Scrivano supremo
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Ci sono grumi di neve che resistono tra le radici degli aceri, dove l'ombra gelata ha impedito che si sciogliessero, come se qualcuno avesse cancellato un poco del rosso e dell’arancione delle foglie cadute. Il sentiero fangoso è illuminato da teneri raggi di sole e nonostante la foresta sia fitta riesco a vedere bene dove cammino. Evito con cura le pozze, ma i piedi fasciati col cuoio finiscono comunque risucchiati dalla strada. La katana e la wakizashi sbatacchiano sulla schiena, dove le ho legate per non darmi fastidio. Sono stanco, ma cerco di avanzare veloce, con il sudore che cola sulla cicatrice, nel sopracciglio e fin dietro la benda che protegge l'orbita destra, ormai vuota. Quando arrivo davanti ai cancelli del castello il sole è alto in cielo, circondato da sottili nuvole grigie che si stanno raddensando rapide. Ho le calzature ricoperte da uno spesso strato di melma, pesano come se fossero fatte di ferro. La guardia di ronda mi sorprende scalzo, mentre cerco di ripulirle battendole a terra, con l'unico occhio socchiuso e concentrato. “L'aspettavamo ieri, Hajime Ide-sama” dice, inchinandosi. Le sue parole prendono consistenza e si trasformano in vapore. Tolgo il cappello e sento il sudore ghiacciarsi sulla fronte. “Inverno in anticipo” dico, “portami dentro, la principessa starà aspettando.” La guardia non risponde, si limita ad abbassare il capo e a fare strada attraverso i giardini che circondano il palazzo. I salici gocciolano e la neve disciolta ha reso tutto così nitido da sembrare finto. Si sentono i cavalli nitrire, lontano. Nel cortile interno tre uomini gettano ghiaia asciutta sopra quella bagnata e la distribuiscono per bene con un rastrello dai denti ravvicinati. Quando gli passo accanto smettono di lavorare e salutano con deferenza. La ghiaia pulita è così bianca che sembra fatta di ossa sbriciolate. La guardia mi lascia davanti alle sale della servitù. Sono stanzette calde e profumate di resina. Dopo essermi lavato, una ragazza dallo sguardo basso mi porge uno yukata nuovo, blu e pesante, con un obi nero a cui appendo le spade da samurai. È da quando ho iniziato a lavarmi che sento un battere regolare provenire da fuori. Dalla finestra vedo due uomini intenti a preparare il mochi. Uno pesta il riso nel mortaio, mentre l'altro lo rigira e lo tiene umido. Fin da piccolo, quando abitavo nei quartieri bassi di Osaka, sono stato affascinato da quella operazione. Non è una semplice questione di coordinazione, di pura meccanica, è qualcosa di più, è diventare una persona sola, è sintonizzare i battiti del cuore. È con quella musica dolce in sottofondo che mi reco nelle stanze della principessa, al piano superiore del palazzo. Mi accomodo al centro della stanza, su un tatami morbido come il pelo di un gatto. Le pareti di carta di riso sono decorate con fiori e bambù e lasciano filtrare una luce tenue. Mi tolgo le spade e le sistemo con cura davanti alle ginocchia, quindi faccio un lungo respiro. Nell’aria c'è un tenue odore di giglio, presente ma inafferrabile, come un ricordo d’infanzia. Dietro il paravento, sul fondo della stanza, noto le sagome di due donne, sono entrate in silenzio e in silenzio si muovono. Una è di profilo, con i capelli lunghi e sciolti, deve essere la principessa Yuki. L’altra donna le sta inginocchiata alle spalle e la pettina. Nessuno parla, l'unico rumore sono i cinguettii dei pettirossi nelle gabbiette appese alle verande e il ritmo degli uomini che preparano il mochi. Ogni tanto