Il testamento di Tom O'Malley

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    Scrivano supremo

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    Mi chiamo Tom O'Malley, sto per morire e questo è il mio testamento.
    Avevo deciso di andarmene senza tante storie, poi Bess ci si è messa di mezzo.
    Bess è mia moglie: una polmonite me l'ha portata via quindici anni fa, ma qui a Galway le persone non se ne vanno mai del tutto. La bruma che sale dalla baia accompagna i visitatori, e
    lei viene da me dopo il tocco del Vespro.
    La sento salire le scale con passo leggero, entra nella camera e si siede nello sgabello fra il fuoco e la poltrona. Ha il lembo del sinale tirato su e infilato sotto la cintura, i capelli candidi sfuggono dalla bella treccia intorno alla testa e Bess se li tira dietro le orecchie delicate.
    Messa così, di spalle al fuoco, ha il viso in ombra e non riesco a distinguere i suoi occhi di lago; tiene la testa china, non dice niente e forse non può, ma so quello che vuole da me: vuole che prima di morire tramandi ai posteri la nostra eredità, che racconti il nostro segreto.
    Ho deciso di accontentarla. Inizio dal principio.

    Sono nato in questa casa nell’anno millenovecentotrentasei.
    Mia madre è morta di tisi quando avevo due anni, mio padre lavorava in una fabbrica di mattoni e la sera, quando tornava, aveva tempo soltanto per mangiare un boccone e buttarsi sul letto;
    sono stato allevato da nonno Bob, il babbo del mio babbo.
    Era un omino minuto, coperto da un grembiulone di cuoio, e profumava di pece; di mestiere faceva il ciabattino e, siccome eravamo poveri, lavorava in un angolo della cucina, con il deschetto sotto la finestra e una scansia appoggiata al muro. Discendeva da una buona famiglia andata in rovina, perciò sapeva leggere, scrivere e far di conto; era una riserva inesauribile di storie bellissime che mi raccontava recitando con le voci dei protagonisti, mentre la lesina e il trincetto volavano sulle scarpe sfondate.

    Avevo otto anni quando nonno è morto improvvisamente, riverso sul suo lavoro. Ero nel cortile dietro casa e non me ne sono accorto, ma per fortuna c’era mio padre. Appena se n’è reso conto, mi ha portato a casa di Mary, la nostra vicina; hanno parlottato un po’, poi mi hanno spiegato che dovevo fare compagnia per qualche giorno alla figlia, Bess, che era indisposta.
    Bess era una bella bambina tranquilla, aveva tre anni meno di me e sembrava in perfetta salute.
    Quando finalmente ho avuto il permesso di tornare a casa, mio padre mi ha preso sulle ginocchia, mi ha raccontato una storia di cieli e mondi lontani e mi ha spiegato che nonno era partito per quelle terre.
    L’ho presa bene: non ci credevo assolutamente, sapevo che era uno scherzo, che “lui” sarebbe tornato, così l’ho aspettato buono, buono.
    Quando mi sono reso conto che l’assenza si protraeva troppo, ho pensato si fosse spaventato per tutte le guerre che c’erano nel mondo e aveva deciso di rimandare il viaggio.
    Ho continuato ad aspettare.
    Il vuoto dell’attesa mi è rimasto dentro anche quando ormai ero un uomo adulto. Ogni figura curva, ogni anziano visto di spalle, mi faceva trasalire e anche adesso che sto per incontrarlo, spero di sentire il suo passo sulle scale e la sua voce che mi chiama:
    - Tommy…

    A venticinque anni, con un diploma in tasca e un buon posto di lavoro, ho chiesto a Bess di sposarmi. Eravamo cresciuti insieme, quasi fratello e sorella; fra noi c’era un’intesa profonda, sentimenti puliti e amavamo le stesse cose. Nessuno si è opposto, tutto è filato liscio come l’olio e ci siamo sistemati in questa che era la mia casa di famiglia, rivista nell’essenziale e con l’idea di accomodarla via via, senza fretta.
    Eravamo sereni, tutto sembrava possibile.

