete preso? Per scema? Ma si vuol sapere che problemi ha il tuo padrone? Che cos’ha contro la nostra felicità? Contro il piacere? Ma per cosa cazzo ci ha creati a fare? Proprio non lo capisco! Sembra quasi che gli stia sui coglioni che noi siamo felici! A meno che, oddio, non è che è un po’ invidioso? Dai, toglimi una curiosità, ma lui? E tu? Fatti un po’ vedere! Ossantocielo! Non avevo mai visto una proboscide così!

    Maria si avvicinò all’angelo.
    Risate, gemiti e urla.
    Il creatore subito guardò giù. Quello che vide avrebbe fatto impallidire tutti gli atti impuri di Sodoma e Gomorra messi insieme. Non aveva mai visto niente del genere e come ipnotizzato non riusciva a staccare lo sguardo da loro.
    Fu solo allora che Maria lo vide
    gli sorrise
    e gli mostrò, con un pizzico di tenerezza, il dito medio.
    Il creatore si sentì trascinare via per le orecchie. Era la moglie.

    - Eccoti qua, pervertito! Ancora a fare il guardone con le statuine? Ma non ti vergogni? Ma vuoi lasciarle in pace? Dai su, vieni subito a casa che c’è da portare fuori l’immondizia, e poi preparati che ho una voglia!

    E rimase solo l’eco di una risata.

    Edited by mangal - 26/2/2020, 18:47
  5. .
    Ucraina, 29 settembre 1941

    Il C.S.I.R. era stato costituito in fretta e furia all’inizio di luglio e messo a disposizione dell’undicesima armata tedesca sul fronte sud, lungo il fiume Dnestr.
    Mi ritrovai nel mio vecchio reggimento, il 79° Roma inquadrato nella divisione Pasubio, e all’inizio di luglio fummo inviati, attraverso sterminati campi di grano, solcati da torrenti gonfi d’acqua bruna, che si alternavano a colline colorate dai girasole, nel ventre del gigante eurasiatico.
    Sulla strada non incontrammo altro che villaggi abbandonati e dati alle fiamme e colonne di civili in fuga dai combattimenti: tuttavia bastarono quelle poche settimane per farmi perdere le ultime illusioni sulla necessità del regime e ogni residua fiducia sulla lucidità del duce.
    Già in agosto il C.S.I.R. aveva affrontato le prime dure battaglie con le retroguardie dell’Armata Rossa, sul fiume Bug, in luoghi dai nomi impronunciabili: Wosnessensk, Pokrovskoje, Yasna Poliana.
    Ne uscimmo duramente provati, e io compresi che i tedeschi non avrebbero vinto così facilmente come tutti fino a quel momento avevano creduto e sperato, e come ci avevano raccontato alla partenza dall’Italia.
    Capii, dopo averli affrontati, che i russi avrebbero combattuto sino alla fine, senza mai arrendersi, che la Blitzkrieg nazista con loro non avrebbe funzionato.