qualcuno passa nel corridoio, ma ne vedo solo l’ombra in controluce sulle pareti di carta. Questo regno delle illusioni, dal tempo discreto e misurato, mi mette a disagio. Sono sempre stato un uomo nervoso, pronto all’azione, comincio a sentire il bisogno di muovermi, mi sembra di avere prurito dappertutto. “Siete in ritardo” dice a un tratto la principessa, quindi fa un cenno con la mano. La donna alle sue spalle smette di pettinarla e la sua sagoma si spegne, scomparendo. Mi inchino, toccando con la fronte il tatami. “Dovete scusarmi, Hime-sama” dico. Sento battere le mani e mi rimetto dritto. Due donne hanno portato via il paravento scoprendo una porta e un mobiletto laccato da toeletta. La principessa gli siede davanti, vestita con un kimono leggero, bianco e rosa. I lunghi capelli le cadono sulle spalle, neri e lucidi come le piume di una rondine. Non è truccata e la pelle ha un naturale candore, che mi ricorda la neve del giorno prima. L’ultima volta che l’ho vista, due anni prima, a Edo, non era che una bambina. Io avevo con me tutti e due gli occhi e lei era solo un’idea della donna che sarebbe diventata. Sento un brivido, dalle gambe al cuore, un sentimento che mi mette in imbarazzo, qualcosa che non dovrei provare, qualcosa che assomiglia al desiderio. “Ide-san” dice la principessa. Provo disagio a sentirmi chiamare per nome, ma cerco di non farlo vedere. “Quando abitavo a Edo, con mio padre” continua, “non usavamo tutte queste formalità. Potete ancora chiamarmi Yuki.” Fa un sorriso leggero e una fossetta, un’unica piccola fossetta, nasce al centro della guancia sinistra, creando un’asimmetria nel viso, l’imperfezione della perfezione. Non credo ci sia malizia in queste parole. Io sono stato il miglior samurai, il più fedele servo del Daimyio, suo padre, ma ora sono un orbo relegato a compiti marginali; lei è una delle donne più importanti del Giappone. Poco importa se da piccola la tenevo sulle ginocchia, le raccontavo vecchie storie e le avevo insegnato a cavalcare. “Come volete” dico. “Partiremo subito, se possibile entro un'ora” dice e si volta verso la toeletta, per frugare tra i pettini con cui fermare l'acconciatura. “Non credo sia una buona idea, è possibile che il tempo peggiori di nuovo.” Lei smette di cercare, ha trovato una pettine dai denti lunghi, nero e bianco, con un crisantemo come decoro. “Ho fretta” dice. “Nakata-dono mi ha raccomandato di non farle correre rischi inutili.” “Mio padre le ha anche raccontato di quanto sono diventata cocciuta?” Si alza e il kimono le copre i piedi, come una pozza le si allarga intorno, fa passi piccoli e regolari e sembra quasi che galleggi. Tiene il pettine dritto davanti a sé, come un'arma. Lo ferma a pochi centimetri dal mio naso. La pelle del viso è così pallida da sembrare una maschera del kabuki e in tutto quel bianco i suoi occhi neri sembrano ancora più scuri. Terribili e bellissimi. Tutto intorno a me si fa sfocato e sono sicuro che i due uomini, giù in cortile, stiano pestando più forte ne loro mortaio. “Sono ordini che non posso...” bisbiglio, il suo profumo, quel sentore di giglio, mi sta facendo impazzire, e quelle pozze, quegli occhi infiniti... non riesco a proseguire e chino il capo. Da quando sono così debole? “Siete pagato per eseguire i miei di ordini, ora” dice. Non riesco a replicare, il battito del mortaio mi ha reso sordo. Ma quando si allontana e riesco a calmarmi mi accorgo che nessuno, in cortile, sta più facendo il mochi, chissà da quando. Era il mio cuore, solo lui, a battere forte contro i timpani.
