Il gioco delle parole automatiche

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    Dio della penna

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    “Facciamo un gioco?”
    Luisa si arrampica sul letto fino a raggiungere l’apice di un cuscino quadrato. Si mette a gambe incrociate e sorride. Sotto questa luce appare ancora più bella, siamo quasi al tramonto e il sole color arancio viene velato dalle tende crespe. Sembrano quasi un cristallo di sale, le tende spiegazzate, oppure una roccia fantascientifica bioluminescente.
    “Che gioco?” le rispondo.
    “È una cosina che ho inventato io. Hai presente la scrittura automatica? Quella che fanno i medium e i surrealisti?”
    Scuoto la testa.
    “Praticamente si tratta di scrivere tutto quello che ti viene in mente senza pensare, senza riflettere. C’è chi dice che così ci si mette in contatto coi fantasmi, o col tuo spirito guida o col tuo istinto; io non la so la verità però so che vengono fuori delle gran figate, roba da brividi in tutti i sensi. Io però, lo sai, sono disgrafica e quindi faccio la stessa cosa ma a voce, tanto poi quello che dico me lo ricordo. Ti va di farlo insieme oggi?”
    La mia capacità soprannaturale di intercettare doppi sensi mi fa deglutire un rospo gigantesco. Smettere di pensare, smettere di riflettere? Impossibile! Ragiono alla velocità della luce anche quando dormo, la mia mente è un criceto impazzito che corre sulla ruota instancabilmente, un criceto dotato di un cuore particolarmente saldo. Non si può chiedere a un criceto impazzito di fermarsi e magari bersi anche un buon caffè comodo comodo in veranda.
    “Cavolo sembra difficile, ma proviamoci!”
    Queste parole mi escono dalla bocca cariche di una sicumera inesistente, sarebbe stato meglio tagliarsi un dito piuttosto che abbandonare questa stanza e la possibilità di giocare con lei.
    “Vai tranquilla Ale, all’inizio anch’io mi sono sentita stupida e tutta rigida ma se ti rilassi un po’ le parole vengono da sé. Tanto te ne accorgi quando pensi e quando no, senti come un geyser che pretende di uscire e poi puff! viene fuori e ti accorgi di non sapere il perché. Quando pensi invece è tutto più macchinoso, ragionato non ti puoi sbagliare. Aspetta che cambio musica così ci mettiamo nel mood giusto”
    Luisa si allunga come un gatto per smanettare col computer in cerca di una colonna sonora, senza abbandonare col culo e col bacino il suo cuscino. Stacca l’album di Elisa di quando cantava sempre in inglese e una bolla di silenzio colma l’aria.
    “Accecciati sul letto, su!” mi dice senza guardarmi.
    E io lo faccio e mi ritrovo a un braccio dai suoi piedini ballerini che avvolti nei calzini vanno in su e giù seguendo un ritmo che solo lei può sentire. Potrei provare ad afferrarli e stringere quelle caviglie che mi fanno mozzare il fiato, ma il confine con l’inopportuno mi blocca e resto a guardarla, semidistesa e sghemba come una Venere dello spaparanzo. Finalmente il suono di strumenti di cui non conosco il nome sblocca quest’attimo di imbarazzante attrazione e una voce che sembrano almeno tre copre il silenzio.
    “Cazzo questo tizio sembra un didgeridoo, forte! Che roba è?” le chiedo curiosando.
    “È un duulal, tipo un canto mongolo. Incredibile vero? È un modo di cantare che insegnano ai monaci fin da bambini. ‘Sti qui non solo riescono a cantare con le false corde, che sono delle corde vocali che non usiamo da migliaia di anni, ma fanno anche vibrare degli ossicini sottili che ci sono un po’ dappertutto nella faccia soffiandoci l’aria addosso. Assurdo no? In questa maniera possono fare fino a sette suoni insieme, tutti intonati!”
    “Che animali potenti!” le dico, ma intanto penso a quante cose sa! Essere figlia di un musicista professionista e di una professoressa in storia dell’arte deve aver dato i suoi frutti. Ha sempre qualche curiosità da raccontarmi e qualche cosa bellissima da farmi vedere, anche solo la sua stanza con tutte le statuette tribali e i quadri con creature mostruose è un’opera d’arte.
    “Ma bando alle ciance e ciancio alle bande, cominciamo ufficialmente il gioco delle parole automatiche!”