    Non molto tempo dopo il mio arrivo, in un villaggio nei pressi di Kiev, mi trovavo al comando del mio battaglione, in attesa di ordini dal comando di reggimento, ai bordi della strada maestra, quando passarono alcune GAZ M1 requisite con su le insegne da Gruppenführer der SS, scortate da diverse motociclette.
    Dopo avermi oltrepassato l’auto al centro si fermò bloccando il corteo, e dall’interno qualcuno uscì una mano facendomi segno di avvicinarmi.
    Mi accostai al finestrino e riconobbi Manfredi Chiaramonte; da anni non avevo sue notizie, l’amico con cui avevo condiviso gran parte della mia giovinezza, dai tempi della scuola fino all’università, e poi il servizio militare fino alla campagna d’Abissinia.
    «Ludovico Velez» esclamò lui, quasi per nulla sorpreso di trovarmi lì, a migliaia di chilometri da casa.
    Mi presentò i suoi camerati: « Questo è il Gruppenführer Otto Rasch» disse orgoglioso, stringendo la spalla dell’ufficiale generale.
    Il braccio destro di Heydrich a Berlino, seppi poi.
    «E questo lo Sturmbannführer della LHA Sigfrid Baumann.»
    Scattai sull’attenti e feci il saluto militare.
    «Mi sembra proprio impossibile» aggiunse sorridente, nel suo italiano che sapeva ormai di tedesco.
    «Ananke ci fa rincontrare a diecimila chilometri dall’ultima battaglia! Quanti anni sono trascorsi?» Mi domandò, come se fosse davvero lieto del nostro incontro.
    Indossava la divisa nero e argento delle SS, con le spalline di Standartenführer e le mostrine con i colori di un reggimento che non seppi identificare, ma su cui spiccavano due lettere che avevo imparato a temere:SD.
    «Manfredi...» balbettai, stupito non tanto di trovarlo lì, quanto con quella compagnia altolocata. «Sono passati quasi sei anni. Allora era vero quel che si diceva…»
    Mi osservò incuriosito, aspettando che continuassi.
    «Sei passato al nemico...» provai con una battuta aspra.
    Senza riuscire a celare tutto il mio livore dietro quel sarcasmo.
    Un desolante ghigno spezzò la bocca di Manfredi e ritrovai quel sorriso indecifrabile che avevo imparato a conoscere sin da ragazzo, e che più di una volta mi aveva turbato.
    «Attention» mi sussurrò. «Mon ami comprend très bien l’italien» e con un cenno della testa indicò il Gruppenführer seduto al suo fianco.
    Uscì dall’auto e mi prese sottobraccio iniziando una passeggiata. come se fossimo in via del Corso a Roma invece che in una strada devastata di un villaggio ormai ridotto a un’unica rovina fumante.
    In lontananza, a oriente, si intravedevano le cupole dorate della cattedrale di Kiev, mentre stormi di Stukas e di Messerschmitt ruggivano sopra le nostre teste, numerosi come nugoli di mosche sopra una carogna, carichi di bombe da sganciare sulla prossima preda oltre il Dnepr.
    «Kiev è caduta e presto toccherà al resto dell’Ucraina...» m’informò, senza mostrare alcuna emozione. «La guerra procede nel migliore dei modi per noi.»
    Poi s’illanguidì, cambiò tono.
    «Non nutro rancore nei tuoi confronti. È trascorsa una vita e migliaia di chilometri da ciò che avvenne in Africa. Tra non molto questa guerra terminerà e il Nuovo Ordine, che da ragazzi avevamo desiderato e sognato, nascerà; e durerà per secoli.»
