L'inizio della storia

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    Scrivano supremo

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    Pioveva.
    Diluviava, ad essere precisi.
    Una di quelle notti in cui è meraviglioso starsene caldi sotto una coperta, all’asciutto e al sicuro, contemplando beati la pioggia che scroscia dietro ai vetri e sommerge il mondo, fuori.
    Solo che l’uomo non era né all’asciutto né felice. La pioggia non era solo sopra, ma anche sotto e dentro, ovunque, ormai.
    Fradicio sotto il diluvio, l’uomo non aveva modo di mettere fine al tormento continuo delle gocce, del freddo, della fame. La pioggia e il freddo stimolavano poi un altro impellente bisogno, di complicato soddisfacimento.
    Non che l’uomo avesse bisogno di particolare riservatezza, ma almeno delle mani libere sì. Le guardie si erano scompisciate dagli sghignazzi quando aveva gridato la sua richiesta, e non si erano mosse dal riparo costruito tra gli alberi, sotto il quale si scaldavano al fuoco che erano riuscite ad accendere.
    ‒ Vuoi essere libero? ‒ Il sussurro alle sue spalle gli sfiorò tiepido la nuca.
    L’uomo chinò appena la testa.
    ‒ Allora prometti.
    L’uomo rimase immobile.
    ‒ Per me non c’è problema. Io me ne vado. Tu rimani incatenato a quest’albero tutta la notte e domani ti sbattono nelle prigioni della Città.
    L’uomo sospirò.
    ‒ Voglio la tua parola che mi aiuterai. Prometti. Sul tuo onore.
    L’uomo non trattenne un breve singulto divertito. Alzò gli occhi: la pioggia aveva coperto il suono, le guardie non si erano accorte di niente.
    L’uomo abbassò e rialzò lento il capo.
    ‒ Aspettami, torno tra un attimo.
    Il fuoco delle guardie esplose. Grida. Uomini in fuga. Le fiamme divoravano il riparo. Solo il prigioniero si accorse dell’ombra che scivolava tra il fumo e la pioggia. Una piccola ombra.
    L’uomo sentì la chiave aprire la serratura della catena che gli tratteneva le mani dietro la schiena. Stese finalmente le braccia doloranti e intorpidite da ore di immobilità. Si alzò, si girò.
    Dall’alto in basso, scrutò perplesso la ragazzina. Solo un istante, poi iniziarono a correre. I pochi momenti di vantaggio dati loro dalla confusione si erano esauriti.
    Correvano nel bosco, nel buio, veloci quanto potevano, scivolando, inciampando. Alle spalle, le imprecazioni delle guardie. Molto vicine, per parecchio tempo, poi si affievolirono. La ragazzina sembrava sapere dove stava andando e che strada prendere per fare perdere terreno a chi li inseguiva. Per questo l’uomo la seguì, anche se era più veloce di lei e avrebbe potuto lasciarsela alle spalle.
    Corsero mentre la pioggia finalmente scemava e la luna appariva dietro alle nuvole. Corsero finché ebbero fiato, poi lei iniziò a camminare, ansimando.
    Si fermò in una radura. Liberò da sotto un nascondiglio di frasche un involto. Guardò l’uomo: ‒ Ecco…
    L’uomo la ignorò. Raggiunse un cespuglio e, dandole le spalle, fece quello che sognava da ore, con un sospiro che non lasciava dubbi sul sollievo che provava.
    Quando si girò, la ragazzina aveva aperto il suo bagaglio. Provviste, una coperta, una spada che impugnava in modo maldestro.
    Lui sogghignò: ‒ Sai usare una spada?
    ‒ Io no, ma tu sì.
    L’uomo contrasse per un istante il volto, poi tornò immediatamente alla sua aria scanzonata.
    ‒ Bene. Ti ringrazio, sei stata molto gentile, ma ora, ognuno per la sua strada. ‒ Si girò e si incamminò.
    ‒ Aspetta! Non sai perché ti ho liberato.
    ‒ Qualunque sia il motivo, non mi interessa, grazie ‒ rispose, continuando a camminare.
    ‒ Hai promesso di aiutarmi. Hai dato la tua parola!
    L’uomo si fermò e si voltò: ‒ Io non ricordo di avere pronunciato alcuna parola né di avere promesso alcunché.
    ‒ Ho bisogno di un guerriero.