    Quella sera festeggiavamo il terzo anno di matrimonio: una cenetta curata, dei fiori; cose semplici. Dopo aver sparecchiato, Bess è salita di sopra e io, con il naso incollato al vetro della finestra, osservavo la bruma che si spargeva lungo le strade: mi gingillavo per evitare un rognoso rapporto di lavoro che avevo dovuto portarmi a casa.
    È stato un attimo: mi è sembrato di vedere una figura nera che scendeva a precipizio i tre gradini di casa nostra e s’immergeva nella nebbia. Ho fatto schermo con le mani per escludere la luce interna, ma la strada era vuota.
    Stavo per lasciar ricadere la tenda e raggiungere la mia borsa da lavoro, quando ho sentito distintamente provenire dall’ingresso il suono della campanella.
    Impossibile. La campanella era stata messa lì da nonno: suonava quando si apriva il portone ed entrava un cliente, ma era stata tolta subito dopo la sua morte.
    Però io l’avevo sentita. E riconosciuta.
    Ho afferrato a due mani il paletto di legno che usiamo per fermare le imposte, sono andato nell’ingressino e ho acceso la luce. Non c’era proprio niente. Niente fantasmi, o maghi, o ladri con il cappuccio. Mi è uscito un sospirone e un sorriso.
    - Una botta di stanchezza, ho le traveggole. Vado a letto e al diavolo il rapporto.
    Poi ho abbassato gli occhi: al centro del tappeto c’era una scatola. Una comune scatola bianca, solida, di quelle che contengono le scarpe costose.
    Non era da mia moglie lasciare qualcosa in giro, tantomeno una scatola di scarpe.
    Senza un’idea precisa, l’ho scavalcata per controllare il portone: era chiuso a più mandate, come sempre. E Bess aveva anche messo il fermo.
    Quindi la scatola non era venuta da fuori, era stata appoggiata lì da uno di noi.
    Ho ripensato al tintinnio argentino e mi è passato un brivido sul cuore, ma nel piccolo vano tutto sembrava tranquillo, non c’era niente fuori posto e il gancio della campanella era vuoto, come sempre.
    Allora ho fatto l’unica cosa sensata: mi sono accosciato, ho sollevato il coperchio della scatola e… sono caduto a sedere per la sorpresa.
    Nella scatola c’era un uovo. Un uovo grande, cinque o sei volte più grande di quello di una gallina e… rosso, rosso fuoco; era simile a una palla da rugby.
    L’ho toccato con un dito, velocemente; poi di nuovo, indugiando un po’; quando infine l’ho sfiorato con quattro dita, scorrendo sulla superficie, ho sentito dei piccoli bitorzolini e anche qualche puntina rasposa. Ormai ci avevo preso confidenza e ho deciso di prenderlo in mano.
    - È un regalo per me?
    Per fortuna in gioventù ho fatto parecchio sport, così sono riuscito a mantenere la presa.
    - Ma sei matta? Mi arrivi alle spalle senza il minimo rumore?
    - Scusa! Ho le ciabatte, non ho cercato di sorprenderti… Cos’è?
    - Non lo so.
    Le ho raccontato in breve tutta la faccenda e anche della campanella fantasma che, secondo me, aveva suonato. Rispose tranquilla:
    - Non so cosa dire. Vedremo. È bello, me lo fai tenere?
    Le ho passato l’uovo e siamo andati in cucina.
    Ridevamo, eravamo sereni come sempre, anche se avevamo fra le mani un intruso piovuto da chissà dove. Ma non ce lo chiedevamo. Bess aveva detto vedremo e a me andava bene.
    Le ho ripreso il nuovo venuto e l’ho scosso: prima delicatamente, poi più forte. Secondo me, conteneva qualcosa di molle, con parti durette.
    Per un po’ abbiamo giocato a indovina cosa contiene, poi siamo passati alle scommesse, poi abbiamo deciso di filare a nanna.
    - Passami Gioele, lo mettiamo nella sua culletta.
    - Gioele? – ho ripetuto io a pappagallo.
    L’abbiamo rimesso nella scatola, l’abbiamo sistemato in uno scaffale della scansia del nonno e siamo andati a letto.
    Ci siamo ricordati di lui al mattino, poco prima di andare al lavoro: abbiamo controllato che la scatola fosse al suo posto e siamo usciti.

