Crepe nei muri

aut. Arianna2016

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  1. mangal
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    Dio della penna

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    - Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
    ‒ Che roba è?
    ‒ L’incipit… ‒ Si ferma. Chiunque egli sia, deve aver colto la mia perplessità, perché chiarisce: ‒ L’inizio di un romanzo famoso.
    ‒ E cosa sarebbe un romanzo?
    ‒ Una storia lunga. Scritta in un libro.
    ‒ Famoso dove? Mai sentito niente del genere.
    A onor del vero, devo dire che di solito non mi esprimo in modo così poco educato, ma qui, in questa bruma della terra del sogno, mi sento un po’ diversa, e queste conversazioni con un uomo che vedo e non vedo, reso indistinto dalla perenne foschia, le sento strane ma, allo stesso tempo, normali e familiari, anche se non capisco perché. Non che mi importi capirlo. Ci ho rinunciato da un pezzo. Sono diventata saggia, dopo la prima cura.
    Sono sempre stata obbediente e ossequiosa alle regole. Così un giorno, alla quotidiana domanda del mio Supervisore, “Tutto bene? Qualcosa da riferire?”, non mi è passato per la mente di non parlare dei sogni che avevo iniziato a fare. Nemmeno sapevo che si chiamassero così, sogni, me l’ha detto il Supervisore. Mi ha ascoltata con attenzione.
    Niente che non si possa risolvere, ha concluso infine. Troppo tempo libero. La mente deve essere occupata in ogni istante. La cura migliore è il lavoro.
    Non che prima non ne avessi delle tonnellate, ma da quel momento sono stata sepolta di lavoro.
    Accompagnato dalla pressante richiesta di un minuzioso controllo. Tutto deve essere perfetto, ripete sempre il Supervisore. Nulla può essere concluso se non è rifinito in ogni particolare, sottolinea.
    E io sono obbediente. Controllo e perfeziono fino alla sfinimento. In un lavorare eterno, senza limiti, senza fine.
    Sono brava e obbediente. Ma quando i sogni sono ricominciati, ho pensato bene di tenermeli per me.
    E queste assurde conversazioni senza scopo e senza tempo, devo ammettere che sì, un po’ mi inquietano, ma insieme un po’ mi divertono, credo si dica così. Non conoscevo questa parola, divertire, non l’avevo mai sentita e, anche adesso che l’uomo me l’ha insegnata, non la capisco molto bene, ma credo sia adatta per la sensazione che provo quando parlo con lui, di qualcosa che mi solletica il petto e mi fa alzare gli angoli della bocca, che mi fa sentire di potere essere diversa da come sono quando lavoro. Che mi fa sentire di potere osare, nel chiedere e nel rispondere. Senza paura. Senza la necessità che tutto debba avere per forza uno scopo.
    Quello che poi oggi ha tirato fuori, mi sembra davvero senza senso.
    ‒ Non ti dice niente? ‒ C’è un’ombra di attesa, nella voce dell’uomo.
    ‒ Mi dovrebbe dire qualcosa?
    ‒ Speravo fosse una crepa…
    Come dicevo, assurdo. Specialmente qui, in un luogo che un luogo non è, dove nulla ha consistenza.
    ‒ Le crepe sono nei muri.
    ‒ Non solo. Ci sono muri diversi. Dove si fa una crepa e il muro si sgretola, può attecchire un seme, possono crescere radici potenti e profonde. Fare crollare il muro, con un po’ di tempo e fatica.
    Mi sveglio di botto.
    Aspetto ad aprire gli occhi. Ho paura di perdere la frase che l’uomo del sogno ha chiamato incipit. Me la ripeto e me la ripeto in testa, per ricordarla, ma ho la sensazione di fare qualcosa di riprovevole.
    Tra l’altro, una frase mai sentita prima, che mi sembra non significhi assolutamente niente. Senza alcuna importanza per me.
    Che continuo a rotolarmi in testa per tutto il giorno.
    Felicità, infelicità. Nulla che c’entri con me. Felicità, infelicità: due categorie senza senso e inappropriate alla mia vita.
    Io esisto, e altro non c’è.
    Perfezione, imperfezione. Le parole mi appaiono all’improvviso in testa, e non capisco perché, cosa c’entrano con gli altri pensieri.
