SUPERPREDATORI - parte 16

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    Teropode assennato

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    ***



    Parte 16

    Il breve silenzio che segue equivale alle note funebri di un organo. Il cuore prima si ferma e poi accelera brusco.
    “Eddai però,” mormoro con la voce che s’impasta per la vergogna e la paura, un gesto di sconforto delle mani, “Nude no, che cazzo, lasciaci almeno l’onore dei vestiti, per favore. Non chiediamo altro.”
    Lei sorride di nuovo. “Onore? E cosa avreste fatto per meritare questo onore?”
    Chiudo gli occhi, scuoto la testa, la ragione mi abbandona e fugge per sentieri disabitati.
    “Ci sta guardando il mondo… Facci morire con rispetto.”
    “Credimi, bionda, i vostri followers non vedevano l’ora che arrivasse questo momento.”
    Ha ragione, lo so, lo sappiamo tutte. Ha sempre ragione, in un modo o nell’altro. E di nuovo bionda, anche se sa il mio nome; saprà anche che odio essere chiamata bionda, saprà che mi chiamava così mio padre, di solito prima di prendere la cinghia. Io neanche sono così bionda, il mio è un colore smorto.
    La verga elettrificata si alza e sfrigola. “Via i vestiti. Adesso.”
    “Almeno tenere qualcosa, per favore…”
    Questa volta è Rita a fulminarmi con uno sguardo. “Con dignità,” mi rimprovera, “Si affronta tutto con dignità.”
    Sbottona la camicia per dare l’esempio, per darci l’esempio.
    Dov’è la dignità di morire nude divorate da un mostro?
    Dov’è la dignità in un qualsiasi angolo di questo posto?
    Ci spogliamo.
    In tre, in riga, a malincuore, sbottoniamo e sfiliamo.
    La divisa tattica e i paramenti in kevlar mi scivolano via tra le mani, nonostante tutto il tempo che mi prendo: sembrano non volermi più stare indosso, sembrano voler fuggire dal mio corpo come fossi già cadavere.
    Cerco di non guardare, non guardare le altre, non guardare le Erinni, non guardare Atreja. Non guardare me stessa.
    Vorrei esser cieca, cavarmi gli occhi.
    Tolgo la maglietta e con molti, troppi secondi d’esitazione il reggiseno.
    Dio, la vergogna.
    Sgancio il cinturone.
    Abbasso i calzoni.
    Il mondo sta guardando Mercury, la soldatessa, che si spoglia e che sotto a tutto indossa delle mutandine azzurre. Mi hanno sempre portato bene azzurre.
    La suora, alla mia sinistra, alza una mano, lo sguardo timido rivolto verso il suolo. “Ho una richiesta,” mormora in un filo di voce.
    Sembra un buon pretesto per fermarmi, per restare con le mani sull’orlo degli slip e attendere gli eventi.
    Atreja si avvicina, lenta, teatrale. Squadra la ragazza da un passo, accenna col capo.
    “Vorrei,” lei alza due occhi nocciola in quelli ben più scuri della regina di Illumina, “Poter tenere la croce.”
    Atreja attende un lungo attimo poi allunga una mano, raccoglie il crocifisso argentato che le pende dal collo.
    So che sta per farlo.
    Per strapparglielo.
    Per irriderla e toglierle anche questo conforto.
    “Ma certo,” risponde con un sorriso genuino, “Tienilo pure, cara.”
    Glielo adagia tra i seni tondi e sodi, candidi, con un gesto quasi erotico.
    La suora annuisce appena.
    Dio.
    Atreja è una vera signora, non c’è che dire. Vale più di tutte noi messe assieme.
    Calo le mutandine consapevole che quelle come lei sono la vera essenza del mondo; quelle come me, che stanno impilando i loro vestiti in mondovisione, possono solo seguire a distanza.
    Ora ho un problema, sempre lo stesso.
    Tutti i pervertiti del mondo mi guardino pure le tette, la fica, il culo: non m’interessa, non più.
    Ma c’è una cosa che non posso accettare.
    Alzo una mano, fissando a terra, rossa di vergogna. “Ho una richiesta.”