La principessa non ha voluto saperne di usare la portantina, nonostante il freddo. Così, ora se ne sta dritta in sella, sulla sua puledra bianca, fasciata con una stola di pelle di lupo. L'espressione spazientita da bimba capricciosa mi rende inquieto, evito di guardarla per non farmi distrarre mentre organizzo la scorta che dovrà accompagnarci prima a Urakawa, lungo i sentieri del monte Kamui, e poi l'indomani fino a Tomakomai, dove ci aspetta una nave per Edo. Se il tempo regge prima del tramonto dovremo essere arrivati. Il vento crea piccoli mulinelli attorno alle zampe dei cavalli irrequieti, ma il cielo è limpido, a parte qualche straccio di nuvola sporca all'orizzonte a est. Ci mettiamo in marcia poco prima di mezzogiorno, io sto appena dietro la principessa, al centro esatto della colonna. Per ore rimango immobile, rigido, a osservarle la schiena e quel piccolo angolo di collo che rimane scoperto, appena sotto l'attaccatura dei capelli. In testa ho pensieri che non dovrei avere e nello stomaco sassi e olio bollente. Intanto che proseguiamo per il sentiero che taglia il bosco in due il vento si è più freddo e agita le fronde degli alberi, gettando a terra migliaia di foglie, che sfrigolano sotto gli zoccoli dei cavalli. Hado, il comandante delle guardie, mi si avvicina con la faccia scura. Tiene le redini molto forte e sembra preoccupato. “Hajime-sama” dice, “il tempo non promette bene, il vento è girato e le nuvole stanno per coprire il cielo. Dobbiamo affrettare il passo.” “Hado-san, hai ragione, ma con il terreno in queste condizioni rischiamo di azzoppare qualche cavallo.” “Potremmo uscire dal bosco e fare il sentiero che cala lungo il versante ovest. Il suolo è roccioso e potremmo accelerare il passo.” “Al contempo è anche più esposto, qua godiamo della protezione degli alberi. Ma hai ragione, dobbiamo sbrigarci, cambiamo strada.” La colonna devia in un sentiero poco battuto e dopo poco esce allo scoperto. Se l'aria non fosse così scura si vedrebbe il mare, a sud. Ma le nubi grasse e pesanti hanno reso il cielo buio. Inizia a nevicare appena iniziamo la discesa lungo il costone del monte, prima con fiocchi leggeri e minuti, quindi con insistenza, fino a coprire di un manto silenzioso tutto quello che ci circonda. Il vento è sempre più freddo e violento, ora piega le cime degli alberi e scuote i rami bassi, che perdono il loro carico di neve fresca. Mi affianco alla principessa e le poso anche la mia stola sulle spalle. “Grazie, Ide-san” dice. Le vorrei rimproverare il fatto che avremo dovuto aspettare l'indomani per partire, ma il suo sorriso riesce ad allontanare dal mio animo qualsiasi rancore. A metà discesa, quando ormai il sentiero si allarga su ampi pianori, mi tranquillizzo. La bufera di neve non accenna a scemare, ma ormai il peggio è passato. Invece, tra i tumulti e i boati del vento, sento un ringhiare sommesso e un branco di lupi si dispone davanti a noi, tra la neve alta. “Tenete i cavalli!” urlo. Ma è troppo tardi. I lupi attaccano su due lati i cavalli impazziscono. In un attimo il terrore si impossessa di loro e due guardie finiscono per terra, disarcionati. Anche il mio ronzino si impenna, ho le dita gelate e perdo subito la stretta sulle redini. Finisco tra la neve e per un attimo non sento più nulla, solo un ronzio sordo, che piano sfuma e lascia spazio a un confuso nitrire, a grida, imprecazioni. E infine a urla di dolore. Riesco a fatica a rimettermi in piedi e sfodero la katana, cercando di capire da che parte si trovi la principessa. La vedo subito, circondata da mulinelli di neve e tre lupi. È ancora in