    Durante la pausa pranzo, Bess mi ha telefonato in ufficio e mi ha chiesto di andare subito a casa.
    Il suo tono perentorio non ammetteva repliche e sono arrivato a casa con la lingua di fuori.
    - Allora? Cosa c’è?
    - Guarda tu stesso.
    Una grossa gallina rosso fuoco starnazzava in giardino. Aveva il becco a rostro, di dimensioni notevolissime e si fiondava su ogni animale che volava, strisciava o scappava via sulle sue zampette. Non aveva ali ne’ coda, era coperta di penne delicate, di media lunghezza, con sfumature viola; il collo, molto lungo, reggeva una testa perfettamente rotonda, ornata da una coroncina di piume viola e da due occhi spropositati che saettavano in ogni angolo del prato; le zampe robuste erano coperte da scaglie marroni e tre lunghe dita terminavano con robusti artigli retrattili.
    Bess mi aveva fatto prendere una paura del diavolo per un gallinaccio, però aveva ragione: era una bestiola strana e dovevamo decidere cosa farne.
    Portarlo da un veterinario per vedere cosa ci stavamo mettendo in casa? E se ci chiedeva dove l’avevamo preso? Se voleva vedere i timbri, i certificati e compagnia bella? No. Non si poteva.
    Abbiamo deciso di aspettare qualche giorno e ci siamo organizzati: io sono andato dal macellaio per le vettovaglie e ho inventato che avevamo preso un cane, Bess ha cercato in soffitta qualcosa di adatto per fare una cuccia.
    Dopo un pomeriggio intero trascorso a isolare e sistemare un angolo del garage, abbiamo riempito le ciotole con cibo e acqua per il bebè, l’abbiamo salutato e ce ne siamo andati.
    Siamo riusciti a fare due passi, poi un urlo lacerante ha attraversato l’aria.
    Di corsa siamo tornati indietro, abbiamo afferrato la cesta del pargolo e siamo rientrati in casa.
    Gioele è stato sistemato nel ripostiglio, insieme al deschetto di nonno e il prepotente, felice come una pasqua, si è accoccolato sulla sua copertina, ha infilato la testa fra le zampe e si è addormentato.
    Il giorno dopo, mentre preparavamo le ciotole, Bess ha sollevato l’animale e mi ha mostrato la pancia: era attraversata da una specie di cordone duro, lunghissimo e aderente alla pelle. Sembrava una coda. E non si vedevano gli orifizi per gli escrementi. Mistero.
    Da quel giorno è filato tutto liscio. Il nostro ospite non dava problemi: il suo regno era il giardino e rispettava orari fissi per nanna, veglia, cibo, pipì, coccole.

