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Padre Georg accompagnava l’anziano Pontefice tenendolo a braccetto. Erano lontani i giorni in cui la sconfinata fede in Dio di Benedetto XVI gli aveva fatto pensare, per un momento, di rinunciare al suo trono. Si compiva così il volere del Padre, il ciclo della vita: l’età avanzava, la lucidità a tratti veniva meno, la sofferenza si prendeva spesso gioco del suo corpo. In quei momenti però, più che mai, il Papa era convinto di aver evitato un grosso errore qualora avesse abdicato al soglio di Pietro anzitempo, prima che il Signore lo avesse chiamato a sé, com’era stato per tutti i suoi predecessori. Padre Georg, la sua ombra oltre che suo segretario personale, era sorpreso di come Ratzinger avesse ripreso negli ultimi anni di pontificato un inaspettato vigore, fisico e mentale, subito dopo quel periodo buio in cui dovette decidere se abbandonare la nave o meno. Ancora di più, ma poteva non essere solo una coincidenza, il duecentosessantacinquesimo Papa di Roma si mostrò veramente determinato, più del normale, quando si trovò ad affrontare una questione che non si sarebbe aspettato: “Nostro Signore Gesù Cristo e tutta la chiesa sono stati abbastanza bistrattati e derisi dalla storia, spesso impermeabile alla fede, per cui è giunto il momento di scoprire la verità!” Lo disse una volta concludendo la messa nella sua cappella privata, ancora con la pisside in mano, dopo aver somministrato l’Eucarestia agli altri sacerdoti, suore e prelati presenti. Qualche giorno addietro era stato informato del ritrovamento di una lettera, da secoli sepolta negli archivi vaticani, la quale poteva contenere una traccia circa la giusta strada da percorrere per far luce sul mistero forse più antico e difficile di tutta la storia della chiesa cattolica: la queste, la ricerca del Santo Graal. Padre Georg non si sarebbe mai più tolto dalla testa l’immagine dello sguardo di fuoco del Pontefice subito dopo aver appreso la notizia: come un dardo incandescente aveva sciolto gli animi di tutti i presenti nella stanza, compreso quello del capo dei teologi che avevano ritrovato e studiato la lettera. Padre Emanuele, topo d’archivio e grande studioso, aveva ritenuto di dover informare immediatamente il Papa circa la scoperta che poteva rivelarsi determinante. Egli non era un cuor di leone e infatti il Papa gli metteva così paura da farlo più volte indietreggiare ogni volta in cui gli occhi di Ratzinger incrociavano i suoi. Dentro di sé rimuginava spesso se avesse fatto bene a esternare la sua scoperta oppure se fosse stato meglio tacere, per cui il suo silenzio non avrebbe fatto altro che ispessire lo strato di polvere secolare che ricopriva la vicenda del Graal. In ogni caso Emanuele concordò con padre Georg un appuntamento con il Papa presso gli archivi dello Stato Vaticano, dove avrebbe spiegato nel dettaglio le conclusioni a cui lui e il suo gruppo di studiosi erano arrivati. L’inverno era ormai alle spalle, l’aria tiepida di Roma portava con sé i primi effluvi primaverili, mentre un timido sole iniziava a scaldare i marmi chiari del “centro del mondo”. “Dobbiamo risolvere la questione entro Pasqua, Georg” disse il Papa senza alzare il capo né modificare il suo passo lento, ma spedito. “Santità, padre Emanuele ci spiegherà bene cosa ha scoperto” rispose pacato il segretario. “Non ho intenzione di perdere troppo tempo. Non rinnego l’impegno e gli studi di Emanuele, ma se c’è una pista va battuta subito, senza fronzoli!” ribatté piccato. “State pensando a un nunzio, Santità?” “Sì,” disse Benedetto pensieroso “ma non ufficiale per il momento.” E continuò: “Ti conosco bene mio caro Georg. Mi hai letto nel pensiero. E il mio pensiero corrisponde al tuo: stiamo pensando la stessa cosa, o meglio, alla stessa persona” sorrise. “Non volete prima ascoltare Padre Emanuele?” disse Georg accennando un sorriso a sua volta. “Certamente!” disse il Papa apparentemente seccato “Ma tu intanto mandalo a chiamare.” “Potrebbe non essere facile trovarlo.” “Infatti” concluse Ratzinger prima di varcare il portone del palazzo degli archivi. Il grande atrio era cupo, un po’ come i volti delle persone che circolavano al suo interno: impiegati, sacerdoti, studiosi civili. Prima di accedere all’ascensore che li avrebbe portati ai sotterranei, Georg fece una telefonata, lasciando il Papa a qualche metro da lui, per cui il Pontefice non udì le parole tra il segretario e il suo interlocutore. “Allora?” chiese Benedetto XVI. “Inizieranno subito a cercarlo. Ho fatto preparare anche un messaggio per lui, chiuso con il sigillo papale. Così, per essere più convincenti, è una persona scettica e sospettosa per natura.” “Non capisco come questo figlio di Dio, al giorno d’oggi, non si porti dietro un telefono!” “E’ francescano, anzi, sembra più mormone” sorrise Georg. Ratzinger lo fulminò con uno sguardo. “Se siamo fortunati lo troveranno in una delle cripte di qualche chiesa di Roma.”