    ‒ Hai scelto quello sbagliato, mi dispiace.
    L’uomo iniziò a inerpicarsi rapido tra rocce e alberi, salendo verso il folto del bosco. Non sentì richiami, alle sue spalle, non sentì passi. Continuò ad allontanarsi, finché la curiosità lo costrinse a fermarsi. In basso, riusciva ancora a scorgere la radura. E la ragazzina. Non si era mossa da lì. Illuminata dalla luce della luna, fin troppo visibile.
    Fu così che, nel silenzio, gli arrivarono distinti i rumori degli uomini in corsa. La ragazzina non sembrava stupida, li avrebbe sentiti anche lei, se ne sarebbe andata.
    Lei rimase lì, ferma.
    Le guardie sbucarono nella radura. L’uomo non distingueva le parole, ma capiva benissimo il senso delle loro grida.
    Peggio per lei. Correre, correva veloce. Avrebbe potuto andarsene da un pezzo. Fatti suoi.
    Non seppe neppure lui perché. Si ritrovò d’improvviso a precipitarsi giù.
    Piombò gridando in mezzo alle guardie. Cercò istintivamente la spada. La trovò abbandonata a terra, la afferrò e iniziò a combattere, mentre una piccola parte di lui gli diceva che stava facendo una cosa tremendamente stupida.
    Sarebbero morti, la ragazzina, lui. Lui, soprattutto. Morto per niente. Di tutte le cose stupide che aveva fatto, questa le batteva tutte in assoluto, di sicuro, continuava a ripetersi, imprecando rabbioso contro di sé, contro il mondo, contro la ragazzina, mentre gridando si gettava davanti alle spade, mentre si avventava furibondo sulle guardie.
    Combatteva senza speranza e senza pensare.
    Quando si accorse di avere vinto, che gli uomini malconci scappavano, si sorprese. Aveva dimenticato quanto fosse bravo a combattere, aveva dimenticato le battaglie vinte. Solo le sconfitte e i morti erano rimasti a riempire i ricordi.
    Alzò gli occhi sulla ragazzina. In piedi, ai margini del bosco, tremava e batteva i denti senza riuscire a smettere.
    Una voce diversa, che sul momento l’uomo non riconobbe, la voce di un’altra persona, che veniva da un’altra vita: – Stai calma, è solo lo spavento. Poi passa. Sei bagnata fradicia.
    La rabbia era svanita d’un colpo. Era rimasto solo un desiderio antico e ormai dimenticato di tranquillizzare e aiutare. Un fuoco, una coperta, qualcosa di caldo da mettere nello stomaco.
    ‒ Non credo che torneranno. Ridotti come sono, hanno una buona scusa per lasciarci perdere, per il momento. Meglio comunque allontanarsi. ‒ Senza lasciare la spada, l’uomo si caricò in spalla il bagaglio e si incamminò. Lei non commentò e non chiese. Lo seguì.
    Lui si fermò quando trovò un posto che valutò abbastanza sicuro. Riuscì ad accendere un fuoco, si asciugarono, mangiarono, poi lei si addormentò.
    L’uomo rimase di guardia quasi tutta la notte, dormendo solo a tratti, sempre con un occhio solo.
    Quando arrivò l’alba, tirò un sospiro di sollievo.
    Tutto era tornato normale. La luce del giorno aveva ricacciato i vecchi, stupidi istinti nel loro buco lontano e nascosto. Niente più cose stupide. Va bene, aveva avuto un attimo di debolezza, aveva salvato la ragazza, l’aveva tirata fuori dai guai. Ora basta. Adesso, ognuno per la sua strada.
    Anche se, suo malgrado, ormai era diventato un po’ curioso.
    ‒ Ieri notte avevi sentito le guardie arrivare. Perché sei rimasta lì? ‒ le chiese mentre mangiavano, prima di partire.
    ‒ Era l’ultima possibilità che avevo per farti tornare.
    Lui iniziò a sghignazzare, poi si fermò, attonito davanti all’evidenza: lui era tornato.
    ‒ Dimmi, ragazzina: cercavi proprio me, o ti sono capitato per caso?
    ‒ Entrambe le cose. Cercavo un guerriero e tu mi andavi bene.
    ‒ Perché…
    Lei esitò un istante: ‒ Non ho denaro. Non abbastanza per pagare qualcuno per quello che mi serve, almeno. Così, quando mi hanno parlato di te e mi hanno detto che ti avevano catturato, ho pensato che avrei potuto fare uno scambio: la libertà per il tuo aiuto.