    Gioele era con noi da tre mesi quando, nella cassetta della posta, abbiamo trovato la lettera di un notaio che ci dava appuntamento nel suo ufficio. Siamo andati e lui mi ha spiegato che avevo ricevuto un’eredità da un lontano parente, un certo Peter O’Malley, morto senza eredi. Si trattava di una discreta sommetta, di un po’ di terra e di una masseria vicino Galway. Accettavo? Certo!
    Ho firmato tutte le scartoffie e siamo andati a vedere. La masseria, in realtà era una piccola baita ben tenuta, isolata, e posta sul cocuzzolo di una collina. L’arredo era sommario, ma nel capanno c’era una splendida sorpresa: un piccolo camper in buono stato, ideale per trasportare Gioele.
    Abbiamo preso l’abitudine di trascorrere lassù le domeniche e lasciavamo che il nostro giovanotto starnazzasse liberamente. Era obbediente, accorreva subito ai richiami e specialmente a un fischio modulato che sentiva anche da molto lontano.
    Nel pomeriggio, a me piaceva dormicchiare o leggere sull’amaca, mentre Bess preferiva sedersi sotto il piccolo pergolato. Scriveva, su un quaderno a scacchi, tutti i progressi della bestiola, i nostri dubbi, i nostri errori nei suoi confronti, ma anche l’amore e la gioia che ci dava la sua presenza.
    Le avevo regalato una macchinetta fotografica che stampava foto dopo tre minuti di attesa e lei era diventata molto brava; siccome il rullino era caro, l’usava soltanto per completare e arricchire il foto-diario, diventato un’opera d’arte.
    Eravamo felici, era un po’ come allevare un cane di razza. Ma non era un cane.
    Ci eravamo affezionati moltissimo a Gioele e non avevamo voglia chiederci da dove provenisse e cosa fosse. Avevamo paura della risposta. Preferivamo illuderci che fosse una specie di struzzo rosso, solo un po’ più grande.

    Quando il piccolo compiva anno, abbiamo deciso di organizzare una festa in baita.
    Quella mattina c’era un tempo splendido: abbiamo fatto tutto il tragitto cantando a squarciagola e il festeggiato si è unito al coro con grida squillanti.
    Appena arrivati, Bess ha cominciato a sfaccendare in casa mentre io scaricavo quello che serviva ma, quando è stato il momento di far scendere il nostro cucciolone, ho scoperto che era sparito. Abbiamo chiamato, fischiato, ma non eravamo particolarmente preoccupati: Gioele era abituato a gironzolare per i prati, sarebbe tornato da solo. Del resto non c’erano pericoli: la collina era perfettamente sgombra da alberi, la vista spaziava fino all’orizzonte.
    Era ora di pranzo e il mascalzone non si vedeva. Non era da lui. Abbiamo cominciato a temere che si fosse imbattuto in un estraneo, magari in un cacciatore…
    Abbiamo usato di nuovo tutti i richiami, ma senza esito: di Gioele nessuna traccia.
    Bess ha cominciato a piangere e anche io avevo il cuore pesante.
    Siamo andati avanti fino al tardo pomeriggio.
    Il sole cominciava a calare quando c’è stato un grido. Un grido potente.
    Con un balzo, mia moglie mi è volata accanto.
    - Gioele!
    Abbiamo alzato gli occhi.

    Al centro del cielo, brillava un grande drago rosso fiamma: aveva ali immense, venate di viola; la lunga coda terminava con una punta lanceolata; la bella testa, sostenuta dal collo elegante, guardava in alto. Dopo una splendida virata, si è girato verso il sole e ha vomitato una poderosa, vivida fiammata.
    Non so come abbiamo fatto a non cadere stecchiti.
    - Gioele…
    Lo splendido animale ha volato a lungo sopra le nostre teste, facendo mille evoluzioni per farsi ammirare, poi ha cominciato a planare in cerchi concentrici sempre più piccoli e, con una mossa perfetta, è atterrato vicino a noi. Dal garretto alla testa sollevata, era sicuramente alto più di due metri. Chissà dove era stato, chi aveva incontrato, chi l’aveva aiutato in quest’ultima, meravigliosa trasformazione. Bess piangeva per l’emozione e per la gioia: non aveva il coraggio di toccare il "suo" Gioele, così diverso e imponente.
    A quel punto, il grande drago ha avvolto le ali intorno al corpo, le ha fissate con la coda ed è tornato a somigliare vagamente al nostro mascalzone, poi si è diretto verso il capanno, si è accovacciato sulla paglia e ha scodellato un magnifico uovo rosa. Eravamo basiti.
    Come fosse la cosa più naturale del mondo, Gioele è tornato sul prato seguito da noi in processione e ci ha guardati a lungo, come se volesse ringraziarci; stavamo per abbracciarlo, ma lui ha staccato dal petto una lunga piuma rossa, l’ha data a Bess, poi ha allargato ancora una volta le ali possenti e se n’è andato stridendo, nella sera che stava diventando notte.
    Allora noi siamo corsi a prendere l’uovo e abbiamo cercato in tutta la casa una scatola da scarpe, possibilmente bianca, per metterlo nella sua culla.