    Luisa si fa sul volto improvvisamente seria e inizia una serie di lunghe inspirazioni ed espirazioni a occhi chiusi, con il respiro a tempo con le musiche e coi canti, come se fosse un ulteriore spirito appartenente a quella voce polimorfa. Dopo qualche secondo all’improvviso si risveglia e con la voce ferma e lo sguardo assente dice:
    “Ho visto un luogo tutto buio e un sole rotolarci dentro. Tutto si è illuminato ma è rimasto un angolo dove faceva fresco. Fuori riuscivi a vedere ma lì dentro stavi al sicuro.”
    Fece una risatina nervosa mentre io la guardavo a bocca aperta.
    “Wao! Mica lo so se mi riesce una cosa del genere” le dico, seriamente preoccupata di fare una figuraccia.
    “Te l’ho detto, rilassati e vedrai che qualcosa uscirà da sola. Fai i tuoi bei respiri e prenditi tutto il tempo che ti serve, specialmente le prime volte un po’ di tempo ci vuole” mi tranquillizza.
    Annuisco e la imito chiudendo gli occhi. La musica ha preso una deviazione che ha un che di mediorientale e in mezzo a questo fascino provo a spengere il cervello, ma dopo tre secondi mi accorgo che è impossibile, non riesco che a pensare alla mia storia, come se poi le persone fossero solo una storia, non una serie infinita di particelle collegate dal soffio degli eventi. Ma la mia storia, sempre più forte, appare nella mia testa sgretolando come una tempesta di sabbia le mura di morbido tufo della mia maschera di serena tranquillità.

    Avere quindici anni non deve essere facile per nessuno, figuriamoci per una ragazzina come me che ha appena scoperto di essere attratta dal lato non consono della sessualità. Non è facile no, anche perché diciamoci la verità il nuovo millennio non è ancora arrivato e non sembra essere vicino all’orizzonte. Le lesbiche sono ancora delle ragazzine un po’ zoccole che limonano fra loro per attirare l’attenzione, gente scorretta che gioca alla volpe e l’uva con gli ormoni dei giovani maschi. So come funziona se cerchi di venir fuori, ti becchi della troia e il tempo di uno sputo e tutti lo sanno in questo paese di settemila anime scarse, tutti, pure a casa. E i tuoi? Faranno finta di non sentire? Oppure s’incazzeranno colpendoti con l’ira o col mutismo? Ci sono tanti possibili futuri in questo caso ma a nessun genitore piace avere la figlia che è la zoccola del paese. Oppure la lesbica, non fa differenza, anche peggio. Un essere femminile che rinuncia alla maestosità delle penetrazione in cambio di strusciamenti senza senso. Quale mostro, quale folle può fare una scelta del genere? Un essere depravato.