    ‒ Allora direi che ho pagato il mio debito. Fine della storia.
    ‒ Ho bisogno di un’altra cosa, da te. Una cosa importante.
    ‒ Se tu sapessi davvero chi sono, non mi chiederesti aiuto per una cosa importante. E, di sicuro, non senza denaro.
    ‒ So che ti fai chiamare Il Vagabondo, che vivi di espedienti, più fuori che dentro la legge, motivo per il quale oggi le guardie della Città ti avrebbero sbattuto in cella. Anche se, da quanto ho sentito, prima non erano mai riusciti a prenderti. So anche, però, che prima di tutto questo tu sei stato altro e che la tua parola aveva un valore, un tempo.
    L’uomo rimase a lungo in silenzio, poi: ‒ Non mi interessa cosa devi fare, ma ti accompagnerò fin dove devi andare. Dopo però dovrai arrangiarti, ragazzina.
    ‒ Ho anche un nome, e tu non me l’hai ancora chiesto.
    ‒ Perché nemmeno quello mi interessa. ‒ L’uomo si alzò, raccolse il bagaglio e la spada: ‒ I nomi sono un peso per chi rimane.
    ‒ Ma per adesso potrebbe servirti, se dobbiamo viaggiare insieme. Roan.
    ‒ Basta chiacchiere. È ora di partire, ragazzina. Per dove, a proposito?
    ‒ Le Fosse.
    Il volto dell’uomo si contrasse: ‒ Non è un bel posto.
    ‒ Hai detto che non ti interessa cosa devo fare.
    ‒ Infatti. ‒ L’uomo si girò e partì, pestando forse con eccessiva enfasi il terreno, come se servisse a liberarsi di tutto quello che lo infastidiva.
    Forse lei non sapeva esattamente in quale postaccio stesse andando a cacciarsi, rimuginò poi lungo il cammino. Così si premurò di metterla al corrente, buttando episodi qua e là, cercando di non avere l’aria di preoccuparsi troppo per lei, ma solo tanto per dire, a titolo informativo.
    Non c’era il rischio di esagerare, parlando del Mercato delle Fosse. Sorto a una certa distanza dalla Città per mantenere ufficialmente le distanze e lasciarle la sua aria perbene, in realtà dalla Città non solo tollerato ma perfino apprezzato, tanto da esserle legato da una fitta rete continua di scambi, di ogni genere e natura. Nessuno ammissibile, naturalmente. Sarebbe stata sdegnosamente rifiutata ogni insinuazione che anche solo accennasse a proficui legami tra la Città e il più fetido buco del Regno, centro di ogni tipo di sordida contrattazione.
    Doveva il suo nome alla conformazione del terreno brullo su cui era costruito, in cui si aprivano spaccature e anfratti, utili per un sacco di scopi.
    Un agglomerato caotico e informe, in cui ci si avventurava a proprio rischio e pericolo.
    Nessuno dei racconti dell’uomo sembrò turbare Roan o distoglierla dall’idea di raggiungere le Fosse. Anzi.
    Ascoltava con interesse, poi anche lei raccontava. Di cose a cui, a dire il vero, al Vagabondo importava veramente poco. Perché tanto le conosceva già tutte, molte per esperienza personale, e aveva da tempo concluso che la cosa migliore per lui fosse farsi gli affari propri.
    A Roan invece evidentemente piaceva parlare del Regno, di come era stato un tempo, quando il coraggio e la speranza portavano la luce in mezzo agli inevitabili guai della Storia.
    Di come era il Regno adesso, della cupa marea di sofferenza e di buio che sembrava soffocarlo, in modo particolare dall’estinzione dell’antica casa regnante, dalla scomparsa dell’ultimo Principe.
    Di guerrieri valorosi, che avevano creduto nella possibilità di lottare, ma alla fine, se non erano morti, si erano arresi all’inutilità e alla disperazione.
    A questo punto Roan si era fermata e aveva guardato l’uomo. Che continuò a camminare.