    Mi fermai, infastidito. E sfuggii alla sua stretta. «Il nuovo ordine» ripetei, con una sfumatura di sarcasmo.
    «Non ricordi? La nostra speranza era che tutto questo avvenisse il prima possibile. Dovresti gioirne, e invece leggo sgomento nei tuoi occhi» mi rimproverò.
    Scrutai Manfredi, gli occhi azzurri e limpidi, il viso asciutto e quasi senza espressione, l’assenza apparente di sentimenti; ed ebbi la certezza che per lui nulla fosse cambiato dai tempi della campagna d’Africa e che, anzi, si fosse rafforzato quel modo di pensare, di vedere il mondo e di sentire la vita. E provai nuovamente quella strana malinconia, quella profonda tristezza, quell’inquietudine priva di contorni, che avevo sperimentato al ritorno dal Corno d’Africa.
    «Questo è il nuovo ordine per te?»
    E allargai le braccia, come un Cristo in croce, a indicare le macerie tutt’intorno a noi, i cadaveri dei mugik abbandonati sulla strada e ridotti a una massa informe dai cingolati dei panzer.
    «Non ancora... lo ammetto, ma ci sto lavorando... personalmente» mi rivelò.
    E mi parve raggiante. «Presto tutta la zona sarà Judenfrei. E poi toccherà ai bolscevichi e agli zingari, e poi ancora a tutte le razze inferiori...»
    Rabbrividii e provai un senso di nausea. Tentai di irrigidire il ventre per evitare di rimettere l’unico pasto di due giorni.
    E ricordai quella sera lontana, nella piana del Gebat, tra Makallé e Addis Abeba.
    «E alla fine della giostra toccherà agli italiani? Perché solo alcuni tra voi stabiliscono, di volta in volta, quali siano le razze inferiori e quali le categorie da eliminare.»
    «Ti ripeto di stare attento, Ludovico» mi mise in guardia con un tono che non ammetteva repliche.
    «Sei rimasto il solito sentimentale, un siciliano incapace di costruire il futuro e persino di interpretarlo. Proprio non riesci a cogliere il bene e le opportunità di questa situazione? Come fai a esser tanto ottuso da non afferrare i lati positivi di una tale complessa, grandiosa, opera d’ingegneria sociale?»
    E mi fece cenno di aspettare. Tornò all’auto, scambiò due battute con Rasch, ed ebbi l’impressione che dei due fosse lui quello a dare ordini; poi si allontanò, non senza l’immancabile saluto al Führer.
    «Come sei riuscito a salire tanto in alto, Manfredi? A far allontanare un Gruppenführer con un cenno?»
    Gli uscì un sorriso compiaciuto, quasi una smorfia. «I galloni si conquistano sul campo» si limitò a spiegare.
    «E tu non cogli l’inutilità di questa immane carneficina, dove a ciascuno è concesso di dar sfogo all’illimitato spettro delle proprie pulsioni? Tutto cambierà, è vero, ma in peggio» dissi, facendo ricorso a tutta la mia risolutezza.
    «Le vite umane non sono che un dettaglio insignificante nell’immensità del progetto» rispose. «Ho fatto fucilare miei ufficiali per aver detto meno» ruggì, d’improvviso feroce: ma subito sorrise e si ammorbidì. «Dopo ogni vittoria, sai bene, è necessaria la pulizia. Vieni con me, dimentichiamo la guerra per oggi: ti voglio portare in un luogo dove ti potrai rilassare e metter da parte la fatica di questi giorni... uno dei vantaggi di essere uno SS Standartenführer