    Gioele è stato il primo di una stirpe di ventotto draghi: uno diverso dall’altro per colore e per carattere, ma tutti ugualmente obbedienti e cari. A ogni compleanno andavamo alla baita e lì ognuno di loro, con lo stesso rito, completava la crescita per affrontare la vita adulta. Poi affidava a noi il nuovo erede, regalava una bella piuma colorata a Bess e si immergeva nell’azzurro, verso mondi a noi sconosciuti.

    L’ultimo è stato Ettore, l’unico drago bianco. Era un tipo fumino, non sempre rispondeva ai richiami e mangiava molto poco; aveva, come tutti gli altri, una predilezione spiccata per mia moglie, ma obbediva immediatamente solo a me. Gli bastava uno sguardo.
    Il giorno del suo compleanno, Bess aveva una tossetta insistente. Le ho proposto di rimanere a casa, avrei accompagnato Ettore da solo, ma lei mi ha guardato con quella sua aria che non ammetteva repliche, si è infagottata un po’ di più e siamo partiti.
    Il futuro drago è stato sempre appiccicato a mia moglie, la seguiva come un cagnolino.
    Lei lo sgridava, gli diceva che stava bene, che lui non era un infermiere, anche se indossava un camice bianco, che doveva filare via altrimenti lo avrebbe punito.
    Temevamo che, se avesse ritardato il rito, sarebbe accaduto qualcosa d’irreparabile ma, stranamente, non obbediva nemmeno a me.
    Finalmente, a metà mattina, molto più tardi rispetto ai fratelli, Ettore ha lanciato un richiamo stridulo ed è andato via.
    Rimasti soli, abbiamo acceso il camino, abbiamo pranzato e ci siamo disposti a trascorrere il pomeriggio fra chiacchiere e letture, come facevamo di solito e, come al solito, al vespro abbiamo sentito il richiamo. Siamo corsi fuori.
    Il cielo era un prato bellissimo, con fiori di ogni colore che volteggiavano, s’incrociavano, stridevano i loro richiami. Erano i nostri draghi. Tutti.
    Via via che li riconoscevamo dal colore, dall’incedere particolare, dal grido, li chiamavamo, li salutavamo come impazziti dalla gioia di rivederli dopo tanto tempo e dopo averli tanto amati. Finita la passerella, sono scesi accanto a noi uno alla volta, a cominciare da Gioele.
    Erano ancora più belli, ci sembravano ancora più grandi.
    Quando si sono risollevati in volo, uno dietro l’altro, li abbiamo salutati, abbiamo mandato baci, abbiamo urlato di tornare ancora.
    L’ultimo è stato Ettore, il festeggiato. Si è fermato accanto a Bess, ha strappato la piuma candida dal petto, gliel’ha porta poi ha chinato la testa e ha ripreso il volo accanto ai suoi fratelli. Erano stormo. Un meraviglioso stormo di draghi.

    Passata l’emozione, ci siamo resi conto che l’infermiere non ci aveva lasciato l’uovo. Ci siamo rimasti malissimo. Siamo andati a vedere, a frugare fra la paglia del capanno, ma l’uovo non c’era.
    Bess ha pianto fino a casa. Era inconsolabile e la tosse sembrava più stizzosa, acuita dal pianto.
    Abbiamo scoperto nei giorni successivi che si trattava di polmonite.