    Il Vagabondo non lasciò Roan, arrivati alle Fosse. Non la lasciò quando venne assorbita nel marasma della folla. Le rimase incollato, in allerta, consapevole che la sua sola presenza dietro di lei le stava garantendo di non trovare inciampi lungo la strada. Troppo tardi si rese conto che la strada portava alle arene. Per un istante fu tentato di assecondare i piedi che gli si erano inchiodati a terra, dare retta al buon senso e girare sui tacchi, poi si ritrovò di nuovo, suo malgrado, a seguire Roan.
    Le arene si sentivano, prima di vederle. Il ruggito del pubblico non aveva mai fine, si propagava come un’onda dall’una all’altra. Di varie dimensioni e forme, a seconda delle esigenze dei diversi spettacoli, che si susseguivano giorno e notte e alimentavano un ininterrotto, favoloso giro di scommesse.
    Devo andarmene, continuava a pensare l’uomo. Devo fermarla, concluse infine, quando capì dove lei lo stava guidando. Lui quello spettacolo lo conosceva già, e non aveva alcuna voglia di vederlo. Ma non lo fece, e si ritrovò con lei sull’orlo di una delle arene dei bambini.
    Non poteva fare nulla, se non guardare. Dovevano sembrare strani, riuscì a pensare: le sole due persone immobili e mute.
    Il Vagabondo sapeva che in realtà sentivano poco il fragore della folla, i bambini là in mezzo, storditi come erano dalla paura, dal dolore e dallo sfinimento. Preoccupati solo di combattere e sopravvivere. Uccidere o morire, a volte. Non sempre. Dovevano servire per molti spettacoli. Feriti, in modo più o meno grave. Più o meno curati, quando possibile, poi rimandati nell’arena. Contro altri bambini, contro animali o per i giochi più fantasiosi che qualcuno inventava. Finché ce la facevano.
    Il Vagabondo non avrebbe saputo dire dopo quanto tempo finalmente si ritrovò a seguire Roan fuori dall’arena, lungo i vicoli in cui stava calando la sera.
    Trovarono una taverna non molto affollata e un tavolo appartato.
    ‒ Va bene, ragazzina. Adesso hai la mia attenzione.
    ‒ Sono stata mandata. Per una… missione di recupero. Per prima cosa, devo liberare i bambini. No, non tutti. Non è possibile. Quelli che riusciremo a portare con noi.
    ‒ Spero tu abbia buone idee, oltre che buone intenzioni. Stai parlando di un suicidio. I sorveglianti non sono teneri e sono tanti.
    ‒ Non ci vedranno, spero. Prenderemo i bambini direttamente dalle gabbie costruite nella cinta di roccia esterna. Nessuno si aspetta che qualcuno passi attraverso la roccia. Non c’è sorveglianza da quella parte. Posso aprire dei portali attraverso la parete. Piccoli, per poco tempo, ma funzioneranno.
    Il Vagabondo inarcò le sopracciglia: ‒ Questa è magia. Non è roba comune, ed è costosa. Specialmente per una che ha detto di non avere denaro.
    Lei lo ignorò: ‒ Ho bisogno di qualcuno che conosca il posto. La pianta. Il momento migliore per farlo. ‒ Roan esitò un istante, poi: ‒ Tu sei stato nelle gabbie.
    L’uomo si irrigidì. Immagini veloci, oscure, pesanti. Sotterranei. Bambini nelle gabbie, tirati fuori solo per combattere, poi riportati dentro. Occhi affaticati, nella penombra, che aspettano. Nel dolore e nella paura.
    ‒ Ma sei fuggito.
    L’uomo contrasse il volto: ‒ Tu sai troppo. Chi sei?
    Roan si prese un attimo. Le cose da dire erano tante. Tutte difficili da credere.
    ‒ Il mio mondo e il tuo mondo sono legati. In modi che ora sarebbe lungo, complicato e inutile spiegare.
    Una pazza. Sto dando retta a una pazza, pensò il Vagabondo. Però disse: ‒ Vai avanti. ‒ Forse perché a nessuno, in tutta la vita, aveva mai raccontato delle gabbie.
    ‒ Vengono avvelenate le radici del mondo. Dei mondi. Non so se riesco… Ricordi cosa sognavi, nelle gabbie?
    Di nuovo. Un fiume di terrore. Urla. Lacrime senza voce. Il Vagabondo la fissò con odio.
    ‒ I bambini non fanno comodo solo per le scommesse ‒ proseguì Roan. ‒ Tutto quello che succede… Ci sono molte forme di magia. Servono i loro sogni. Cattivi sogni. Terribili. Alimentano i cattivi sogni del mondo. Per distruggere la realtà.