    Il mondo si ferma di nuovo. La suora mi guarda preoccupata, perché ricorda, ricorda bene cosa le ho promesso ieri sera.
    Atreja sorride, sottilmente divertita; si accosta con lo stesso piglio ilare, guardandomi e cercando invano i miei occhi. “Ti ascolto.”
    Deglutisco, continuo a fissare il mucchio che furono i miei vestiti. Per quanto mi spiaccia, non sprecherò la mia richiesta da moritura per far andare la suora all’inferno prima di me. Cerco l’espressione più composta possibile, senza trovarla. “Io,” mormoro a denti stretti, “Io detesto i fottuti feticisti. Vorrei tenere gli stivali. Per favore.”
    Atreja sorride ancora, quasi ride. Mi accarezza il viso come una madre comprensiva.
    “Suvvia, anche loro hanno diritto a qualche soddisfazione: togli tutto, cara.”
    Espiro con la morte nel cuore; mordo le labbra per trattenere il fastidio, la vergogna, che pure mi avvampano in viso e addosso. “Io non te l’avrei mai, mai fatta subire un’umiliazione del genere, mai.”
    “Tu non sei me, tesoro.”
    “Mai l’avrei fatto.”
    Si scosta. “Togli tutto.”
    Siedo a terra con un sospiro frustrato.
    Slaccio gli stivali.
    Li sfilo.
    Li butto sopra al mucchio.
    Così le calze.
    Sono nuda.
    Siamo nude.
    Tre pezzi di carne, nude e cariche di vergogna, in riga, con un braccio a coprire il seno e una mano tra le cosce. Tremiamo, o almeno io tremo, d’imbarazzo, di sconforto. Il mondo sta guardando Mercury nuda e sconfitta.
    Il mondo.
    La rete.
    Mercury.
    Nuda.
    Sconfitta.
    Pigia, pigia, col pigiare, e forse sto vivendo una parodia del mio personale incubo.
    “Le mani dietro la testa.”
    Il pungolo sfrigola: ubbidiamo. Siamo nude, indifese ed esposte come bestie da mostra.
    La suora ha un corpo della madonna, e questo mi fa incazzare. È magra ma non esile, è lavorata, liscia come seta, pallida ma di un pallore sensuale, erotico, come i suoi capelli platinati. Ha due seni proporzionati, non grandi, non piccoli, tondi.
    Non ha i miei addominali tonici, non ha il mio corpo fibroso, non ha il mio cipiglio né il mio portamento, eppure, se dovessero mettere ai voti le nostre carcasse denudate, forse vincerebbe lei. Forse i pervertiti della rete, dovendo scegliere, preferirebbero segarsi sulle foto sue più che sulle mie, e questo mi fa incazzare.
    Oltre all’umiliazione, la beffa.
    Una di più.
    Vorrei non avere tutta la dannata bigiotteria infitta nella faccia, per un aspetto migliore.
    Una delle Erinni, dalla lunga chioma bruna, comincia a intonare un canto, una nenia: sono parole incomprensibili scandite al ritmo d’un piede sbattuto per terra. Mi sforzo di capire, di ascoltare, di captare qualche parola per convincermi che sono solo stanca e alterata, che canta in italiano e la mia testa non c’è, vacilla.
    Non colgo una parola.
    Sembra un dialetto, sardo alla lontana, ma il tono, il timbro, sono molto più cupi, più selvaggi. Per qualche ragione una suggestione di Sardegna mi riporta ai tempi della scuola, quando d’estate andavamo da zio Fabio. Le spiagge. La macchia.
    La nenia si ripete, come una lunga strofa che ricomincia sempre.
    È un canto penetrante, anche senza musica, che ha l’impostazione e il tempo d’una ballata del folklore.
    Visioni di nuraghi diroccati e di cespugli di mirto in fiore sfarfallano e lampeggiano da qualche parte dentro l’anima. I volti truci, solenni, delle Erinni fanno sembrare quella cantilena un inno di morte.
    Di sepoltura.
    È un canto funebre o così crede la mia mente suggestionata.
    Nuraghi oscuri e ombrosi.
    Gocce di sangue sulle pietre.
    Sono caduta scalando la sassaia, il ginocchio è abraso, piango. Tutti guardano divertiti. Mia madre alza di spalle e Ma sì, non è niente, così impari ad andare dove non devi. Disinfettante sulla ferita.