    Era un bordello quel vantaggio.
    Come ce n’erano tanti al seguito degli eserciti, come era sempre stato e come sempre sarà, per rilassare i corpi e rigenerare il morale, per sostituire la stanchezza con un miserevole sfogo di pulsioni sessuali.
    Tante ragazze giovani, molte probabilmente neanche maggiorenni.
    Ma al contrario delle prostitute dei bordelli che avevo frequentato fino al quel momento, quelle non lo sembravano affatto, piuttosto ragazze di buona famiglia, appena uscite da un collegio o da una casa borghese, con ancora addosso i loro vestiti migliori.
    E quegli sguardi tristi tradivano l’umiliazione per ciò che erano costrette a subire e, soprattutto, la paura per ciò che le attendeva alla fine del loro turno di lavoro “volontario” per il Reich.
    «Questa è la nostra Frau Honecker, SS Hauptsturmführer» ci presentò Manfredi, in francese, accennando anche alla nostra amicizia di vecchia data.
    «Ha qualche novità interessante per me?» Le domandò, questa volta in tedesco. «E qualche dolce ragazza slava per il mio amico capitano... può rimanere tutta la notte, se vuole» aggiunse.
    La Frau annuì e sorrise accompagnandomi al piano di sopra.
    Entrai in una stanzetta spoglia con un letto disfatto appoggiato al muro, la carta da parati verde ormai sudicia, e una finestra coi vetri rotti affacciata sulla strada.
    «Was bist du?» tu cosa sei, mi chiese la ragazza in tedesco, svestendosi e rimanendo nuda, come se obbedisse a un ordine e non le rimanesse altro da fare.
    «Ich bin italianer, je suis un pauvre italien, copriti ti prego» precisai in francese, porgendole una vestaglia.
    «Anche voi qui?» si meravigliò lei. «Ma perché siete qui? Perché non rimanete nelle vostre belle città? Perché venite qui, a ucciderci? Cosa sperate di ottenere?» mi rimproverò aspra, facendomi morire dentro.
    «Pourqoui c’est necessaire» mormorai, cercando di confortare me stesso più che lei, cercando di dare una risposta a me più che tentare di spiegare a lei.
    «Quel est vôtre nom?» le domandai.
    «Mi chiamo Natasha... fino a tre settimane fa studiavo violino al conservatorio, prima che arrivassero i tedeschi a spazzare via le nostre vite» mi sussurrò, come se se ne vergognasse. «Mi hanno presa in un campo di granturco una settimana fa, mentre tentavo di fuggire, insieme ad altre ragazze ebree come me. Mi hanno convinta a servire in questo bordello militare in cambio della libertà. Mi hanno promesso che alla fine del servizio riabbraccerò la mia famiglia... che loro sono tutti in salvo in un campo di lavoro. Solo tre settimane di servizio mi hanno garantito. È buffo... una settimana fa non conoscevo gli uomini; adesso devo servirne cinque l’ora per diciotto ore, ogni giorno.»
    La osservai... sembrava ancora una bambina Natasha, con la pelle diafana di chi non vede il sole da troppo tempo e dita lunghe e sottili usurate dalle corde del violino; occhi tristi e gentili, ardenti per l’intensa stanchezza e la paura, la silenziosa disperazione che nasce dall’incertezza del proprio futuro.
    «Il suo amico è un uomo importante, sa» mi rivelò Natasha. «Ha una terribile fama. Anche i generali della Wehrmacht chinano il capo davanti a lui. Ma lei... pare così diverso. Vraiment vous étiez amis?»
    «Oui, dans une autre vie» in un altro mondo, risposi.
    Mi avvicinai e le offrii una sigaretta.
    Natasha fumò voluttuosamente le pessime Milit italiane tagliate con lino e segatura, fumò come se quella fosse la prima sigaretta della sua vita... o forse l’ultima.
    «Tous les italiens sont aussi gentils avec les filles?» mormorò Natasha, con l’improvviso cambio d’umore che hanno i condannati a morte, quando un’improvvisa, incredibile, buona notizia riaccende una sopita speranza.
    «Tutti gli italiani sono gentili. Gli italiani non sono cattivi» risposi. «Comme les russes.»
    Natasha si mise a piangere, singhiozzando lentamente, tenui accordi di viola in chiave di sol.
    E infine lo chiese.
    Era la domanda che valeva una vita.
    L’unica domanda ad avere importanza.
    «Credi che manterranno la parola? Che ci faranno andar via senza farci del male?»
    «Perché non dovrebbero?» risposi sfiorandole il viso, ma mi resi conto di stare mentendo. «I tedeschi mantengono sempre la parola. Riprenderai a suonare il violino e diventerai una grande concertista, non temere» la incoraggiai, con la morte nel cuore.
    Si addormentò, esausta com’era, mentre le carezzavo dolcemente i lunghi capelli biondi.
    Poi, era quasi l’alba, afferrai la giacca e andai via.
    «Herr Prinz Manfred» mi fermò frau Honecker nel suo tedesco dall’inflessione sassone, quindi balbettò in francese. «Le ha lasciato un biglietto e mi ha pregato di dirle che la verrà a prendere domani alle cinque. Si faccia trovare davanti al comando del suo reggimento. I suoi superiori saranno avvisati. La prega di essere puntuale» terminò, sfoderando un magnifico sorriso, come se il luogo in cui si trovava fosse il più normale del mondo e la sua una onorata professione.

