Love

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    Dio della penna

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    Il vagabondo
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    Vincent arriva al Four Seasons Hotel con quasi due ore di anticipo. È nervoso, ma non ancora terrorizzato. La paura con ogni probabilità arriverà più tardi. Paga il tassista asiatico che lo ha tirato su al JFK e lo guarda allontanarsi lungo la trafficata Barclay Street. Durante il trasferimento dall'aeroporto non hanno scambiato neppure una parola. Lui, grazie a Dio, vive ancora nell'ombra, così può aggirare tutte le seccature che di solito toccano ai personaggi famosi, come quella di dover intrattenere una conversazione con individui curiosi e invadenti.
    Al pensiero che di lì a poco le cose subiranno un deciso cambiamento la bocca gli diventa arida come il deserto del Mojave. Prende il cellulare e chiama la sua terza moglie a Boston, dicendole che il viaggio è andato bene.
    Novembre ha lasciato le chiavi di casa a dicembre già da qualche giorno e fa freddo. Vincent si ferma un istante a guardare gli alberi scheletrici della strada, imploranti prigionieri di guerra del generale inverno, poi entra.
    Sì, è nervoso, ma non ha ancora paura. D'altra parte, dopo quello che ha vissuto, può avere ancora terrore di qualcosa?
    Si avvicina al portiere e si fa dare le coordinate del bar. Mentre pronuncia la parola coordinate gli scappa un sorriso triste.
    Il bar del Four Seasons è caldo e accogliente, col pavimento e il bancone di un elegante marmo rosato e gli sgabelli e le poltrone di legno con la tappezzeria rossa. Vincent si dirige deciso al bancone e ordina un bourbon.
    «Anche lei è qui per la presentazione?»
    Vincent guarda la barista e fa segno di sì con la testa. Capelli rossi, occhi nocciola, labbra piene ma non volgari. Mentre lei versa il liquido ambrato nel bicchiere nota le mani belle, curate, con le unghie laccate di bianco. Adora lo smalto bianco, lo eccita. Non gli dispiacerebbe affatto scoprire se è una rossa naturale, anche se ama Carol, la sua splendida moglie. L'ama davvero con tutto il cuore, ma se ci sarà l'occasione giusta la tradirà senza pensarci un istante. D'altra parte la sua vita è una totale contraddizione. È sempre stato così dopo quello che ha passato.
    «Non sto più nelle pelle» continua la rossa, «finalmente il mistero verrà svelato.»
    «Già, finalmente» risponde Vincent, guardandola negli occhi e realizzando che l'occasione di scoparsela di sicuro non mancherà. Vincent prende il bicchiere e manda giù il primo sorso.
    Il primo è sempre il migliore, quello più autentico. La suoneria di The house of the rising sun emerge dal telefonino come un fantasma dal passato. L'effetto è sempre lo stesso, ma lui non vuole cambiarla. Non può.
    «Ciao Frank...Sì, sono già arrivato...Sono al bar dell'hotel...No che non mi ubriaco, dai, ti aspetto qua...Ciao.»