    Sento una mano toccare la mia e all’improvviso il bollore della mia esistenza viene trasformato in un più semplice calore umano. Ma la tristezza non mi abbandona. Quando smetti di raccontarti cazzate su te stessa inizi a raccontarle agli altri, a tutti, siano persone inutili o pezzi di cuore. Ama un uomo e le stanze non avranno più pareti ma alberi, ama una donna e tutte le camere, anche la più bella, assomiglieranno a scatole chiuse, scocciate sul fondo e sulla cima.
    “Questa stanza ha più pareti che angoli!”
    Mi esce diritta come uno spruzzo di balena, senza che neanche la capisca, senza che neanche l’avessi chiamata. Apro gli occhi. Luisa è lì che mi squadra con lo sguardo nocciolato imbevuto da una certa ammirazione. Adesso la sua mano sembra ancora più vicina, come se toccasse anche sotto la pelle, come se s’infiltrasse nei miei canali linfatici.
    “Grande!” mi urla “l’ho capito subito che erano parole automatiche. Che animo, che poesia!”
    Mi viene da arrossire che non sono abituata a ricevere complimenti, non per queste cose. Per la pagella, per le gare di salto in alto, per l’aspetto impeccabile con cui mi presento ai pranzi di Natale,di fronte a tutti ai parenti. Sono un’Alessia un po’ troppo perfetta per i miei gusti che però è così difficile da abbandonare. Comoda, brava Alessia, forse non voglio neanche perderti.
    Stavolta Luisa mi prende entrambe le mani e me le posa sopra le ginocchia. Le sue rotule sono fredde mentre le mani bollenti, così le mie sembrano un panino dell’autogrill scaldato male sulla piastra. E come un panino in parte mi fondo, in parte mi irrigidisco, in parte mi sbriciolo, in parte mi accroccantisco, in parte appassisco, in parte mi brucio, sporcando tutto quello che ho intorno con i miei succhi fuoriusciti. Quante me in quelle dita che risalgono la strada per le cosce lente come limacce. Quante me in quelle unghie che grattano all’insù la conca dei suoi palmi come fosse la volta di una caverna millenaria. Quante me in quella generale glaciazione che micromizza i miei movimenti.
    Le sue parole quasi mi esplodono in faccia: “Se è tuono, tempesta! Se è fuoco, scintilla!”
    “Tocca di nuovo a te” mi dice poi senza darmi il tempo di commentare, e per l’ennesima volta le sue palpebre scendono giù come serrande, dandomi il tempo e l’occasione per guardarla bene. Mi attorciglio osservando i suoi capelli ricci che si avvolgono attorno al confine dell’orecchio cadendo appena sul collo, con un ricciolo che sembra indicare quella bocca piena e chiara che mi chiama con una voce muta. Non riesco a spingere la vista più in basso sul quel corpo che mi fa vacillare, per non dover resistere all’inevitabile. Provo allora a meditare un po’, ma una sola domanda mi si affaccia alla finestra dei pensieri. Devo dirglielo? Il silenzio è accogliente e sicuro ma anche una terribile prigione che non sopporto più. Un anno è passato da quando sui banchi di scuola avevo capito che la mia ammirazione per la sua bellezza non era invidia né un senso estetico superiore, ma il nascere di qualcosa che fino ad allora non avevo mai scoperto. Era il suono di qualcosa di forte, si potrebbe chiamare cotta oppure amore, non lo sapevo ancora. Era il suono di qualcosa di forte, che non conosceva propagazione. La cortina di bugie funzionava bene con chi contava poco e nulla, tremava un po’ contro il viso serio di mio padre durante le cene, ma era qualcosa di insostenibile accanto a lei. Mi ricordava quella volta in cui avevo mangiato un fico d’India sbucciato male riempendomi la bocca di spine. Neanche con i gargarismi fatti con l’olio erano riusciti ad attenuare il dolore che provavo ogni volta che una fra le millemila fibre muscolari della lingua si muoveva. Era stato orribile ed è suppergiù quello che sento adesso. Non posso parlare perché solo impostare le consonanti mi fa stare male, non posso ingoiare quelle spine perché mi bucherebbero l’esofago, e non posso neanche aspettare con la bocca chiusa perché questo sapore di olio d’oliva in bocca, aspro come Giuda, mi fa letteralmente vomitare. Le parole che avrei voluto dirle non uscivano automatiche ma si bloccavano come incastrate fra ingranaggi che saltavano al solo realizzare certe emozioni, e io mi sentivo come un androide scarico e quasi rotto che si chiede con la spina in mano come fare per prendere corrente. Avrei voluto dirle e non dirle tutto perché lei era allo stesso tempo la mia divina signorina e la mia ghigliottina. E non è la paura di perdere la testa che ho già perso da mo’ che mi blocca, è la paura di non avere più accesso a questo letto, di non avere accesso a questo viso, di non potermi più affacciare sul mondo allo stesso modo. Mi accorgo che non faccio più lunghi respiri, sospiro un po’ affannata come avvolta da una patina che mi tiene scollata dal mondo concedendomi il mio personale universo.
    “Cade una goccia. Clop e il silenzio non c’è più. Ne cade un’altra. Clop e il silenzio torna ancora. Ogni volta un po’ più grande, la goccia, il silenzio. E mentre si gonfia, la goccia, il silenzio, c’è qualcosa che diventa piccolo, così piccolo che goccia dopo silenzio scompare e non ci ricordiamo più di cosa fosse fatto.”