    Ragni crociati ondeggiano su tele agitate dalla brezza.
    La Sardegna è la terra dei ragni.
    Tutto cade nell’abbraccio di otto zampe e altrettanti occhi se lasciato incustodito, tutto appartiene ai ragni.
    Le maschere grottesche del carnevale di Mamoiada danzano per un attimo dietro le retine.
    Gocce di sangue sulle pietre.
    Il respiro accelera.
    La stessa Erinni che canta intinge un mazzetto d’erbe secche dentro una ciotola di latta, poi passa davanti a noi come un sacerdote con l’aspersorio, scagliando gocce che investono la pelle come pioggia primaverile. Irrora i nostri corpi nudi con uno schizzo di qualsiasi cosa il recipiente contenga.
    Chiudo gli occhi ed è Sardegna, è acqua, è spuma tra gli scogli. È profumo di lavanda in fiore.
    Il tocco delle gocce è freddo, intenso, così come l’odore che sprigionano: vegetale, pungente. È acqua profumata con l’essenza di fiori, e qualsiasi significato abbia nella loro grottesca tradizione mi appare come un misero, doveroso conforto per quanto ci aspetta.
    Gocce colano e scivolano sul petto, tra i seni, lungo la linea alba che si alza e s’abbassa seguendo il ritmo del mio respiro. Trattengo il pianto che cerca di farsi strada in tutti i modi tra le ciglia.
    Profumo di iris selvatica.
    Gocce scendono e sussurrano, tra le cosce, raccontando di un altro mondo dove il dolore e la sofferenza non esistono, dove saremo libere dalla paura.
    La nenia cessa, e così l’aspersione.
    Riapro gli occhi anche se avrei voluto tenerli chiusi.
    “In fila.”
    Mani ci prendono, sospingono; formiamo una fila, Rita, la suora, poi io: mani ci alzano il braccio destro perché vada a poggiare sulla spalla di colei che ci precede.
    “Sguardi bassi.”
    La mia mano è sulla spalla della suora, un contatto del quale farei volentieri a meno.
    “Sguardi bassi.”
    Un ceffone dietro la nuca mi obbliga a stare con la testa più giù ancora, a fissare per terra, il pietrisco, le nostre gambe, i miei piedi, quelli di lei. Come temevo, ha dei piedini deliziosi. Meglio: piaceranno ai fottuti feticisti del mondo.
    Meglio, per quel che resta da sopportare, da vivere, da andare avanti.
    Trattengo ancora un assalto di lacrime.
    Un’occhiata intorno, Atreja, e un cenno d’assenso.
    “In cammino.”
    Si muove, la banda delle Erinni, fa ala dietro di noi, la loro officiante detta il passo avanti a tutti. Camminiamo, nude, con una mano sulla spalla di quella davanti, come in uno stupido, fottuto gioco. Camminiamo, coi piedi che incespicano e faticano a trovare l’equilibrio sul pietrisco, ma più di tutto perché tremano come lo nostre gambe. Tremano.
    Candy-Kane ci segue come è stata istruita di fare; ci segue sventolando il suo bambù, un segno di potere, e se all’inizio ha qualche remora a usarlo, le occhiate inquisitrici di Atreja cancellano ogni premura; basta un passo malfermo, un’indecisione, perché arrivi la carezza dello scudiscio sulla schiena, sul culo. E l’unica schiena e l’unico culo che ha in piena vista sono quelle dell’ultima della fila, sono i miei: so che, anche guidassi io la processione, cercherebbe comunque me col suo dannato attrezzo.
    La odio.
    L’ho sempre odiata.
    La discesa sotto il sole che inizia a scaldare e la brezza che ci scompiglia i capelli è qualcosa di terribile tanto quanto poetico; siamo un quadro del passato, uno del futuro, siamo carne che cammina e lo fa per l’ultima volta. Siamo una tela dai vaghi colori erotici.
    Scendiamo lungo il sentiero che si stringe e si snoda senza rispetto, infine pieghiamo sulla pietraia, prendendo una direzione diversa da quella del giorno prima, quando siamo arrivate qui, nella tana delle lupe.
