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La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive. Livia aveva letto ad alta voce quell’incipit con trasporto, come se stesse rivelando al mondo il terzo segreto di Fatima. «Balle, tutte stronzate!» Mirna sbottò colpendo con il palmo della mano il comodino, quindi con uno scatto repentino, le strappò il libro di mano e lo chiuse con rabbia. La foto sbiadita dei suoi vent’anni sussultò leggermente rischiando di rovinare a terra e frantumarsi, mentre un refolo di polvere nascosto dietro la cornice si sollevò volteggiando leggero nell’aria. Livia tenne a bada l’istinto di risponderle a tono. «Che c’è che non va in quello che ho letto? Io, lo trovo straordinario.» Se avesse buttato una goccia d’acqua in una padella con l’olio bollente, non avrebbe ottenuto lo stesso effetto. La donna schizzò fuori dal letto strillando: «Ah, sì? Chi si accontenta gode, vero? Tutte cazzate da sfigati, ecco come la penso.» «Cerca di non essere volgare.» «Oh, la sorella si offende!» Livia glissò, consapevole che una reazione avrebbe provocato un putiferio. Posò un bicchiere colmo d’acqua sul comodino, accanto alle pillole: due mezzelune pallide. Mirna aprì la bocca come per ricevere la comunione, si attaccò al bicchiere e bevve con avidità pulendosi le labbra con il dorso della mano. La crisi era scongiurata. Livia le rimboccò le coperte e deterse con cura la fronte imperlata di sudore. Mirna le rivolse uno sguardo assente prima di congedarla. «Ora vai, è tardi. Ah, prima di uscire porta via quella porcheria» disse indicando il libro. Livia infilò in fretta il cappotto, si accomodò i ricci sotto un cappello di lana cotta a tesa larga, con lo sguardo perso a cercare dentro di sé un motivo per tornare l’indomani. Prese il romanzo, lo infilò nella capiente borsa di tela con il logo della “Libreria Castello”, e uscì dalla camera senza emettere un fiato. Scese le scale di corsa, trattenendo le lacrime di frustrazione che bussavano con insistenza sotto le palpebre. “Le più pazienti hanno resistito al massimo per due settimane”, le parole di padre Emiliano rimbalzavano da una tempia all’altra. Aveva cominciato a occuparsi di quella donna già da tre mesi e, se “avesse gettato la spugna”, rifletté, “non sarebbe stato poi così grave”.
La Libreria Castello offriva un servizio in collaborazione con la struttura diretta da padre Emiliano Cardelli. L’idea era quella di portare il conforto della lettura di un buon libro a chi soffriva di solitudine o depressione. Livia aveva aderito alla proposta con entusiasmo, donare parte del proprio tempo a fin di bene non poteva nuocerle; quindi, oltre a fornire i libri, si era offerta come volontaria per quel servizio di lettura a domicilio. Certo Mirna l’aveva messa a dura prova più di una volta, ma c’era qualcosa di magnetico in quella quarantenne sfiorita e lei non riusciva a sottrarsi a quel potere. Una buona doccia, ecco quello che ci voleva. Livia adorava sentire il lieve picchiettare delle gocce sulla testa e lasciarsi allagare il volto dall’acqua tiepida restando a occhi chiusi. In quell’istante perfetto, le tensioni si scioglievano cedendo il posto a una deliziosa sensazione di benessere. L’acqua scivolava sulla pelle liberando i pensieri. Allora, si tappava le orecchie per ascoltare il ritmo del proprio battito cardiaco. Quella musica ancestrale la riportava dentro al grembo materno come se, in quel preciso momento, la vita, scorrendo a ritroso, le concedesse il tempo di ricordare di quando aveva quasi cinque anni e si era ritrovata catapultata a Bagni di Lucca.
La piccola casa è immersa nel verde e nella solitudine della campagna lucchese. Poco lontano dall’abitazione scorre un torrente che, a causa della siccità estiva, è ridotto a un rigagnolo insignificante e facile da attraversare. Sull’argine opposto, un contadino ha realizzato un orticello e un pollaio, unico segno tangibile della presenza umana nei paraggi. Quel luogo diventa ben presto il proprio rifugio preferito. Ogni giorno, lei resta ore a osservare le galline di nascosto e, sicura di non essere vista, parla e a gioca con loro. Da quando le ha scoperte, non si è più sentita sola: Esterina, Cocca, Piumetta e Beccuccia sono le amiche migliori che abbia mai potuto desiderare. Un pomeriggio, il contadino si avvicina alla rete che delimita il recinto e, con sua grande sorpresa, aprendo il cancelletto, la invita: “Entra pure, devo consegnarti un regalo da parte di Piumetta.” Si sente avvampare per la vergogna di essere stata scoperta; il cuore perde almeno un battito e le gambe non riescono a decidere se correre verso casa o accettare l’invito di quel vecchio. L’uomo indossa stivali in gomma alti fino al ginocchio, dei pantaloni chiazzati di fango e una camicia a quadri bianchi e blu. Annodato sul collo ha un fazzoletto scuro da cui spunta un ciondolo con la foto in bianco e nero di una bambina; sulla testa porta un cappello di paglia un po’ logoro. Non lo ha mai osservato così da vicino perché, quando lo sente arrivare, scappa sempre via di corsa per non farsi vedere. Ora, quegli occhi la fissano in attesa di una risposta e sembrano occhi buoni. Il pollaio, che visto da fuori