    Sento che tremo come se facesse freddo o avessi fatto uno sforzo enorme e ancora immersa nel mio buio sotto le palpebre mi sento sbalzare da un abbraccio che è quasi un placcaggio per la forza. Finisco con la schiena sulle lenzuola e stavolta sì che voglio vedere quel volto tanto desiderato a un alito di distanza. Non riesco a dirle di sì, non riesco a dirle di no, rimango paralizzata con le mie dita sulla schiena e il suo collo aperto poco sotto il suo sguardo indecifrabile. Forse sono gli occhi lo specchio dell’anima o forse gli occhi sono uno specchio e basta perché riesco a vedermi, intimorita e senza fiato a respirare l’aria che spira da quella bocca che sembra masticare il mio stesso fico d’India. Non so dire se improvvisamente o se con infinita lentezza quella bocca si avvicina tanto da toccarmi ma quando la sua lingua mi schiude come uno spicchio maturo di arancia, non sento spine né aspro sapore d’olio, solo un bacio, bianco, il mio primo. E la mia codardia diventa solo stupidità quando mi lascio cuocere da quel tocco che si espande sulla pelle che nel frattempo è diventata un involucro senziente della mia anima, con il mio corpo sussultante a singhiozzi e il suo fremente e magico. Neanche adesso il criceto impazzito sembra fermarsi, mi appaiono come sponsor le nostre parole automatiche, sono nell’angolo fresco, nella mia scatola chiusa, ma sono anche la tempesta che succede al tuono e la goccia che rompe il silenzio. Infilo le mie mani sotto i suoi capelli umidi di un sudore che profuma d’erba e la avvicino a me tirandola per l’elastico dei pantaloncini. Non so ancora se è riuscita a capire quel che sentivo dal mio goffo tentativo di esistere o se eravamo affacciate allo stesso baratro e lei ha avuto il coraggio di lanciarsi, ma tutti questi pensieri incominciano a diventare evanescenti quando il suo tocco arriva sotto al reggiseno come desideravo da troppo. Il gancio mi tira sulla schiena sotto la sua foga, ma non è un dolore, è solo una componente fantastica di quest’attimo eterno. Affondo il mio bacio sul suo collo rigandolo coi denti e lenendolo con la saliva e mi sale su per il naso un odore che non dimenticherò mai. Stesa su quel letto, morta di felicità, con le gambe e le braccia imbrigliate come croci di Jina, mi sento alla stesso tempo impossessata e totalmente me stessa come se i pensieri automatici si allontanassero e avvicinassero insieme.
    “Tutto questo è molto bello” mi sussurra Luisa all’orecchio e io non le rispondo.
     
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    Francamente? Non rinvengo né genere né tema. O comunque il tema è un pretesto. Un po’ come certi film porno dove le situazioni sono create ad arte per portare ...fino lí. Molti amori saffici in questo step, forse troppi. Niente da dire sulla scrittura, ma la storia non mi ha convinta.

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    Penna suprema

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    Solita bravura di un autore che passo dopo passo la consolida.
    Pure l'amore saffico gli riesce bene.
    La sua teatralità lo aiuta.
     
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    Scrivano

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    Scrittura efficace, descrizioni plastiche e visive, molto cinematografiche, forse un po' troppo per i miei gusti, ma in effetti consone al genere rosa. Bye
     
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    Scrivano supremo

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    Ciao Aut-

    Mi hai fatto impazzire con "accecciati". Poi ho scoperto che significa semplicemente "siediti". Troppe riflessioni: lo svolgimento al presente dovrebbe essere più rapido, è vero che Alessia riflette molto e parla poco, ma in alcuni momenti mi è sembrato che il tempo si dilatasse a dismisura. Poi ci sono riflessioni di Alessia che mi lasciano perplesso, ma sono un maschio e attendo i commenti femminili.