    La scimmia è stato il più grande stronzo che abbia mai incontrato nella mia vita. El mono, aveva scritto sul suo casco, la scimmia, e in quasi sette mesi di condivisione dell'inferno non sono mai riuscito a capirlo sino in fondo. Forse era matto, oppure la guerra aveva fatto uscire fuori la sua parte peggiore, ma ancora oggi per me rimane un mistero. La cosa brutta è che riuscì a fare esplodere anche la mia di cattiveria. Feci la sua conoscenza il mio quarto giorno di Vietnam, in uno dei pochi momenti di riposo tra una perlustrazione e l'altra. Era sdraiato sulla sua branda, sembrava dormisse, poi l'AFVN aveva irradiato gli accordi di The house of the rising sun degli Animals e lui era schizzato su come una molla. Ballava in modo ridicolo, tanto più che con quelle braccia sproporzionate sembrava davvero di vedere uno scimmione piuttosto che un uomo.
    «Hey ragazzi, guardate Ortega» aveva gridato Jones, «è uscito nuovamente dalla gabbia.»
    «Basta, spegnete quella radio del cazzo, non ce la faccio a guardarlo. Anzi, prendete un M16 e fategli un altro paio di buchi nel culo» aveva gridato Vitaglia, facendo ridere tutta la squadra.
    Dal canto suo Ortega aveva continuato a ballare in modo ancora più sgraziato, mostrando a tutti il dito medio sino a quando non era finita la musica. Stava ritornando sulla branda, poi ci aveva ripensato e si era diretto verso di me.
    «Tu chi cazzo sei? Sei nuovo?» mi aveva domandato con una sorta di curiosità malata.
    «Sì, sono qui da qualche giorno. Mi chiamo Vincent Evans. Sono un volontario.»
    A quelle parole un silenzio irreale cadde nella stanza, poi el mono riprese la parola.
    «Avete sentito ragazzi? Questo coglione è venuto in questa merda di sua volontà. Ce ne sono di stronzi in giro eh?»
    Gli altri ragazzi risero, ma tutti mi guardavano come uno strano animale sbarcato da un altro pianeta.
    «E dimmi volontario Evans» riprese la scimmia, «te gusta il Vietnam?»
    «Beh, non è esattamente come la Pennsylvania, ma le sue foreste sono quasi inospitali come quelle che ricoprono gli Appalachi.»
    La mia voleva essere una battuta, ma non rise nessuno.
    «Mi sei simpatico Evans» rispose Ortega, «stammi vicino e forse arriverai alla settimana prossima.»
    Ci arrivai, e anche più oltre se è per questo, ma in quei primi giorni di Vietnam e di Leandro Ortega cominciai a pentirmi della mia scelta. Che cosa volevo dimostrare? A chi poi? La verità è che avevo capito subito che c'erano ottime possibilità di ritornare a casa in una sacca nera.
    Come avrei potuto resistere un anno intero in quel casino? Cominciai quasi subito a sperare nel premio di consolazione, un rientro negli Stati Uniti con un bel danno permanente. E la scimmia intanto cominciava a infettarmi l'anima.

    «Vincent?»
    Vincent si gira e si ritrova davanti Frank. Sembra sereno, d'altra parte lui si trova a suo agio in pubblico.
    «Quanti ne hai bevuti di quelli?» gli dice Frank indicando il bicchiere. «Non dimenticare che devi essere lucido.»
    «Lo so, non ti preoccupare. Ne ho bevuto solo uno mamma.»
    Frank ride, poi ordina alla rossa un bicchiere di acqua minerale.
    Vincent vede la curiosità negli occhi della barista, così da un colpetto sulla spalla all'amico e gli fa cenno di seguirlo. Frank prende l'acqua e raggiunge Vincent al tavolo vicino alla finestra.
    «Allora, che c'è?» dice Frank sorseggiando la sua San Benedetto, «hai ripassato il discorso?»
    «Sono due mesi ormai che lo ripeto ogni giorno. Mia moglie ha minacciato di chiedere ii divorzio, e l'ultima cosa che voglio è infilarmi in un quarto matrimonio.»
    «Non sono il tuo avvocato ma direi che è una saggia decisione.»
    «Senti Frankie, pensi davvero che stiamo facendo la cosa giusta?»
    «Cazzo Vinnie, ti fidi di me? Abbiamo studiato la faccenda nei minimi dettagli. Stai tranquillo, questo è il colpo di scena che ci vuole per risollevare le vendite.»
    «Sì lo so, ma sono un po' nervoso. Prima, quando mi hai chiamato, la suoneria degli Animals mi ha riportato tutto alla mente. Ho rivissuto ogni cosa come se fosse accaduta ieri.»
    «Ancora quella suoneria? Ma non avevamo deciso che l'avresti cambiata?»
    «Mi dispiace Frankie, non ci riesco, è più forte di me. È come una droga, voglio dimenticare ma allo stesso tempo non riesco a liberarmene. El mono mi ha infettato l'anima, te l'ho detto mille volte.»
    Frank guardò l'orologio, poi si sporse in avanti e appoggiò la mano sulla spalla di uno dei più grossi fenomeni letterari dell'ultimo trentennio. «Non preoccuparti Vincent, la notorietà non è poi così brutta. Dai, tra mezz'ora si va in scena. Vedrai andrà tutto bene, devi solo dire la verità.»
    Era vero. In fondo di quello si trattava, dire la verità.

