Memorie

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  1. Achillu
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    Scrivano supremo

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    Una scia luminosa aveva attraversato i cieli della Pianura Padana; aveva lasciato traccia dentro innumerevoli videocamere di sorveglianza e migliaia di utenti caricarono quelle immagini su YouTube, Instagram e Twitter. Nessuno dei testimoni oculari ricordava più cosa avesse visto realmente quella notte; le loro menti drogate dai social riportavano memorie distorte, assimilate alle interpretazioni di astrofisici, sociologi, psicologi, divulgatori e web influencer, nessuno dei quali aveva realmente visto ciò che pretendeva di spiegare.
    Per questo nessuno collegò i fatti.

    Del resto i fontanazzi nel delta del Po non incuriosivano più nessuno da decenni; si aprivano numerosi – colpa delle nutrie che scavano le tane negli argini, dicevano – e venivano chiusi in fretta prima che facessero notizia, ci pensava la task force predisposta da A.R.P.A., consorzi di bonifica ed Ente Parco. Questo finché i fontanazzi non divennero più frequenti della rapidità con cui poterono essere sanati; allora sì che la notizia arrivò al telegiornale nazionale.
    «Siamo davanti alla tendopoli allestita dalla Protezione Civile a Taglio di Po. Ecco, proprio in questo momento arriva un gruppo di sfollati. Provo a fermare qualcuno… Signora, da dove arrivate?»
    «Ca’ Tiepolo».
    «Ci dica: cos’ha provato nel vedere la sua casa sommersa dall’alluvione?»
    Cosa importava alla gente, in fondo? Nel delta del Po viveva solo lo 0,0002% della popolazione mondiale, un’inezia; un angolo di un paese, in un continente su un pianeta, che è un angolo di una galassia, che è un angolo di un universo, che è sempre in crescita e che si riduce e si crea e si distrugge e non rimane mai lo stesso per un singolo millisecondo. Eppure l’uomo, l’italiano, il latifondista veneto aveva voluto, aveva preteso di dare a quell’angolo di Terra una forma fissa, immutabile per secoli, come se ciò fosse stato realmente possibile.
    Fino a quel momento, in cui sembrava che le acque volessero riprendersi ciò che era stato loro negato. Chissà se fui l’unico a immaginare un legame con la scia luminosa? Di sicuro fui l’unico a cercarne l’origine. Triangolai le testimonianze, quelle che mi sembrarono più genuine, e trovai un possibile punto d’impatto.

    «Cosa c’è qui?» Ester indicò con l’unghia rossa il punto che avevo evidenziato sulla mappa, scostando i lunghi ricci con l’altra mano per lasciarmi libera la visuale.
    «Una centrale elettrica dismessa; il meteorite, o qualsiasi cosa fosse, è caduto lì vicino. L'Elicar Cabrio ci aspetta nel parcheggio, andiamo».
    Sorvolammo a bassa quota le isole del delta, quasi tutte sommerse dall’acqua. Mi stupii di quanto potessero brillare i grandi occhi cerulei di Ester di fronte a uno spettacolo impressionante; erano così lucidi che sembravano risplendere di luce propria.
    L’ultima isola presso la foce era ancora all’asciutto e ci avvicinammo alla centrale abbandonata. «Guarda!» disse Ester, indicando in basso. Dalla nostra prospettiva si vedeva quella che sembrava come una ferita aperta nel corpo di un gigante d'acciaio.
    Atterrammo vicino al punto dell’impatto. Una luce tra il verde e il giallo sembrava pulsare tra la vegetazione che si stava impadronendo dell’edificio; ci dirigemmo da quella parte. «Oh mio Dio!» Non saprei come altro descrivere ciò che trovammo: sembrava una vongola gigante, grande quanto uno zaino da trekking, se non fosse che all'interno, tra le due valve semi discoste, appariva qualcosa simile a un centro di controllo spaziale in miniatura, la sorgente di quella luce.

    «Valerio, abbiamo fatto la scoperta del millennio!» disse Ester, con la voce tremante.
    Poi c’era un via vai ininterrotto di nutrie. Entravano attraverso l’apertura, si alimentavano a una specie di abbeveratoio e poi si disperdevano balzellando nel verde.
    «Dobbiamo solo impedire a queste bestiacce di rovinare la… quella cosa lì. Sciò! Sciò!» Le nutrie squittirono quando Ester cercò di allontanarle da quella specie di astronave in miniatura. Qualcuna provò inutilmente a morderle gli stivali.
    «Non la stanno rovinando; stanno… Imparano a diventare più operose, più distruttive», provai a spiegarle.
    «Ma cosa dici? Sei fuori?»
    «Secondo me il liquido serve per impiantare memorie negli animali; non toccare nulla, andiamo via».
    «Perché? Vuoi scappare?»
    «No; voglio correre, trovare l’origine di queste cose. Prima che brillino e svaniscano per sempre. Dev’esserci qualcosa più grande di quell’aggeggio, da qualche parte, che lo controlla».
    Lo sguardo di Ester si stava appannando; le sue iridi pulsavano, o forse erano diventate specchi che riflettevano quella luce verde-gialla. In quell’attimo mi pentii di averla portata con me. Si accucciò, con le mani a calice. «Io non me ne vado senza raccogliere questa meraviglia!»
    Non riuscii a fermarla. Appena toccata, la macchina le vomitò in faccia il liquido che dava da bere alle nutrie e si disattivò. Il congegno alieno cambiò colore e consistenza. Restò solamente la brutta copia di un masso grigio, bruciacchiato e spaccato in due; sembrava in tutto e per tutto un meteorite.