    :emoticons-saluti-6.gif?w=593:

    Un romance f/f adolescenziale secondo me migliorabile. Entrambi i personaggi sono caratterizzati e lo stile di scrittura è corretto, piacevole da leggere.
     
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    Penna furiosa

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    Racconto scritto tecnicamente in modo corretto (a metà hai lasciato una frase al passato, in mezzo alla narrazione al presente, ma credo sia un refuso non eliminato in fase di revisione).
    È però un tipo di scrittura che io faccio fatica ad apprezzare, pieno di descrizioni e riflessioni che mi causano una sensazione di stanchezza e il desiderio di andare oltre.
    Il genere credo sia il rosa, anche se mi è mancata la costruzione di una storia, qualcosa che mi coinvolgesse. Il tema… non so… ci penso.
     
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    Penna furiosa

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    L'inizio mi aveva incuriosito molto, poi però l'entusiasmo iniziale è un pò calato. Anche io come Achillu e Arianna ho avuto la percezione di una certa prolissità, con troppi pensieri e riflessioni. Secondo il mio parere una procedura di snellimento potrebbe migliorarlo.
     
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    Penna stilografica

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    Una storia che mi ha veramente coinvolto per la forma in cui è scritta. Forse un paio di errori di sintassi ma assolutamente innocui. Normalmente mi obbligano a fermare la lettura ma qui non è successo. Forse la mia curiosità nel poter finalmente leggere la mente di due adolescenti che scoprono l'amore. Ti riservo un punto poi vedrò se posso mantenerlo.
     
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    Dio della penna

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    Rosa? Ho un'altra idea del rosa. Secondo me sarebbe andato bene per il genere erotico. Scritto bene si. Piaciuto no.
     
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    Dio della penna

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    Le parole non dette nascono nel surreale confronto che apre la porta dell'espressione di se stessi. Un racconto ben scritto che ci fa conoscere aspetti di vita che appartengono in diversi modi alla vita dell'uomo. Complimenti!
     
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    Bello questo flusso di coscienza adolescenzial-erotico. L'impossibilità di comunicazione dovuta alla paura di non essere accettati. Piaciuti anche il gioco e le musiche.
    Forse non proprio una storia rosa, più un episodio di sesso, ma piaciuto
     
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    Penna d'oca

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    Un racconto rosa che tende a volte più al rosso eros o al grigio psiche. La forza e la debolezza è una struttura molto solida e ripetitiva come una canzone soul, le piccole variazioni giocano sulle stesse emozioni e quindi possono annoiare o comunque difficilmente stupire.
     
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    Penna d'oca

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    Della congruità col genere non me ne curo. Se il comitato centrale l'ha accettato, per me va bene. Mi devo valutare solo se mi piace.
    Allora mi piace? Si e no. Ben scritto e coraggioso nel tema. ma c'è qualcosa che non mi convince del tutto. Probabilmente mi sembra poco spontaneo e troppo ragionato.
    Comunque una cosa che vale la pena leggere, e alla fine ci potrebbe anche stare in una eventuale cinquina di merito.
     
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    Penna furiosa

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    Accipicchia, che racconto potente.
    Analisi millimetrica di un'adolescente, turbinio di sensazioni descritte in modo eccellente.
    La nascita, la consapevolezza di un amore diverso, mi hanno condotta dentro l'animo umano di questa ragazzina, che forse grazie al coraggio dell'altra, decide di osare lasciandosi andare.
    Hai reso in modo superbo tutta l'incertezza, il terrore, la paura di deludere e allo stesso tempo di veder sfiorire il suo primo sogno d'amore.
    Complimenti davvero
     
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    Penna stilografica

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    Ti va di farlo insieme oggi?”
    La mia capacità soprannaturale di intercettare doppi sensi mi fa deglutire un rospo gigante

    il pezzo più apprezzato.
    Incomunicabilità intesa come paura di comunicare più che incapacità a farlo.
    Rimane a mio avviso incompiuto, perché quando si decide di osare bisogna andare fino in fondo e qui si accenna una strada e poi se ne segue un'altra. A volte può essere sorprendente altre insoddisfacente.
     
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