sella, con le ginocchia serrate intorno al ventre della puledra imbizzarrita. Mi muovo veloce, per quanto possibile, con la spada alta sulla testa. “Hime-sama!” urlo, mentre un lupo si lancia sulle zampe della puledra. Accelero, gridando frasi senza senso, evito un uomo a terra, ha il viso ricoperto di sangue, un lupo attaccato al collo. La bocca aperta, senza suono. Raggiungo la principessa nel momento esatto in cui la puledra riesce a disarcionarla e l'afferro, tenendola stretta. “Tranquilla” sussurro, “tranquilla.” Cerco di regolarizzare il respiro, il panico è il primo nemico. Un respiro, un altro, e intorno non c'è nient'altro che bianco. Lo sento, lo vedo, colpisco e la lama penetra la pelliccia e le carni. Ruoto subito il polso, per evitare che la spada si incastri, e strattono. Il lupo che ho ferito guaisce a terra, i suoi compagni si fermano un attimo e indietreggiano. “Approfittiamone” dico e spingo la principessa verso il costone di roccia che cala a picco sul pianoro. Lo raggiungiamo e ci arrampichiamo. Sbuchiamo nel fitto del bosco e ci mettiamo a correre, sollevando le ginocchia, con la neve sul viso, senza direzione. Non so per quanto scappiamo, ma quando ci fermiamo, con i nostri respiri che diventano fantasmi, non sentiamo più nulla, solo il vorticare pazzo del vento. Il sole è ormai tramontato e la neve, che fino a poco prima era azzurra, poi blu, ora è nera, un oceano scuro di tenebra. Non capisco dove siamo, so solo che devo trovare un riparo, sento le dita insensibili e la principessa tremare accanto a me. “Non si preoccupi” dico. “Aiutami, Ide-san, ti prego...” Mi pulisco il viso dalla neve e avanzo, non mi viene in mente nient'altro. Almeno muoverci ci tiene caldi. Camminiamo per parecchio tempo, cercando di tenere una direzione precisa, per non rischiare di tornare al punto di partenza. “Morire nella neve” dice a un tratto la principessa, “non le sembra uno scherzo crudele? Mia madre mi chiamò Yuki perché quando nacqui ero pallidissima. Pensava fossi uno spirito della neve.” “Non morirà, glielo prometto.” Le sfioro il viso, con il palmo della mano, la sento fredda, ma non gelata. Facciamo ancora pochi passi, chiusi in un silenzio imbarazzato, e andiamo quasi a sbattere con un grande acero cavo. Mi chino e scavando tra la neve capisco che l'apertura è abbastanza larga da permetterci di entrare al suo interno. Ci accoccoliamo con le schiene sul tronco marcio, tremando. “Stringimi” bisbiglia la principessa. La tengo forte tra le braccia, trattenendo il respiro. Piano, mentre fuori continua a nevicare, l'apertura si richiude e la temperatura sembra aumentare. La principessa sospira e mi sfiora la benda sull'occhio. “Cosa è successo?” chiede. “L'ho perso in battaglia” dico. “Per mio padre?” Annuisco e lei mi sfiora la fronte e poi giù, fino all'occhio buono. Lo chiudo e tremo, ma stavolta sono sicuro che non si tratti del freddo. Sento il profumo di giglio e il sapore delle labbra. “Hime-sama” dico, quando ci separiamo, “non possiamo. Noi non...” “Scaldami, Ide-san. E chiamami Yuki.” “Vi prego, non posso.” “Mi pare di avertelo già detto che sei pagato per obbedirmi.” “Yuki...” “Non ho dormito per due notti quando ho saputo che saresti venuto tu a prendermi, Ide.” Le bacio il collo, le stringo forte i seni e lei geme, scioglie i capelli che mi cadono sul viso. Le mani, le dita che si intrecciano e insieme riprendono sensibilità. Diventiamo una persona sola, sintonizziamo i battiti del cuore. Facciamo l'amore vestiti, al buio. Sono felice, come mai prima. Sono felice, pur sapendo che questa sarà la mia condanna a morte.