    Non ci sono monumenti su Babi Yar. Un burrone ripido come rozza pietra tombale…
    Babi Yar, E.Evtushenko

    Partimmo all’alba, su di una kubelwagen, diretti ad un luogo chiamato dagli ucraini

    Babi Yar


    Manfredi mi pareva contento, come se stesse andando a un picnic, e rammentava i vecchi tempi, le gite al mare da ragazzi, gli anni dell’università a Torino, il servizio militare, l’addestramento nella Milizia a Sora.
    «Porti ancora l’ouroboros di Ananke» osservai, per sfuggire a quei ricordi.
    «Ogni cosa nasce, muore e poi ritorna» replicò lui, e mi mostrò l’anello, all’anulare della sinistra, come una fede nuziale.
    «Il serpente si avvolge al tempo, e tutto ritorna, unità nella diversità» osservò. «Accompagna la mia famiglia fin dal regno di Ruggero... una storia che ritorna sempre uguale: guerre, massacri, pace e poi ancora guerre» aggiunse, con una sorta di compiaciuta malinconia.
    «Forse si può spezzare» azzardai. «È possibile spezzare la catena. Si possono non ripetere sempre gli stessi errori.»
    «Può darsi» ammise, con mia sorpresa. «Ho sempre seguito Ananke, non mi sono mai opposto a lei, come invece tenti ancora tu. Per questo sei qui con me» e mi sorrise. «Tu vedrai e capirai: poi cambierai il nostro destino».
    «Vedere? Cambiare...» balbettai.
    «Vedrai ciò che nessun italiano ha mai visto, prima di te. E, alla fine, comprenderai.»
    Rabbrividii. «Dove stiamo andando?»
    «Il nome non ti dirà nulla. È solo un luogo anonimo, dietro il cimitero di Kiev. Là aspettano gli uomini del mio Sonderkommando
    «Sonderkommando?» chiesi.
    «Girano voci in Europa... da anni. Le menzogne che le coprono nascondono la realtà. Il nazionalsocialismo ha fatto grandi passi in avanti, ma continua ad aver paura delle parole e nasconde le sue stesse azioni, la sua stessa essenza; come se la verità fosse troppo orribile per essere rivelata, troppo cruda per essere raccontata. Ci costringono a nasconderci... bugie, depistaggi, verità dette a metà o dette al contrario.
    Oggi avrai l’opportunità di guardare la realtà in faccia, senza veli» aggiunse, e diede ordine allo staffiere di partire.
    Babi Yar era come una ferita sul terreno piatto, come un contorto letto di un fiume privo d’acqua che attraversava la periferia occidentale fradicia di pioggia.
    Migliaia di civili erano in fila sulla strada, scortati e sorvegliati dai collaborazionisti ucraini, da giorni avevano avuto l’ordine di recarsi in quel luogo con i propri mezzi, tirandosi dietro lo stretto necessario,
    «Cosa sta succedendo?» domandai, con voce rotta, quasi gemendo. «Dove stanno portando questa gente? Sono civili... donne, vecchi, bambini.»
    «Non sono propriamente persone... sono ebrei, zingari. E bolscevichi: funzionari del partito comunista, commissari politici, con le loro famiglie. A questo servono gli Einsatzgruppen. A eliminare i nemici del popolo tedesco.»
    «Ma quali nemici... vedo solo donne, bambini, neonati!» protestai sbigottito.
    Non riuscivo a credere a quello spettacolo, a quel che accadeva.
    Manfredi si avvicinò a un gruppo di SS, che lo salutarono saltando sull’attenti e alzando il braccio.
    Puzzavano di alcool ed erano visibilmente fuori di testa, le mani lorde di sangue e le divise cosparse di resti umani.
    Il fetore della morte avvolgeva ogni cosa, come le grida di uomini e donne disperati condotti a una morte orrenda insieme a tutti i membri delle loro famiglie.
    «Siedi» mi ordinò Manfredi, e mi porse un trespolo di legno.
    Vomitò dei secchi ordini in tedesco che non compresi.
    Un centinaio di donne, alcune giovanissime, altre vecchie, molte madri con i figli stretti al seno, si avvicinarono.
    I collaborazionisti ucraini urlarono loro qualcosa e le donne poggiarono a terra i pochi bagagli e piangendo iniziarono a togliersi gli abiti di dosso.
    Alcune esitavano, ancora per pudore o bloccate dalla paura, e venivano massacrate con i calci dei fucili, i ventri aperti con le baionette, per incitare le altre a sbrigarsi, a correre senza perder tempo verso il luogo prescelto per la loro morte.
    E i neonati, li lanciarono in aria facendo il tiro al bersaglio con le loro Schmeisser.
    Poi, in un tripudio di follia, in mezzo a urla, spari, voci disumane, tutte vennero fatte scendere nel fosso.
    Manfredi scese con alcune di loro, quasi confortandole, come un lupo che lecchi l’agnello prima di saltargli al collo.
    E una volta giù estrasse la Lüger semiautomatica, sistemò le donne in file di tre e sparò loro al capo.
    Un colpo ogni tre teste.
    E poi ancora e ancora e ancora, fin quando la pistola non si scaricò.
    «Un vero toccasana per l’economia del Reich!» esultò.«Ventuno inumani con nove colpi.»
    Non ci vidi più. L’orrore superò ogni argine e mi costrinse ad agire.