    Ester tossiva. Parte di quel liquido le era andata di traverso; un’altra parte l’aveva certamente inghiottita. Senza pietà, dovevo fare in fretta, le feci l’unica domanda sensata in quel momento: «Cosa ricordi?»
    «Devo… scavare!» disse, con gli ultimi colpi di tosse.
    «Dimmi cosa ricordi!» ripetei.
    «Devo scavare!» urlò, camminando senza una direzione precisa. Provai a trattenerla.
    «I tuoi ricordi! Dammi i tuoi ricordi!»
    «Gli argini sono la cosa più stupida che gli umani hanno creato. Devo scavare!»
    «Puoi scavare dopo, adesso dammi i tuoi ricordi!»
    Le tenevo le braccia distese lungo i fianchi, per obbligarla a calmarsi e scavare sì, ma nella memoria che le era stata impiantata. Mi guardò, poi girò lo sguardo altrove; era smarrita, spaventata. Finalmente decise a quali ricordi dar retta e non erano i suoi. Mi fissò con uno sguardo sprezzante.
    «Voi terrestri non avete alcun rispetto per l’acqua! Meritereste di estinguervi solo per questo!» Riuscì a divincolarsi e mi graffiò la faccia, prima di scappare in direzione dell’argine.
    Mi lanciai subito all’inseguimento. La raggiunsi in cima alla salita; si era fermata a guardare il Po che, lentamente, si preparava al prossimo incontro con l’Adriatico. «Dunque è questo che farete? Volete che ci estinguiamo?»
    Sbuffò. «Che domanda stupida! No; voi fate parte di questo ecosistema. Vi illudete di dominarlo, di controllarlo; faremo in modo di disincantarvi. Vi daremo le lezioni che vi meritate, finché non tornerete al vostro posto! Che non è in cima; siete solo degli stupidi primati arroganti».
    «E voi cosa siete?»

    Gli occhi di Ester si spensero; le iridi diventarono grigie come le acque del fiume che scorreva alle sue spalle. Purtroppo la mia domanda aveva riacceso il conflitto nella sua mente. «Devo scavare!» Corse giù per la discesa e capii che si voleva tuffare, con l’istinto di farsi una tana nel fango.
    La inseguii più velocemente che potei e la raggiunsi. Riuscii a prenderle le braccia e gliele distesi lungo i fianchi. «Ester! Ester!» Sperai che mi rispondesse lei.
    Si girò, mi accarezzò i graffi sul viso. «Valerio?» Iniziò a piangere. «Ho… tanta confusione in testa!»
    «Posso immaginare. Ma purtroppo non abbiamo i mezzi per contrastarla, è una tecnologia aliena». Piangeva disperatamente. «Devi essere forte ed essere sempre te stessa, puoi farcela!»
    Smise improvvisamente di singhiozzare. Si guardò le mani, come se non le avesse mai viste. Si toccò la pancia, le gambe. Ebbi l’intuizione di tirar fuori lo smartphone e la feci specchiare nello schermo; si accarezzò il viso, si scostò i capelli. «Qualcosa nella mia mente mi fa provare disprezzo per il mio corpo, non… non ce la faccio!»
    «È tutto finto, Ester! Non sono pensieri tuoi».
    Si batté l’indice sulla tempia: «Qui dentro è tutto così reale: tu sei un mostro, io sono un mostro! Devo scavare! L’acqua è il mio elemento e di chi mi è simile».

    Una persona con la memoria di un alieno è ancora umana? Non seppi rispondermi. Tenevo in mano una dose di narcotico; avrei potuto addormentarla e riportarla a casa, ma poi? L’avrebbero ricoverata in un istituto psichiatrico, con la diagnosi di schizofrenia. Non c’è una cura; sarebbe stata vita, quella? Esitai.
    Mi ritrovai a specchiarmi nei suoi occhi lucidi che imploravano aiuto. Riuscì ancora a dire: «C’è ancora tanto, così tanto da vedere. Perché la mia vita è stata così veloce?» Mi strappò di mano la siringa, o forse fui io a non opporre resistenza. Ebbe il coraggio di piantarsi l’ago all’altezza del cuore, che andò quasi subito in fibrillazione. Con le ultime forze che le rimasero si lasciò cadere nel Po, a faccia in giù. Mi lasciò lì da solo, a piangere, senza nemmeno darmi la possibilità di guardarla per l’ultima volta negli occhi mentre la corrente la trascinava via.
     
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