    Durante la breve malattia, sprecava le forze per raccomandarmi di scrivere la nostra storia: voleva che rendessi pubblica la vita meravigliosa e incredibile che ci era stata donata.
    Cercavo di spiegarle che era inutile, nessuno mi avrebbe creduto, avrebbero pensato che si trattava di fanfaluche, di demenza senile, ma Bess non si arrendeva:
    - Abbiamo le prove: i miei diari, le piume, le foto. Se qualcuno avrà il privilegio di ricevere in dono un uovo, com’è accaduto a noi, saprà di cosa si tratta, non avrà paura, ma ne godrà appieno, come è capitato a noi. Gli regaleremo la baita, potrà allevare i draghi come abbiamo fatto noi.

    Per farla tacere, per farle risparmiare il fiato, le ho promesso che le avrei obbedito, ma non riuscivo a staccarmi dal suo letto e tutto il resto non contava niente.
    Quando è morta, il mio cuore ha subito uno strappo, uno strappo fisico che potrei descrivere anche ora nei minimi particolari. Il giovane cardiologo che mi ha visitato aveva occhi chiari e un camice che lo faceva somigliare a Ettore. Per rispetto mi ha lasciato spiegare cosa avevo provato e annuiva, ma era chiaro che stava pensando: “Poveretto…Demenza senile”.
    Mi figuravo la sua faccia se gli avessi parlato dei draghi.

    Da circa un anno sono allettato e da circa un anno lei viene a farmi compagnia e mi rinfaccia senza parlare la promessa mancata.

    - Ecco qua, amore, finalmente ho obbedito. Sul comodino ho lasciato le indicazioni per trovare i tuoi diari metodicamente sistemati nella scansia di nonno Bob e il mio lascito testamentario per la baita. Sai che mi sta succedendo? Adesso che sto fermo qui e vivo dentro la mia testa, mi faccio un sacco di domande; mi chiedo di quella campanella: chissà se ha veramente suonato? Chissà se la figura che è svanita nella nebbia era nonno e se conosceva Peter, il parente che ci ha regalato la baita proprio quando ci serviva? Chissà se lui c’entrava niente? Mah, fra poco avrò tutte le risposte.
    Eccoti, bella mia. Stai salendo, sento il tuo passo leggero.
    Un momento! Non sei sola! Chi hai portato con te? Chi ti accompagna?

    - Tommy…
     
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    Penna suprema

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    Un racconto ben scritto, con belle descrizioni e una situazione portata avanti fino alla fine come fosse tutto normale, mentre di normale non c'era proprio niente. :wub: :o:
     
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    Ciao autore, il tuo è un racconto surreale.
    Tu mi dirai: Per forza, siamo nel genere fantasy!
    Hai ragione... E dopo un paio di letture ho finito per trovare assai carina l'idea che i protagonisti potessero
    affezionarsi così tanto ai draghi che venivano loro affidati.
    Per certi versi l'ho trovato simile a una favola.
    Testo chiaro e scorrevole. Letto con piacere!


     
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    Penna furiosa

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    Il racconto mi è piaciuto, ma non lo voterò perché sfiora appena il genere del contest.
     
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    Ho letto solo poche righe e già mi piace. Questo è per dire di come si entri in sintonia con certi modi di raccontare. Per me è così: o entro in sintonia, oppure no. Vado avanti nella lettura e poi vi dico.

    Ecco: ha mantenuto la promessa, a parte lo stile in cui mi ritrovo molto(scorrevole e corretto senza essere banale), è una storia originale e anche commovente.
    Da me avrà buoni punteggi.