    ‒ I sogni sono solo fantasie. Sono solo nella nostra testa.
    ‒ Tutto ciò che è fuori non è altro che una costruzione diversa, approssimativa, di ciò che è qui dentro. ‒ Roan sfiorò con l’indice la fronte del Vagabondo. ‒ I sogni, i pensieri, le emozioni, le parole che li raccontano, costruiscono la realtà. E la realtà crea nuovi sogni. Continua così, come gli anelli stretti l’uno all’altro di una catena. Occorre spezzare la catena in un punto.
    ‒ Come? ‒ si sentì chiedere suo malgrado Il Vagabondo.
    ‒ Col tempo, con fatica e con pazienza. Per distruggere, ci vuole un attimo; per costruire, un tempo lunghissimo. Ma anche i buoni sogni creano catene, fermano l’avanzata dell’oscurità e del male. Ogni granello di luce è tolto alle tenebre. Fino all’ultimo granello di luce le tenebre non saranno complete.
    Il Vagabondo la scrutò per un po’ in silenzio.
    ‒ Fai strani discorsi, ragazzina. Ma alla fine si tratta di portare via i bambini dalle gabbie. ‒ Sorrise: ‒ Sono curioso di vedere se la storia dei portali è vera.
    Attesero la notte. A dispetto delle speranze di Roan, qualcuno trovarono sulla loro strada. Il Vagabondo si occupò di stordirli e legarli in fretta: la loro scomparsa prima o poi sarebbe stata notata.
    I ricordi del Vagabondo guidarono Roan nel creare i portali nei punti giusti della parete di roccia. Lui finse di non rimanere troppo sorpreso, la prima volta che lei sparì, per poi riapparire dopo diversi minuti con un bambino. Non era detto che fosse semplice, spiegò Roan. I bambini potevano gridare, attirando l’attenzione dei sorveglianti. Spaventati, a volte doveva perdere un po’ di tempo per convincerli a seguirla. Chi glielo diceva che quello non fosse altro che un nuovo tipo di doloroso gioco inventato per loro?
    Il Vagabondo rimaneva di guardia, un occhio nel buio e l’altro ai bambini, che aumentavano di numero.
    Roan sembrava stanca e le si spezzò la voce quando disse che non potevano prenderne altri. Il tempo era finito, se volevano essere sicuri di portare in salvo i cinque che avevano liberato.
    ‒ Hai pensato anche alla fuga? ‒ chiese Il Vagabondo. Non c’era ironia, nella voce, ma un’antica gentilezza.
    Roan annuì: ‒ Dobbiamo allontanarci in fretta, senza lasciare tracce, altrimenti riusciranno a seguirci. Potremo anche camminare, quando saremo lontani e non sapranno più dove cercarci. Ma per ora ci sposteremo con i portali, un po’ alla volta, fin dove riuscirò. Sarà più difficile e più faticoso di prima, dovremo passare tutti insieme.
    Entrarono e uscirono diverse volte, finché si ritrovarono nel bosco e Roan crollò seduta a terra.
    Il Vagabondo accese il fuoco e divise le provviste. Per quel che restava della notte, vegliò sul sonno di tutti. Sfinito, il sonno di Roan. Pieno di incubi, quello dei bambini.
    Il giorno seguente camminarono. Non tanto. Non solo perché i bambini non erano ancora in grado di farlo a lungo. Il Vagabondo ebbe l’impressione che Roan non avesse più una meta precisa, che il loro muoversi nel bosco avesse quasi solo lo scopo di stare con i bambini.
    Fu così che si accorse dei nomi. ‒ Non sanno i loro nomi. Non li ricordano.
    Roan annuì mesta: ‒ È la prima cosa che gli fanno dimenticare. Non esisti, senza il tuo nome. Non sei una persona. Non sei nulla, puoi anche scomparire.
    ‒ La prima…?
    ‒ Sì. Non ricordano nulla della loro vita, prima delle gabbie. Dimenticare il proprio nome significa dimenticare anche chi quel nome lo pronuncia con amore. ‒ Roan trovò gli occhi dell’uomo, improvvisamente pieni di consapevolezza, di una storia che aveva creduto essere solo la sua.
    Lui distolse lo sguardo e lo puntò sul fuoco. Avevano finito di mangiare, e il tramonto era diventato sera.