    La verità è che Ortega era cattivo, malvagio, e il Vietnam aveva solo peggiorato le cose. Per lui quel posto era una specie di parco dei divertimenti, dove tutto era concesso. A Los Angeles non c'era nessuno ad aspettarlo, se non i “fratelli” della banda di cui faceva parte, gli Hoover Criminals. «Fottuti negri del cazzo perlopiù» mi aveva raccontato, «ma sono la mia famiglia.» Diceva di aver ucciso il suo primo uomo a
    quindici anni: gli aveva tagliato la gola. Poi ne erano arrivati altri
    due. Lì ora poteva ucciderne quanti ne voleva, senza che nessuno avesse qualcosa da obiettare. Gli piaceva ammazzare, glielo leggevi negli occhi.
    Una volta, in un villaggio sul fiume Tra Khuc, aveva crivellato di colpi un vecchio che si era rifiutato di abbandonare la sua capanna. Sarebbe bastato prenderlo di forza e sbatterlo fuori, ma lui aveva trovato più divertente sforacchiarlo col suo fucile.
    Non che per lui bianchi gialli o neri facessero differenza. Me ne accorsi quando durante l'ennesima perlustrazione il povero Singleton incappò in una trappola esplosiva dei vietcong. Io e Ortega eravamo nei pressi e accorremmo subito. Quando arrivammo vedemmo Singleton disteso sulla schiena che piangeva. Non aveva più le gambe. Quando ci vide cercò di allungare le braccia verso di noi, in una pietosa richiesta d'aiuto, mentre la terra sotto di lui si tingeva di rosso. Ortega l'aiutò nel solo modo che sapeva fare: prese la mira e gli fece saltare la testa.
    «Assassino» gridai con tutto il fiato che avevo, «sei solo un maledetto assassino!» Lui mi si avvicinò e mi strinse la gola con la sua mano destra. I suoi occhi brillavano di una luce folle e inarrestabile. «Calmati Vincent, gli ho solo risparmiato inutili istanti di atroce dolore. Lo vedi che non ha più le gambe? Probabilmente non ha neanche più l'uccello.»
    Lui lasciò la presa, io mi soffermai a guardare ciò che restava di Singleton, poi cominciai a sparare in aria cercando di non impazzire. Quando finii il caricatore incrociai nuovamente gli occhi di Leandro Ortega detto el mono, la scimmia. Se possibile, quella follia che vi avevo letto pochi istanti prima, era addirittura aumentata.
    Del Vietnam tutto mi snervava: le sanguisughe delle zone paludose che eravamo costretti ad attraversare, gli insetti che ci attaccavano quando il nemico ci concedeva un po' di tregua, l'umidità asfissiante della giungla, le trappole e gli agguati dei maledetti vietcong. Sì, e poi c'era Ortega, che mi destabilizzava tanto in battaglia quanto nei momenti di relax. Mentre gli altri si ubriacavano o si facevano di erba o eroina, me compreso, lui si sdraiava sulla sua branda e scriveva. Ortega non aveva bisogno di
    allucinogeni, la sua droga la trovava sul campo di battaglia.
    «Leandro, non mi vorrai dare a bere che sai pure scrivere» gli dissi ridendo la prima volta che notai questa cosa.
    «Guarda che ho preso pure il diploma se vuoi saperlo» mi rispose con una nota di risentimento nella voce.
    «Ok, e cosa stai scrivendo se si può sapere, le tue memorie dal fronte?»
    «No, sto aggiornando il numero dei gialli che ho mandato sotto terra.»
    «Dai qua, fa vedere» gli dissi prendendogli i pezzi di carta che teneva tra le mani.
    «Se provi soltanto a ridere ti ammazzo. Me ne frego della corte marziale, hai capito?»
    Cominciai a leggere e subito dubitai dei miei occhi. Guardai Ortega che intanto si stava fumando una sigaretta e al tempo stesso mi scrutava in attesa di un mio eventuale moto d'ilarità. Quando arrivai in fondo ricominciai da capo, per essere sicuro di ciò che avevo letto. Era un racconto d'amore, tenero e dolce, scritto anche bene escludendo alcune ingenuità. Guardai nuovamente Ortega, sbigottito all'inverosimile, e gli porsi i suoi fogli.
    «Allora Evans, che dici, ti è piaciuto? È solo l'inizio ma sembra che fili bene no?»
    Feci di sì con la testa, senza sapere che cazzo aspettarmi ancora da quello strano tipo.
    «Sai, ho scritto una trentina di racconti e un romanzo di circa duecento pagine. Roba forte, davvero. Li ho lasciati al centro di addestramento di Fort Ord e quando questa guerra sarà finita li farò pubblicare. Puoi scommetterci le chiappe amico.»
    «Tutta roba dello stesso genere? Voglio dire, tutte storie d'amore?» dissi sempre con un'espressione d'incredulità stampata sul viso.
    «Certo, è l'amore che muove il mondo, no?»
    «Hai ragione Ortega, ma metti caso che nessuno voglia pubblicare i tuoi racconti? Cosa pensi di fare?»
    Ortega rise, poi gettò la sigaretta per terra. «Non so tu» mi disse, «ma io
    non ho ancora conosciuto qualcuno capace di dire di no con una pistola puntata alla testa.»
    Lui rise ancora più forte e io mi unii a lui. Sembravamo due pazzi, e forse lo eravamo davvero. Lui perché era ciò che era, io perché avevo deciso di trascinare il mio culo in quel luogo pieno di orrori e contraddizioni.