    Edited by Lycia - 25/9/2017, 18:01
     
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  7. caipiroska1
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    La parte iniziale del racconto si sofferma un po' troppo in area horror, con tanto di fantasmi e suspence.
    Poi vira inaspettatamente nella direzione giusta lasciandomi una bella sensazione.
    Ma poi ritrova le atmosfere fosche.
    Non dico che nel fantasy non ci devono essere momenti dark, anzi, ben vengano, ma nel racconto proposto noto (a parere mio!) che sono troppo calcati, risultando quasi inopportuni.
    Quello che forse mi ha sfavorevolmente colpita è proprio questa altalena tra i generi.
    Quello che mi ha colpito, logicamente è la penna lesta e felice che si destreggia tra le varie situazioni con assoluta padronanza, leggerezza e quel tocco di surreale che ci sta sempre bene.
     
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    Grande impegno per un autore che conosce poco il fantasy. Questo percepisco: il suo sforzo.
    Alla fine l'opera è buona, scorrevole, di facile lettura.
    Impegno ripagato. Bravo.
     
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    Sono rimasto sinceramente colpito da questo racconto.
    E' bizzarro, ma lo è nel modo giusto. Forse proprio per la naturalezza con la quale descrive fatti che naturali non sono.
    E poi ho un piccolo debole per i draghi, specialmente quando escono dallo stereotipo, cosa che qui, pur con tutti i dubbi irrisolti che il finale lascia, avviene in maniera molto interessante.

    Mi è piaciuto, penso finirà in cinquina.
     
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    Penna suprema

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    Ora che ci penso è piaciuto anche a me. Finirà primo.
     
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    Penna furiosa

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    Commovente, poetico, dolce. Un unico elemento fantasy, il drago, che però costruisce una storia (insieme, naturalmente, all’amore dei due e lei che… muore! Ma che strano… 😊 ).
    Grazie a questo, riesco a considerarlo un fantasy, anche se, in effetti, è un po’ al confine con il semplice fantastico, senza determinazioni particolari. Il drago, comunque, fa certamente fantasy.
    Mi è piaciuto, anche se non entusiasmato, ma è ben scritto, di gradevole lettura.
     
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    Penna furiosa

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    A me questo racconto è piaciuto per il modo in cui è stato scritto e le atmosfere dark che è riuscito a creare soprattutto all'inizio. Poi la storia vira sui draghi, creature che non stuzzicano particolarmente la mia fantasia, e lì l'interesse un poco è diminuito. Comunque lo ritengo un racconto buono, che non so se rientrerà tra i miei cinque, ma se la giocherà sicuramente.
     
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    Non mi ha entusiasmato molto questo racconto. Scritto bene, non ci sono dubbi, ma l'ho trovato disomogeneo, sia nella costruzione che nella trama. Mi spiego meglio: parte come un racconto sugli spiriti dei defunti, con un bell'incipit tra l'altro, per poi virare su un racconto che parla di draghi e con una variazione di registro che non mi è piaciuta, per poi finire come era iniziato, senza tra l'altro dare spiegazioni. Il primo uovo l'ha portato il nonno? Perché? Da dove provengono i draghi? Non mi è piaciuta neanche la scelta di usare l'espediente del testamento, perché è chiaro che non sia il testo del testamento, altrimenti non si spiegherebbero i dialoghi finali. Insomma, un buon testo che avrebbe facilmente potuto essere ottimo.
     
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    Scorrevole ma ordinario. Poi non ho capito sul finire a chi lascerà la casa sulla collina se non conosce nessun allevatore di draghi oltre lui.
     
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  15. Foglia nel vento
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    Draghi con le piume? Beh, se non è fantasy questo... I draghi (quelli classici) nascono sì da uova, ma non sono uccelli bensì rettili dotati di ali e ricoperti da scaglie. :)
    Detto questo, del racconto mi piace molto l'inizio proprio per la sua vena dark; il resto invece non mi ha comunicato nulla.
     
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34 replies since 21/9/2017, 21:14   607 views
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