    ‒ Hanno avuto incubi tutta la notte, ieri.
    ‒ Hanno bisogno di nuove storie. Buone storie, per fare di nuovo bei sogni. Puoi iniziare adesso.
    Il Vagabondo si mise a ridere, ma smise subito, perché qualcosa nello sguardo di Roan gli diceva che non scherzava. Senza sapere perché, chiamò i bambini e li fece sedere attorno al fuoco. Senza avere alcuna idea di come farlo, l’uomo nel bosco iniziò a raccontare una storia.
    Un cerchio di luce nel buio, e loro nel cerchio. Il freddo e la paura fuori, dimenticati per il tempo di una storia.
    L’uomo non sapeva da dove gli venissero le parole e tutto ciò che le parole raccontavano. Apparivano e basta, nell’odore del fuoco, nelle faville che salivano verso l’alto e morivano nel buio, nel profumo della notte. Raccontare sembrava così facile, ora che aveva iniziato. Smettere sembrava difficile, perché da ogni storia ne nasceva un’altra.
    E c’era lei che guardava e ascoltava. Il Vagabondo coglieva gli occhi di Roan su di sé e non sapeva perché questo gli facesse bene, perché gli servisse, perché gli sembrasse qualcosa di perduto e ritrovato. Sentì qualcosa stringergli il petto e il desiderio mai provato, o forse dimenticato, di piangere. Non tanto, solo un po’, ma sperò che tutti dessero la colpa al fumo, per gli occhi lucidi.
    I bambini infine si addormentarono.
    Rimasero l’aria della notte nel cuore, le stelle ad avvolgerli, e loro, tra la terra e le stelle.
    ‒ Da dove vengono queste storie? Che magia mi hai fatto, Roan?
    ‒ Nessuna magia. Ti sto solo aiutando a ricordare. Qual è il tuo primo ricordo?
    ‒ Sopravvivere.
    ‒ E dopo? Dopo che sei fuggito dalle gabbie?
    ‒ Solitudine. Nessuno mi guarda, nessuno mi vede. Ma non è mai stato un problema, me la sono sempre cavata benissimo da solo.
    ‒ E prima delle gabbie?
    Silenzio.
    ‒ Il tuo nome?
    Silenzio.
    ‒ Nessun nome. Per questo hai passato la vita a dartene diversi, perché nessuno in realtà andava bene. Nessuno era il tuo.
    ‒ Come sai…? Chi sei?
    ‒ La domanda non è chi sono io, ma chi sei tu. Ti ho detto che questa era una missione di recupero. Non ti ho mai detto che riguardava i bambini.
    Il Vagabondo fu percorso da un brivido.
    ‒ C’era una volta un Regno ‒ iniziò Roan ‒ che era il cuore di un mondo; una famiglia, che era il cuore del Regno; e un Principe, un bambino amato, che una volta cresciuto avrebbe continuato a fronteggiare con speranza e coraggio gli inevitabili guai della Storia. Chi voleva avvelenare le radici dei mondi pensò che il modo migliore per iniziare fosse rapire il bambino, fargli dimenticare il suo nome, trasformare i suoi sogni in incubi terribili, che più di altri, perché nel cuore stesso del mondo, lo avvelenassero.
    ‒ Perché? ‒ sussurrò Il Vagabondo.
    ‒ Perché si fa il male? Io non ho una risposta. Tu sì? Ma il Principe Perduto riuscì a fuggire e, pur senza nome e senza passato, qualcosa in lui aveva memoria di chi era stato, di qual era la cosa importante. Cresciuto, provò a combattere l’oscurità, finché un giorno perse la speranza.
    Silenzio.
    ‒ Pronuncia il mio nome.
    ‒ Roan…
    ‒ Ora ritrova il tuo.
    ‒ … Aron.
    La ragazza sorrise: ‒ Hai un lavoro da fare, Aron, Principe Perduto, e non sarà un lavoro facile. C’è da ricostruire un Regno, un mondo.
    ‒ Non posso…
    ‒ Sì, puoi. Non tutto in un attimo, ma puoi accendere una luce, piantare un seme, spezzare la catena in un punto. Qualcun altro vedrà la tua luce, qualcun altro coltiverà il tuo seme, coglierà il frutto, pianterà un nuovo seme. Anche quando nessuno si ricorderà più di te e il tuo nome sarà stato spazzato via dai millenni. Certo, avrai bisogno di un sacco di aiuto. Dovrai darti da fare, per trovarlo.
    ‒ Ma tu non ci sarai…
    ‒ Il mio tempo qui è finito. Ora inizia la tua storia.
     