    Quattro palline che mi rotolano nella mente, senza che io ne capisca il motivo.
    Imperfezione. Crepa. Crepe. Crepe nei muri. Ma questa volta sono muri reali. Sono quelli del corridoio che percorro per andare su e giù tra gli uffici. O io non le avevo mai viste prima, o si sono aperte oggi, e devono essere anche preoccupanti, considerata la velocità con cui è comparsa una squadra di muratori che si affannano per chiuderle.
    Lavorano in fretta e in silenzio, lo sguardo basso che non incrocia mai il mio.
    Mi piacerebbe rimanere un po’ a osservarli, ma vengo richiamata di corsa dal Supervisore.
    A sera i muratori sono ancora lì: sembrano quasi rincorrerle, le crepe, perché si vedono chiaramente i segni della stuccatura fresca su alcune, quelle che forse si erano create prima, ma nel frattempo se ne devono essere formate altre, una sottile ed estesa ragnatela.
    Grazie a quella, vedo la porta, al centro.
    La porta deve esserci sempre stata, per forza: non possono averla aperta oggi nel muro.
    Una porta dall’aria anonima, davanti a cui devo essere passata innumerevoli volte. Senza mai notarla.
    Ora invece mi appare come un’evidenza, e non posso più fare a meno di cercarla con lo sguardo.
    Mi sorprendo a desiderare di aprirla. Un desiderio vago, poco convinto, tanto che non ci vuole molto a fermarlo, basta il carrello delle pulizie lasciato lì davanti.
    La porta non deve essere importante, inizio a pensare, se è sempre sfuggita alla mia attenzione. Pian piano mi scivola via dalla mente, perennemente sommersa dal lavoro.
    Non incontro più l’uomo dei sogni.
    Non sogno nemmeno più, per un pezzo.
    Poi una notte sprofondo. Letteralmente: un attimo prima sono lì, stesa sul letto, quasi addormentata, l’attimo dopo sono immersa negli abissi dell’oceano.
    Flutto, leggera, senza peso. Respiro. Respiro sott’acqua. Respiro bene come non ho mai respirato prima.
    Muovo lenta le mani, l’acqua scivola tra le dita.
    E attorno a me nuotano mostri. Creatura marine immense, maestose, pacifiche. Perché sento, so che non mi faranno del male. Non so come, ma io conosco loro e loro conoscono me.
    Mi sveglio annaspando. Ora, qui, mi manca l’aria.
    Nel corridoio degli uffici, trovo uno stuolo di muratori affannati a riparare nuove crepe nel muro. Strisce di nastro bianco e rosso si intrecciano e quasi coprono la porta, su cui è comparso un enorme cartello di divieto di accesso.
    La notte, mi ritrovo immersa nella foschia del sogno.
    Dell’uomo sento solo la voce. Per un attimo. Ma quello che dice è forte e chiaro: trovami.
    Non dice dove cercarlo, ma io, non potrei dire come né perché, lo so.
    Non mi faccio domande per le quali non ho risposte. Tutto questo è strano; più che strano, assurdo, ma allo stesso tempo sento che ha un senso. Non lo capisco, non lo conosco, ma so che c’è.
    Il desiderio di aprire la porta ora è diventato decisione.
    Se c’è bisogno di farla apparire come un ostacolo invalicabile, forse non è vero che non è importante.
    Questa volta non mi fermano le proteste dei muratori, i richiami del Supervisore.
    Strappo il nastro, mi attacco alla maniglia. La porta fa resistenza.
    Come so che non è chiusa a chiave? Che è solo la mia decisione a fare la differenza? Un’altra cosa che non ho modo di spiegare, ma sento che è così.
    Esulto, quando si apre.
    Uno sgabuzzino. È solo un bugigattolo buio. Vecchie scope, ripiani impolverati, scatole rovinate. L’unica lampadina è fulminata.
    Eppure sono arrivata qui. Eppure tutto mi ha portata qui. Qualcosa ci deve essere, anche se non lo vedo.
    Oltre i muri.
    Muri che devono cadere. Imperfezione. Crepa. Crepe. Crepe nei muri.
    Felicità, infelicità. Perfezione, imperfezione. Le quattro palline ricominciano a rotolare.
    ‒ Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo ‒ dico ad alta voce nel ripostiglio buio.