pare una casetta da fiaba, è una costruzione in legno così bassa che l’anziano deve curvare le spalle e piegare le gambe per passare dalla porta. Lei, al contrario, ci riesce senza alcuno sforzo ma, una volta entrata, la delusione è grande: piume ed escrementi dappertutto. La finestrella, senza vetri, rivestita di una fitta rete metallica, non è sufficiente per aerare adeguatamente quel luogo e la poca aria che circola è irrespirabile. Il contadino comincia a rovistare in mezzo a una specie di pagliericcio borbottando tra sé e sé, mentre lei stringe con forza le narici tra il pollice e l’indice per non sentire quel cattivo odore respirando a fatica solo con la bocca. “Ah, eccolo qua... Trovato! Questo è per te.” Si stupisce nel vedere come quelle mani grosse, ruvide e callose riescano a sorreggere un uovo con tanta delicatezza. “Apri le manine e fai attenzione, non lo stringere ché si rompe.” Mette le mani a conca per accoglierlo. È ancora tiepido e lei non si accorge subito di quanto sia speciale. Quando esce all’aperto, l’osserva meglio. Il guscio è tutto pieno di disegni colorati! Ci riconosce: la faccia di una bambina che le somiglia molto, con le lentiggini e le trecce bionde proprio come le sue, una gallina color terracotta col becco e le zampe di un arancione vivo e un occhietto nero e vispo e poi, tanti fiori e alcune lettere. Non ha mai visto un uovo simile. Continua a rigirarlo tra le mani, incredula e orgogliosa. È un dono inatteso, non ha fatto nulla per meritarlo, non è neppure il suo compleanno. Non sa ancora leggere e così, curiosa, chiede cosa ci sia scritto. Allora, il vecchio tira fuori dal taschino un paio di occhiali con le lenti mezze incrinate, li indossa con misurata lentezza e, avvicinatosi al guscio, lo esamina come se lo vedesse per la prima volta; quindi, comincia a sillabare con voce incerta: “Li... Liv... Livia!” “Ma Livia sono io! Allora è proprio per me! Ma come fa Piumetta a sapere come mi chiamo?” “Le galline sono animali un po’ magici. Si vede che le stai simpatica.” Non le servono altre spiegazioni, è al settimo cielo. "Posso andare a ringraziarla?” L’uomo sorride e fa un lieve cenno di assenso con la testa, mentre la segue con lo sguardo pieno di nostalgia e di tenerezza.
Livia lasciò che l’acqua scorresse sul collo. Era stato bello ritrovare quell’emozione, quella gioia incontaminata. Ripensò alla reazione di Mirna e alla decisione di non tornare più da lei. Non era la prima volta che sentiva l’esigenza di distaccarsi, anche se, alla fine, aveva sempre trovato un’ottima scusa con sé stessa per non farlo. Uscì dalla doccia e si avvolse nell’accappatoio caldo e profumato di pulito, quindi cercò il conforto della musica: le note di Cry me a river invasero la stanza, perfette per quel momento. Cercò il cellulare e compose il numero di padre Emiliano: due squilli e riattaccò. Non era ancora il momento di arrendersi. Scese dal letto con i pensieri e lo stomaco aggrovigliati. Aprì il frigorifero, ne estrasse un uovo, poi lo depositò sul tavolo e cercò dei pennarelli. Disegnò un cuore, un fiore e scrisse il nome: Mirna. Poi, accese il pc, si scrocchiò le dita e iniziò a pestare sui tasti con foga. Non era certa che la sua idea potesse funzionare, ma decise ugualmente che valeva la pena fare un tentativo. Era immersa nella scrittura, quando lo smartphone cominciò a vibrare: «Ciao Livia, ho visto che mi hai cercato.» «Buonasera padre, deve essere partita una chiamata per errore, va tutto bene.» L’odore buono del caffè saturò la piccola cucina, mentre il leggero stridore della stampante faceva da sottofondo sonoro. Chissà come avrebbe reagito Mirna ascoltando quella storia.
Suonò il campanello piena di aspettative che neppure i passi strascicati e pesanti della donna riuscirono a smorzare. Mirna indossava una vestaglia slargata, di un colore rosso sbiadito, pantofole fuori misura, aveva i capelli in disordine e la voce impastata quando, dopo qualche minuto, le aprì: «Hai coraggio, sorella.» Livia non si lasciò intimidire, era decisa a portare un granello di gioia in quella vita sciagurata. Avrebbe condiviso con lei il ricordo del suo primo attimo felice. Quell’istante in cui l’Universo intero sembra accorgersi della tua presenza e ti fa sentire viva. Un atto d’amore che avrebbe sancito il senso di quella strana simbiosi che si era creata tra loro. Lesse il racconto come si legge una fiaba a una bimba e Mirna non la interruppe mai. Infine, tirò fuori dalla borsa il pacchetto che conteneva l’uovo che aveva colorato per lei e glielo porse, cercando il contatto di quelle mani. La donna la fissò e, per un istante, a Livia parve di cogliere la piega di un sorriso su quel volto: un piccolo lampo prima della tempesta. L’ennesima crisi sopraggiunse con insolita violenza spezzando, con fragore inatteso, quel filo invisibile che le teneva unite. Di quello, non restò che un moccio d’albume a colare dai capelli. «Pronto, padre Emiliano?» Al terzo squillo l’uomo rispose e Livia non riattaccò: non sarebbe più tornata da Mirna. Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano. "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
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