    Vincent, Frank e Donald Grundall, l'amministratore delegato della casa editrice Sullivan & Tyler Inc., sono già nella calda sala del Four Seasons allestita per la presentazione quando inizia ad arrivare gente. Le centinaia di sedie davanti a loro si riempiono in un batter d'occhio. La curiosità è palpabile, così come il nervosismo di Vincent. Sa quello che deve dire, ma trovarsi davanti a tutte quelle persone lo infastidisce. Come da scaletta inizierà a parlare Grundall, poi toccherà al suo agente Frank e infine a lui, il piatto forte della serata. Mentre quegli occhi sconosciuti iniziano ad arrossargli la pelle con la loro insistenza, Vincent, chissà perché, pensa a quello passato alla storia come il massacro di My Lai. È il 16 marzo del 1968 e lui è lì con la Compagnia C della 23esima Divisione di Fanteria dell'esercito degli Stati Uniti. Nel gruppo serpeggia nervosismo e malumore. Sono stanchi, avviliti, hanno voglia di tornarsene a casa. Il nemico è più forte del previsto e quasi tutti sono convinti che loro, i padroni del mondo, quella guerra non la vinceranno mai. Si sentono sconfitti, impotenti, e l'odio che provano per i Charlie è corrosivo, viscerale. Provano disprezzo per tutti quelli che sono nati in quel dannato posto, anche se con la guerra non c'entrano nulla. Pensavano di trovare qualcosa nel villaggio, armi, combattenti, mappe, invece non c'è nulla. I contadini però sono lì, sono gialli, e forse i vari John, Billy e Mike che sono tornati a casa in una sacca nera sarebbero contenti di vedere qualche testa saltare. E così, come sotto l'influsso di un incantesimo, inizia la mattanza. La Brigata dei macellai si mette all'opera facendo saltare le teste di vecchi, donne e bambini. Lui è vicino a Ortega e tutti e due si divertono come al tiro a segno di un luna park. Non si fanno mancare niente: prendono le ragazzine più belle e le violentano sotto gli occhi dei nonni e dei genitori. Chi protesta viene
    crivellato di colpi. Fanno anche a gara a chi incide più c sui corpi dei civili con le baionette. La Compagnia C è la migliore, non c'è dubbio. Il delirio va avanti per un tempo imprecisato, poi all'improvviso tutto si ferma.
    Alla fine di quella giornata d'orrore più di cinquecento innocenti rimangono a terra privi di vita e nessuno, né lui né Ortega, né Gray né Perkins, nessuno verrà punito. Non quel giorno e nemmeno dopo. Mai.
    Quando Frank pronuncia il suo nome, Vincent è ancora imbottito di quel ricordo tremendo. È sudato e trema visibilmente, ma comincia a parlare.
    «Buonasera a tutti e grazie per essere qui. Non vi nascondo che sono molto emozionato, per cui spero di non confondermi troppo nel parlare.»
    Qualche risolino si fa largo nella sala, seguito da un grosso applauso d'incoraggiamento.
    «Mi chiamo Vincent Evans e sono il cinquanta per cento di Love, lo pseudonimo dietro il quale si nasconde lo scrittore che molti di voi amano. L'altra metà è data da Leandro Ortega, un grandissimo figlio di puttana che è stato in Vietnam con me sotto la presidenza di Lyndon Johnson. Io sono rientrato in America sulle mie gambe, lui dentro una cassa di legno, ma la verità è che saremmo dovuti morire tutti e due per ciò che abbiamo fatto.»
    Vincent beve un sorso d'acqua per rianimare la gola secca. Tutti gli occhi della platea sono su di lui.
    «Non vi sto a dire ciò che abbiamo fatto, penso che lo possiate imamginare. Di libri e film sul Vietnam ne hanno fatti milioni. Troppi. Ortega era malvagio, spietato, però amava scrivere racconti d'amore. Ancora oggi non riesco a spiegarmelo, sembra paradossale lo so, ma le cose stanno così. Nei momenti di libertà, mentre tutti ci stordivamo, lui dava forma alle storie che avete letto. Beh, non tutte, solo le prime. Il resto è tutta farina del mio sacco. Comunque lo stronzo in punto di morte, col petto squarciato da una raffica di mitragliatrice, mi fa giurare di far pubblicare i suoi scritti. Mi dice che se non lo faccio sarà sua premura ritornare dall'inferno per farmela pagare. Dice anche che posso usare il mio nome assieme al suo. Sono sicuro che se non ci fossi riuscito sarebbe tornato dalla tomba per darmi il tormento. Dico sul serio. Se lo aveste conosciuto anche voi la pensereste come me.»
    Vincent fa un' ultima pausa e si sofferma nuovamente sulla folla di lettori e giornalisti che gremiscono la sala. In fondo, vicino alla porta, nota la barista dai capelli rossi che gli ha versato da bere.
    «Così, ritornato dalla guerra, faccio la prima cosa che mi viene in mente. Vado alla Penn State, l'università in cui mi sono laureato in scienze politiche e sento coi vecchi docenti se mi possono aiutare. Il professor Jacobs, pace all'anima sua, mi presenta un piccolo editore suo amico, il signor Cummings, al quale faccio vedere i racconti di Ortega. Sono un po' grezzi ma gli piacciono. Mi chiede di aggiustarli, poi li pubblica.
    I libri hanno successo, per cui il passaggio dalla Cummings Publishing alla Sullivan & Tyler è quasi automatico. L' America è davvero la terra delle contraddizioni, il paese dove una canaglia come me può ambire a diventare uno scrittore di grido. Vi chiederete come può nascere amore da tanto male, da tanto orrore? Il fatto è che ho quasi settant'anni e ancora non l'ho capito. E ora scusatemi, credo che andrò a farmi un goccetto.»
    Vincent si alza, incalzato dalle domande e dai flash delle macchine fotografiche, ma non ci fa caso. Ha altro a cui pensare: la rossa è ancora lì sulla porta e gli sta sorridendo.
     