Passiamo la notte abbracciati, dentro il tronco cavo. Scampare insieme da morte certa ci ha legati in un modo indissolubile. E forse è stata la scintilla che ci ha accesi in modo così incosciente. La mattina libero l'ingresso dal tappo di neve e mi accorgo che ha smesso di nevicare. Il sole, già alto, rende il bianco che ci circonda accecante. Ci camminiamo sopra quasi in punta di piedi, tristi nel dover rovinare tutta quella perfezione. Ci mettiamo una giornata intera a ritrovare il sentiero e ad arrivare a Urakawa. In tutta la giornata parliamo poco, sorridiamo, questo sì, ma sono sorrisi malinconici, carichi di nostalgie, come un saluto a un amico che parte in nave e piano si perde all'orizzonte. A Urakawa ritroviamo Hado-san. Lui e due guardie sono sopravvissuti, gli altri sono tutti morti o dispersi. Ci hanno cercato per ore prima di scendere verso il mare. Ci mettiamo ancora tre giorni di viaggio per arrivare a Edo. In tutto questo tempo cerco di incrociare il meno possibile lo sguardo di Yuki. Arrivati a palazzo veniamo accolti con tutti gli onori e Nakata-dono in persona viene a salutarci. Mi abbraccia, come non faceva da anni. “Grazie, Hajime-san” dice, con le lacrime agli occhi, “mi hai riportato mia figlia, non saprò mai come sdebitarmi.” Sento il cuore che va in pezzi, sono un uomo senza onore. Mi lascio cadere a terra e gli bacio i piedi. “Nakata-dono” dico, “non merito niente da voi, niente. Sono solo un lurido traditore.” “Ide-san” urla Yuki, “smettetela, state zitto!” Nakata-dono mi aiuta ad alzarmi, mi tiene la spalla, guardandomi dritto in viso. “Ditemi, Hajime-san.” “Ho giaciuto con vostra figlia, Nakata-dono” sussurro. C'è silenzio, un leggero brusio, un vociare dalla strada, ma nulla più. Nakata-dono chiude gli occhi, mi lascia la spalla. Io estraggo la wakizashi, sono pronto a uccidermi, se me lo chiederà. È giusto così, non merito di vivere senza onore. “Ti devo comunque la sua vita” dice Nakata-dono, “non posso ignorarlo. Hado, dammi un coltello.” “No!” urla Yuki, “padre, vi prego. No! Io lo amo, vi prego.” “Portatela via” dice Nakata-dono, mentre prende il coltello dalle mani di Hado-san. Io getto via la spada e attendo. Non ho paura. Qualunque sia il mio destino, ho avuto la felicità che ho cercato da sempre. Nakata-dono mi si avvicina. “Devo farlo, lo sai” dice. E mi trafigge l'occhio sinistro.
Quando mi sveglio il non riuscire a vedere nulla mi coglie impreparato. Non so dove sono, ho un forte mal di testa, nausea, ma non ho ricordi chiari degli ultimi giorni. Dei passi, alla mia destra, ma non riesco a muovere il collo. “Verrete portato via e affidato a un monastero” dice una voce, che non riconosco. Non riesco a rispondere, muovo un poco la mano. Mi riaddormento. Credo di aver passato un mese tra veglia e sonno. Ho fatto decine di sogni agitati. Su Yuki, sulla neve, i lupi. E su due uomini che battevano in un mortaio. Il loro mochi era il più buono e dolce che avessi mai assaggiato.
Al monastero mi trattano con rispetto, io sto molto tempo ad ascoltare il mare e a sentirne i profumi. La notte vorrei piangere, ma non ci riesco. L'inverno è passato e si sente l'odore dei fiori di ciliegio. Mi piacerebbe vederne i mille rosa e bianchi, ma posso solo immaginarli. Sento anche odore di giglio. Sempre più forte. Il cuore rallenta, batte alla velocità con cui cade la neve. L'odore è attorno a me, una piccola mano calda mi sfiora il collo e labbra di cui non ho mai dimenticato la consistenza mi sfiorano. “C'è una nave che ci aspetta” sento dire, “una nave che ci porterà in Cina. Ti prego, non dirmi di no.” Non ne sono sicuro, ma forse sto piangendo.
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