    Afferrai la pistola d’ordinanza e scesi nel fosso, intenzionato a uccidere Manfredi e a morire con lui. Ma non feci molta strada che due SS mi ghermirono alle spalle e mi disarmarono.
    «Sei un inguaribile sentimentale» rise Manfredi. «Tuttavia mi hai dimostrato di non essere un vigliacco, come tutti i siciliani.»
    «Dovevo ucciderti quel giorno nella piana del Gebat!» gli urlai in faccia, con tutta la rabbia di cui ero capace. «Dovevi morire tu, non gli altri uomini della colonna Diamanti! Io ti dovevo uccidere!»
    «Ma non l’hai fatto» mi disse, e si avvicinò mentre tentavo di divincolarmi dalla stretta dei suoi sgherri.
    Il suo viso aveva un’espressione dolce e mi carezzò, come aveva fatto con i suoi ebrei.
    Poi aggiunse: «In quei giorni del trentasei ho compreso tante cose. E tante altre sono venute dopo, girovagando per quest’immenso braciere che è l’Europa. In Spagna, in Polonia, in Francia, qui in Russia. Adesso sono io che posso uccidere te, quando voglio, come credo. E potrò farlo sempre, perché io ho capito. Io ho visto Ananke in faccia.»
    «E allora uccidimi, che aspetti!» gli gridai contro, dando fondo a tutto l’odio che avevo dentro.
    «Non ti ucciderò» e mi abbracciò.
    Mi trascinò lontano da quel massacro, lontano dai suoi uomini trasformati in mostri disumani, e il suo sguardo mi sembrò che si fosse addolcito.
    «Se vuoi porre fine a questo macello un modo c’è» mi confidò, cambiando tono, come se mi parlasse per la prima volta.
    Ed ebbi l’impressione che i suoi occhi si riempissero dell’antica luce mediterranea fatta di Misura.
    Ci avvicinammo alla kubelwagen, mentre non distante continuava a regnare l'orrore.
    «Ma dovrai esser pronto a sacrificare ogni cosa» mi rivelò. «In cambio di milioni, decine di milioni di vite: non esiste altra via. Babi Yar non è che l'inizio, Ludovico.»
    La sua voce si era fatta sottile, come se stesse pregando.
    «Continua» lo esortai, cercando di reprimere la diffidenza e il disgusto nei suoi confronti.
    «Ho numerose amicizie all’interno dell’OKH» mi rivelò. «A fine agosto doveva avvenire una visita alle truppe del Duce e del Führer: dovevano visitare le retrovie, non lontano da Uman’. L’incontro invece avverrà domani, qui a Kiev. Insieme faranno visita al Savoia Cavalleria, a reparti della Legione Tagliamento e della LHA; insieme conferiranno delle onorificenze.»
    «Non capisco» balbettai, provando a farmi coraggio.
    «Diversi esponenti dell’Alto Comando sono sicuri di andare incontro a una rovinosa disfatta; più volte, negli anni passati, hanno provato a eliminare il Führer per dare vita un putsch. E con un governo militare porre fine al conflitto. Ma ogni volta i tentativi non si sono concretizzati.»
    Mi afferrò per le spalle e mi guardò dritto negli occhi.
    «Questa è la volta buona!» disse, con entusiasmo. Pensa quante vite potranno essere risparmiate.»
    «Immagino che avrai un posto d’onore nel nuovo governo...» dissi, aspro.
    Cercavo ancora di capire quali fossero le sue reali intenzioni.
    «Non chiedo nulla per me» fece, e, questa volta, mi parve sincero.
    «E Goëring, il tuo Himmler? Non sono addirittura peggio di Hitler?»
    «Possiamo contare sulla fedeltà di molte divisioni dell’esercito. Disarmeremo le SS non appena giungerà notizia della morte del Führer» mi confidò.
    Aprì il bagagliaio dell’auto e prese in mano una boccetta cilindrica, di vetro trasparente.
    Svitò il coperchio e mi fece annusare il liquido incolore.
    «Sembra acqua» mormorai. «Ti stai prendendo gioco di me?»
    Avvitò il coperchio. «Basta premere col pollice qui, è il detonatore, con forza, e il gioco è fatto.»
    Si avvicinò a una fossa piena di cadaveri e lo lanciò dentro. L’esplosione fu devastante.
    La strage si fermò per un attimo, e poi riprese, come se nulla fosse accaduto.
    Manfredi si avvicinò di nuovo.
    «È un esplosivo sperimentale. Molto compatto e potente, quanto una granata da 81 per farti capire. Sono riuscito a inserire il tuo nome nella lista degli ufficiali che verranno decorati, Ludovico. Ti dovrà esser conferita la croce di ferro di prima classe: e faremo in modo che sia il Führer in persona ad appuntartela al petto.»
    «Le sue guardie del corpo mi perquisiranno» obiettai.
    «Ti leveranno solo l’arma. Invece terrai la boccetta nella tasca della giubba, insieme alla mano, che fingeremo offesa. Se le troveranno dirai che si tratta di un tonico per l’endocardite contratta al fronte. Non ti faranno storie.»
    «Dunque mi chiedi di sacrificare la mia vita...»
    «No, Ludovico. Io ti sto supplicando; per cambiare la Storia, il Mondo... Non sospetteranno di te, e quando Hitler si avvicinerà…»
    «Per cambiare la Storia» ripetei.
    E adagiò, tra le mie mani giunte, un’altra boccetta. Sul coperchio c’era una scritta che mi parve in inglese e una sigla: Astrolite A.
    Babi Yar