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    Penna suprema

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    Che dire...l'incoerenza c'è. Scrivere racconti d'amore mentre si squartano i poveri diavoli è massima incoerenza.
    Nemmeno voglio lasciare l'autore in bilico con la solita frase di circostanza, stupida frase di circostanza: Non so se mi è piaciuto o no.
    Sai scrivere amico, e sai inventare storie impossibili.
    E piacevoli da leggere.
     
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    Penna stilografica

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    Una storia superba e il fatto di riallacciarti alla collina di May Lai dà ancor più verità alla storia. Molto ben scritta. Ti trovo un alloggio sul mio podio a meno che... ebbene sì c'è sempre un a meno che.
     
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    Scrivano

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    Credo di averti sgamato autor@. Questo è una racconto “coi fiocchi” e scusa la leziosità che certo non si addice al tuo genere che mi piace “un casino”. Perfettamente delineati i personaggi descritti magistralmente sia nei caratteri che nelle caratteristiche. Bellissimi, nella loro crudezza, i ricordi perfettamente inseriti nel testo. Davvero complimenti per questa ottima prova.

    Inviato tramite ForumFree Mobile

     
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    Penna d'oca

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    Probabilmente se questo racconto fosse inserito in un antologia di autori affermati non sarei in grado di distinguere la sua amatorialità. Davvero complimenti: la narrazione è incalzante, i personaggi incredibilmente vivi, la storia interessante. Unica cosa che ho trovato stucchevole l'iniziale tentativo d'incuriosire il lettore, un po' forzato, ma alla fine fa molto americano e nel contesto ci sta.
     
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    Dio della penna

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    Ecco si mi aggancio al commento precedente: fa molto americano. Dopo di che mi inchino alla bravura da vero scrittore anche se , personalmente, preferisco altri generi di scrittura: più alla portata delle gente semplice come sono io. Preferisco avere a che fare con personaggi più vicini alla mia vita quotidiana in modo da poterli riconoscere. Ma dico queste cose solo per giustificare il mio non podio pur di fronte a uno scrittore che immagino professionista e cento volte più bravo di me. Questione forse di empatia.
     