    Arriva un alt e ci fermiamo.
    La scena che si apre tra i cespugli rinsecchiti e mossi dal vento, tra le rocce rossastre, è quella di un magnifico canyon naturale, irradiato dal sole, che guardiamo dall’alto, aperto sotto di noi anche se in buona parte celato dalla prospettiva; colorato dal giallo e dal rosso di fiori di pianta grassa, abbarbicati nelle alcove della pietra, dal verde smorto di foglie coperte di peluria. E poi l’azzurro, l’azzurro indomito del cielo.
    Il sole, abbacinante, fa socchiudere gli occhi e riscalda la pelle, che va imperlandosi d’un sottile velo di sudore, più per l’ansia, la paura, che per la temperatura.
    Noto il ponte: un piccolo, sottile, malconcio ponticello di corda e assi sta sospeso sopra al canyon, fin dall’altra parte, talmente leggero da oscillare all’occasionale soffio deciso della brezza.
    Ci fermiamo prima, veniamo fatte chinare con gesti e prese indelicate, accosciate in uno spiazzo di terriccio rosso, tra le pietre secche; veniamo fatte alzare sulle ginocchia, nude, con le mani portate sopra la testa per l’ennesima volta, con le caviglie incrociate: siamo il ritratto della sconfitta, dell’umiliazione.
    Della vergogna.
    Il dannato telefono ci passa in rassegna perché gli account Premium non perdano un dettaglio della nostra nudità o della paura, l’angoscia, che ci divora.
    Respiriamo aria calda e secca con la voglia di piangere e la speranza che tutto finisca presto.
    La croce pende dal collo della suora, ancorata tra due seni candidi; mi trovo a chiedermi che conforto possa mai dare un pezzo d’acciaio, l’immagine d’un uomo morto, morto come crepiamo noi oggi, solo senza un’intera rete a guardare. Ho studiato catechismo da piccola, perché mia madre è religiosa, ma non so se esista un Dio, o più di uno, o non ce ne siano affatto. Non l’ho mai capito.
    So che puoi passare buona parte della vita a bestemmiare e pensare che Dio sia spazzatura, Lui e tutti quelli come Lui, ma quando sai che la tua ora è arrivata, e non hai neanche un pezzo di stoffa addosso, inizi a considerare l’idea che forse hai sempre sbagliato tutto, e che quella grande cosa immateriale che sarebbe una divinità si sta fregando le mani in attesa del tuo arrivo.
    A quel punto hai solo due scelte: fare ammenda e provare una paura fottuta, oppure convincerti che se sei arrivata lì, a quel punto, in quella situazione, è solo per colpa Sua. E odiarlo con tutte le forze che ti restano, ogni singolo secondo che ti avanza da vivere.
    Mi sento più orientata su quest’ultima strada.
    Ho odiato tutta la vita.
    Prima le Elisabetta, poi le Polly, quindi sono passata a odiare gli uomini, poi gli uomini stranieri, gli stranieri tutti, i comunisti, le canzoni in spagnolo, a odiare mia sorella, infine mia madre. Mio padre l’ho odiato da che ho memoria. Che sarà mai odiare anche Dio?
    “Ci siamo, ragazze,” Atreja batte le mani come ha già fatto prima, “Ora di cominciare.”
    Come fosse un risposta, dal fondo del canyon si leva un verso che conosciamo; il sangue gela come già ieri, il respiro diventa di ghiaccio. È lui, la cosa, ad ora l’unico essere di sesso maschile su questo dannato arcipelago.
    È un lamento a metà tra il lugubre e l’incazzato, un verso che non è di questa terra e che sa di passato ancestrale.
    Dio.
    Ti prego, fa che non sia troppo doloroso.
    L’immagine di quei denti intravisti nel buio del bunker.
    Fammi morire subito.
    Atreja giunge le mani davanti al viso, l’espressione questa volta seria come il momento impone. “Chi va per prima?”

    ***



    Per prima alla parte 17

    Edited by Fante Scelto - 28/10/2018, 23:33
     
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