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    Penna suprema

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    Bello, bello e strabello.
    Leggere dei bambini gladiatori mi ha fatto stringere lo stomaco. Lì c'è una parte non chiarissima sul fatto che anche lui ne aveva fatto parte. Il dubbio mi è venuto :mumble.gif: perchè spieghi che nessun piccolo può andarsene né scappare. Poi dici che lui è scappato... un'altra cosa che non ti perdonerò facilmente è l'averlo lasciato solo... :esaltato.gif: Lascia pure che è forte, che è un eroe e tutto quello che ti pare, ma da solo contro tutti... :sbranato.gif:
    Non importa, non far caso a me. Il fatto è che quando una storia mi prende vorrei che andasse come dico io... Un abbraccio, complimenti e vai piano.
     
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    Penna furiosa

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    Sarò ripetitiva ma questo è un altro bel pezzo (ma quanto siete bravi, ragazzi?)
    Mi piace Aron: personaggio affascinate e tormentato, inaridito da anni di sofferenza.
    Forse nella prima parte del testo fai un uso eccessivo della parola "uomo" (l'uomo chinò la testa, l'uomo rimase immobile, l'uomo sospirò... ) ma è una sciocchezza perchè la forma è chiara e corretta. Rimane anche a me qualche dubbio su come il protagonista sia riuscito a fuggire e non ti nascondo che avrei voluto sapere di più sull'identità della ragazzina dotata di poteri magici. Ma il risultato finale non cambia e ti ripeto che il racconto mi è piaciuto molto.
    Posso dire che l'ho scritto io??? :shifty:
     
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    Piaciuto, parecchio. Chi ha scritto questo racconto conosce il fantasy, ne ha letto parecchio e infatti fa largo uso di molti luoghi comuni e stereotipi del genere. Lo stesso fulcro del racconto, ovvero i combattimenti nelle arene, sono usati da molti autori, uno fra tutti Vanni Santoni HG, che fa combattere proprio due bambine. Insomma, forse questo racconto manca un po' di originalità, di personalità, ma è davvero meritevole di lode.
    Complimenti.
     
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    Penna suprema

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    Una delle opere migliori.
    Mi associo all'entusiasmo degli altri lettori.
    Un autore così bravo potrebbe farmi cambiare idea sul genere.
     
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    Dio della penna

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    Mi associo all'entusiasmo di tutti. Stile e trama. Fantasia e messaggio. Tutto perfetto . Imito Tom e ti abbraccio.
     
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    Penna furiosa

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    Anche questo è scritto molto bene, ma non mi ha entusiasmato. Durante la lettura non sono riuscito a immergermi completamente nella storia. Probabilmente tutto è da ricondurre alla mia scarsa confidenza col genere, che non è tra i miei preferiti.
     
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    Scrivano supremo

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    Ciao Aut-

    "Il sussurro alle sue spalle" Ecco, questo è l'unica cosa che alla prima lettura non ho capito e mi ha inceppato. Avevo capito che fosse una delle guardie che lo scherniva, mentre le altre ridevano nell'accampamento; invece a sussurrare era Roan.