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    Su chef

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    Il racconto è proprio figo, almeno, lo è fino al discorso finale. Mi spiego, c'è una costruzione del pathos e una preparazione al picco veramente efficaci, i personaggi e gli avvenimenti narrati, seppure entrambi sfruttati già in abbondanza, avvincenti e concreti, poi tutto si sgonfia, due parole poco convincenti e la "sorpresa" molto prevedibile. Anche la fine di Ortega, relegata a una riga, non gli rende giustizia. Avrei voluto vederlo, sapere come e quando è successo, si poteva tagliare la parte della barista, era davvero così importante? Dal punto di vista puramente tecnico niente da eccepire, unica cosa si potevano limare i possessivi superflui.
     
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    Dio della penna

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    Non sono nelle corde della guerra e nemmeno in quelle del racconto. Per obiettività invece la scrittura è ottima e l'autore ci sa fare. Inserire il tema dell'amore non era facile e il plauso va per questo. Bravissimo autore.
     
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    Penna furiosa

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    Duty, honour, country. Queste tre parole hanno permesso ai soldati in Vietnam di commettere crimini e di rimanere impuniti, quasi fossero una giustificazione per una guerra inutile. E il Vietnam è solo un esempio, ce ne sono tanti altri, molto più recenti. Detto questo, il racconto mi è piaciuto per scrittura, ritmo, trama. Un metaracconto con i fiocchi, finora forse il migliore che ho letto. Mi è piaciuto il personaggio di Vincent, ben delineato, tipico carattere da reduce. Ma la scimmia, el mono, Ortega ancora di più: assassino spietato capace di contemporaneamente di uccidere e scrivere storie d'amore. Solo la guerra può creare certi mostri, o forse no. Leandro? Bellissimo nome. Ottimo lavoro autore(sei maschio)!
     
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    Penna d'oca

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    Scritto bene anche se gigioneggi un po troppo.
    "Novembre ha lasciato le chiavi di casa a dicembre", e altre espressioni simili, non sono del tutto di mio gusto.
    E un attenzione in più alla punteggiature non avrebbe avrebbe fatto male.
    Ma non è questo che non mi soddisfa a pieno. Non so dirti bene cosa.
    Se dovessi proprio tentare una spiegazione: lo trovo freddo, privo di ogni forma di empatia con i personaggi ma anche con i lettori.
    Chiedo venia
     
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    Penna furiosa

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    Mi è piaciuto molto. L’autore si muove con cognizione di causa tra fabula e intreccio, come un ragno da un punto all’altro della sua tela. Affascinante.
     
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    Penna furiosa

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    Davvero un buon pezzo, con una buona storia e bei personaggi. Lo stile mi pare di riconoscerlo, forse questa volta ti ho scovato autore.
     
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    Penna suprema

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    Ogni tanto torno sul racconto per vedere se Love ha aggiunto qualcosa.
     
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  14. Cristina Lombardo
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    Devo ancora leggerne alcuni, rileggerne molti e fare i conti, ma questo racconto mi è piaciuto parecchio e se la gioca tra i miei preferiti. Rimanda a tanti film visti, il che non è il massimo in quanto a originalità, che non é fondamentale secondo me. Ottima scrittura, l'incoerenza c'è, c'è tutto quanto potessi volere.

    Qualche refuso, soprattuto degli a capo, assenza di spazio dopo i punti di sospensione e presenza di spazio dopo l'apostrofo. Ma come ripeto sempre i refusi non contano per il giudizio. Li segnalo solo per fare un favore all'autore.
     
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    Penna furiosa

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    Carina la trovata dello pseudonimo con le iniziali dei nomi!
    Buona l’idea, racconto ben scritto e ben costruito.
    Oltre all’incoerenza di Ortega, c’è anche quella del pubblico dei lettori, sulla cui morbosità si punta per risollevare le vendite: lettori di storie d’amore, attirati dal passato sanguinario degli autori.
    Invece ho qualche dubbio sul genere. Qualcuno ha parlato di metaracconto, ma, sinceramente, non è quello che ho in mente io, come metanarrazione. Forse biografico?
    Manca qualche virgola (“ne ho bevuto solo uno mamma”, ci vuole la virgola prima di “mamma”; quasi sempre non metti la virgola, in questi casi); “dà” voce del verbo dare va accentato. Della formattazione ti hanno già parlato.
    Gusti personali, ma una narrazione così, al presente, mi fa subito risuonare in mente la voce di Lucarelli a “Blu notte”, vale a dire che mi crea una sorta di distacco.
     
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