    Perché ho mentito all’uomo del sogno. Non è vero che queste parole non significano nulla, per me. Ho negato più che ho potuto. A lui. A me stessa.
    Non è vero che non dicono nulla. Dicono molto. Dicono troppo. Raccontano cose di cui non ho voglia di parlare.
    Il ripostiglio si dissolve. Sono all’imbocco di un lungo corridoio in penombra, su cui si affacciano altri corridoi, porte e porte. Sulla parete, la crepa. Quella che viene da fuori. Continua qui dentro, si protende fin dove non riesco più a vederla. La seguo. Corridoio. Corridoio. Scale in discesa. Corridoio. Nuove scale. Sempre in discesa, sempre più ripide.
    Non ci sono più muri. Sembrano pareti di roccia. Non ci sono più porte, ma inferriate, a chiudere celle. Umido, freddo, oscurità. Sempre più in basso.
    Finché la crepa termina. Dentro una cella.
    Un uomo è accasciato sul pavimento, quasi raggomitolato. Non ho bisogno di chiedere chi è.
    L’inferriata resiste solo qualche istante. La apro.
    Entro e mi inginocchio rapida di fianco all’uomo.
    Ha gli occhi chiusi. È ferito e dolorante. Geme, quando gli sfioro la fronte, ma apre gli occhi e si sforza di sorridermi.
    ‒ Ha funzionato ‒ mormora.
    ‒ Non capisco molto di quello che succede, ma sì, se stai parlando di quei tuoi strani discorsi e della crepa, sì. Come facevi a saperlo, se nemmeno io lo sapevo?
    ‒ Le ferite… sono crepe. Aprono strade, ponti. Abissi.
    Scuoto piano la testa: ‒ No. Voglio dire come fai a sapere che quella è una ferita.
    ‒ Perché io ti conosco, e tu conoscevi me.
    ‒ Chi sei tu?
    ‒ Qualcuno di cui ti fidi.
    So che è vero. Lo so ma non lo ricordo. E quello che non ricordo mi manca. La nostalgia mi travolge.
    ‒ Perché ti hanno fatto del male?
    Solleva un angolo della bocca in un sorriso lieve e ironico: ‒ I miei tentativi di intrusione non sono stati apprezzati.
    ‒ Per questo ti hanno imprigionato?
    Chiude gli occhi qualche istante, poi li riapre: ‒ Non sono prigioniero.
    ‒ Questa è una prigione…
    ‒ Ma non la mia. Io sono venuto a cercare te. Per aiutarti a trovare la via d’uscita.
    ‒ Da cosa?
    ‒ Da questo mondo in cui credi di vivere. Creato per te. Una prigione senza sbarre. L’unico modo per controllarti.
    ‒ Non è possibile… Sembra tutto così reale.
    ‒ Lo è. Cosa è reale e cosa non lo è? Non sono reali i pensieri, i sentimenti e le emozioni? Non ci fanno compiere azioni? Ci sono differenti tipi di realtà. Se qualcosa non si vede e non si tocca, non significa che non esista.
    ‒ Controllarmi… Perché?
    ‒ In te c’è un grande potere, ma è un potere che può spaventare. Viaggiare tra i mondi, esplorare gli abissi, sia del bene che del male, parlare con i mostri, costruire ponti tra le sponde del buio e della luce. Mostrare l’orrore. Creare bellezza. Ora, fammi la domanda più importante.
    ‒ Chi mi ha chiuso qui?
    Ricordo la risposta ancora prima che lui parli, ma ho bisogno di sentirlo.
    ‒ Sei stata tu. Ti sei rifugiata qui. Quello che tu puoi creare non nasce su ciò che è lucido e perfetto, ma ha bisogno di terra su cui crescere, la terra che si ferma nelle crepe, crepe che scendono nell’oscurità e nascono dalle ferite. Non è sempre facile accettarlo. A volte fa paura. A volte sembra tutto troppo difficile.
    Ora ricordo. Sì, ho avuto paura. Di essere chi sono. Che ora però mi manca.
    Sfioro il volto pesto dell’uomo: ‒ Mi dispiace…
    ‒ Guarirò. Andrà tutto a posto, appena usciremo di qui. Sei pronta?
    Annuisco: ‒ Come?
    ‒ Nello stesso modo con cui hai creato la crepa. Ma ora siamo alla fine della storia: cerca una conclusione.
    La trovo. La penso. Le pareti iniziano a svanire, comincio a vedere qualcosa al di là, ma ancora resistono.
    ‒ Ad alta voce ‒ mi incoraggia.
    Le parole risuonano nella cella, poi vanno lontano: ‒ “Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.”

    Edited by mangal - 29/11/2020, 12:37
     
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