    Il resto l'ho letto tutto d'un fiato e riletto volentieri. Ora che leggo i commenti di altri, non mi sono reso conto degli stereotipi fantasy che hai usato; pensavo che il racconto potesse essere compreso anche da chi non frequenta il genere, invece evidentemente no. Ottima la scelta di focalizzarsi solo su due protagonisti. Apprezzo anche molto l'uso del fantasy come scusa per raccontare una bella storia.
     
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    Penna furiosa

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    Carino. Non mi entusiasma perché mi lascia l’impressione del deja vu. La ripetizione del soggetto (ho contato 23 volte) non mi sembra una negligenza lieve – quanto meno segnala trascuratezza o peggio, ma non è questo il caso, una scarsa esperienza di scrittura – invece ho apprezzato il finale che sembra aprire al sequel.
     
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  10. Foglia nel vento
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    Direi che siamo sul Fantasy eroico anche se la magia non è palesata (il modo in cui i bambini vengono liberati resta un mistero).
    Parimenti resta un mistero come abbia fatto a liberarsi il principe da bambino (salvo che, a sua volta, non possieda qualche oscuro potere a cui non viene fatto cenno).
    Ci sono sicuramente glie estremi per un sequel perché la presa di coscienza del protagonista è appena cominciata.
    Molto ben scritto.
     
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    Penna furiosa

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    Qui hai gioco facile con me, autore, perché l’archetipo dell’eroe riluttante, del grande perduto e caduto, mi piace e lo sento mio, parte del mio immaginario. Questo è appunto un racconto che sento pieno di archetipi, tanti di quelli che poi hanno trovato voce nella storia del fantasy. Omaggi? Citazioni? Inconsce o volute? Oppure semplicemente un sentire comune e universale che trova modo di esprimersi con forme diverse? Boh. Poi ci spiegherai, se puoi.
    La storia mi ha preso, dall’inizio alla fine, e mi piace anche il modo in cui l’hai scritta.
     
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  12. ZEUSI
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    Sono certo che lo stesso Tolkien applaudirebbe, con il suo Ramingo che diventò l'ultimo Re. Omaggio bellissimo e ben graduato nella successione delle scene. Una bella penna!
     
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    Teropode assennato

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    Molto bello davvero, sono rimasto piacevolmente sorpreso dall'evoluzione dopo un inizio che mi era apparso zoppicante (la voce che sussurra in effetti sembrava un'altra cosa, e soprattutto non capivo perché l'uomo rispondesse solo con la testa: per non farsi notare/udire, ma non ho visualizzato subito la scena nel modo corretto).
    Anche il fuoco che "esplose" mi ha un po' spiazzato.

    Poi però la storia è andata in crescendo e, tolto qualche punto qua e là, mi ha davvero entusiasmato.

    Troppo, troppo usata la parola "uomo": avrei usato un nomignolo da alternare, per evitare la fastidiosa sovrabbondanza del termine.

    Da top 5, devo solo decidere su che gradino.
    :)
     
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    Penna stilografica

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    Magnifico racconto.
    Ne sto trovando di bellissimi in questo step. Forse che il fantasy mi piace più di quanto credessi?
    L'inizio mi sembra la parte più debole, l'entrata in scena della ragazza non è chiarissima. Poi però tutto scorre perfettamente.
    Quando a metà racconto si parla dalla scomparsa dell’ultimo Principe, già si capisce che il Vagabondo si sarebbe rivelato come il Principe scomparso. Ma questo non mi ha tolto il piacere della lettura.
     
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    Penna furiosa

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    Samboseto di Busseto (Ma nata a Parma)

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    Ciao Autor. Bel pezzo davvero. Genere centrato, storia avvincente. Magia q.b., mistero, eroe e persone da salvare per riportare il bene nel mondo.
    Trasportare la morale ai giorni nostri è un attimo: salva i bambini per salvare il mondo; educali correttamente per avere un futuro degno di essere vissuto.
    Bella storia. Complimenti.
     
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22 replies since 23/9/2017, 22:30   558 views
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