    Edited by mangal - 26/2/2020, 19:00
  6. .
    CITAZIONE (therealnecromancer @ 24/2/2020, 12:27) 
    Inviato 😎
    Buona lettura a tutti

    ottimo
    tornerò a trovarti con Ruben
  7. .
    CITAZIONE (frase @ 9/2/2020, 18:10) 
    SCHEGGIA DELLA BOMBA INTELLIGENTE
    (dimenticata tra le lapidi e gli epigrammi)

    Mi staccai da un corpo che più stupido non si può
    [immaginare.
    Roteai, impazzita, sibilando per gridare il mio disappunto
    ma in quel bailamme di bagliori e rumori nessuno ascoltò
    [la mia voce
    e mi ritrovai a recidere la gola di Musad.
    Giaccio tra pietre insanguinate e scorie di morte.

    devo dire che tutte quelle che hai pubblicato lasciano il segno, colpiscono
    complimenti
  8. .
    ciao, Wiki.
    sai, ieri era san Biagio, patrono del mio paese, ed era anche il terzo giorno di baldoria consecutivo.
    d'altronde... sabato per i giovani, domenica per tutti, lunedì per gli over, come me.
    beh, stando agli organizzatori non doveva esserci quasi nessuno e invece non abbiam trovato un buco per sederci finché una compagnia di buon cuore ci ha accolti.
    porca eva, 500 persone di lunedì sera non le immaginavo proprio.
    fammi un pirletto, per piacere, ne ho voglia.
  9. .

    a-ogni-turnada


    immagine

  10. .
    beh, paradossalmente (ma neanche tanto, me l'aspettavo) da quando ho più tempo scrivo molto meno
    in ogni caso, tengo da parecchio sul comodino una penna e un quaderno.
    mi sono venuti utili più volte, di notte.
    e poi, boh, quando arriva qualcosa cerco di annotarlo o ricordarlo
  11. .
    CITAZIONE (Achillu @ 11/1/2020, 20:11) 
    Cin! Direi rosso ottimo.

    Grazie Man

    è toscano, garantisce Wiki, che se ne intende
    Vini-Toscani-3
  12. .
    gioventù bruciata
    ma bruciata tanto, eh
  13. .
    CITAZIONE (bucaneve88 @ 1/1/2020, 23:37) 
    Ciao, Man. Scusa la franchezza, ma ti preferisco poeta dialettale: qui ti trovo un po’ ingessato, come quando, da bambini, ci mettevano vestiti della festa e guai se ci sporcavamo. Il messaggio invece è saggio e assolutamente condivisibile. Buon anno. 🎈

    ah, beh, concordo ssolutamente, buck
    sono parole che mi hanno chiesto di scrivere i miei ex colleghi di lavoro, altrimenti è difficile che componga in italiano
    volevano una dedica di fine anno e gliel'ho scritta come è venuta.
    auguri a te
  14. .
    uppiamo questa composizione come augurio per il 2020
    che sia radioso per tutto il pianeta.
    ne ha bisogno
  15. .
    senza barba non lo avevo riconosciuto...
    per un attimo ho pensato al tradimento, e invece...
    tanti auguri, ragazzi!
513 replies since 30/12/2011
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