Padre Emanuele li attendeva nel suo studio, un vano semi angusto le cui pareti erano due scaffali alti fino al soffitto colmi di volumi antichi. Tutto l’ambiente degli archivi era insonorizzato e a temperatura costante e controllata per preservare al meglio libri e documenti vecchi di secoli. Sul tavolo era appoggiato un foglio giallastro, dagli angoli smussati, come strappati, mentre qua e là, irregolarmente, sembrava macchiato da una sostanza oleosa, tipo l’incenso. Il foglio si trovava all’interno di una specie di carta velina, che Emanuele maneggiava con cura indossando guanti di lattice. Papa Benedetto fu fatto accomodare su una sedia, Emanuele si sedette accanto a lui, mentre Georg rimase in piedi. “Coraggio,” disse il Papa “sono tutt’orecchi. Mi par di capire, guardando, che la lettera è scritta in lingua greca.” “Precisamente, Santità” sospirò Emanuele. E continuò: “E’ il greco parlato nell’impero romano d’oriente. Purtroppo non c’è una data sulla lettera, aspetto che credo sia voluto anche se non so perché, per cui la finestra temporale in cui è stata scritta potrebbe essere molto ampia.” Emanuele fece una pausa. “Ci sono alcuni particolari che ci danno delle certezze: il linguaggio è chiaramente colto, come dire, di livello superiore, per cui è possibile pensare che sia stata redatta da un religioso o comunque da una persona istruita.” Emanuele girò il foglio: “Inoltre, come potete vedere, questo simbolo diviso in due in alto e a metà del foglio, è chiaramente una croce ortodossa, una specie di sigillo sulla pergamena arrotolata. Va da sé che l’autore era certamente un cattolico ortodosso.” “A ulteriore conferma di ciò” continuò ancora lo studioso, “nella lettera è nominata una cattedrale, ovvero Santa Sofia…” si schiarì la voce “Santa Sofia è oggi un grande museo storico sito nella città turca di Istanbul. Al tempo dell’impero romano d’oriente, la cattedrale era un po’ come la nostra basilica di San Pietro, una sorta di caput mundi dove si svolgevano tutte le funzioni religiose principali officiate nientemeno che dal Patriarca Ortodosso di Costantinopoli. Ripeto, non abbiamo una data, ma possiamo ragionevolmente collocare la missiva al periodo della quarta crociata, indicativamente all’inizio del XIII secolo. Si dice inoltre che la stessa cattedrale di Santa Sofia fosse il luogo dov’erano custodite un imprecisato numero di reliquie importanti.” Ratzinger, alla parola reliquia, aggrottò la fronte rimanendo sempre il silenzio. Emanuele capì subito, dallo sguardo del Pontefice, che doveva venire al dunque. “Orbene” disse Emanuele “nella lettera si parla chiaramente di una scatola, un contenitore, forse una sacca imbottita, al cui interno si trova una reliquia. Non una reliquia qualunque a quanto pare, poiché chi scrive dice chiaramente che il sangue versato per difenderla e custodirla un giorno traboccherà inondando il mondo.” “Sembra una specie di profezia.” intervenne Georg. Il Papa lo zittì con un’occhiata. “Potrebbe sembrare, ma in realtà non è sicuramente così poiché l’autore, così dicendo, pare alludere alla grande responsabilità che lui e i suoi predecessori hanno avuto nel custodire questa particolare reliquia che comunque, preciso, non viene mai nominata, per cui…” “Per cui potrebbe non essere ciò che cerchiamo” disse il Papa. Emanuele fece un altro grande sospiro, rivolse lo sguardo a Georg in piedi in un angolo come un’armatura medioevale in un museo, e continuò: “Potrebbe non essere, ma c’è un altro passaggio della lettera che, unito al sangue versato che traboccherà inondando il mondo, ci può far pensare che la reliquia sia veramente il Graal.” Emanuele sospirò ancora, come se il peso delle parole che stava per dire gravasse sulle sue corde vocali: “E’ evidente che il custode della reliquia è l’autore della lettera. E’ ragionevole pensare che colui a cui si rivolge sarà il suo successore, colui che custodirà l’oggetto misterioso dopo di lui. Le parole sono chiare: mio diletto, con il potere conferitomi dall’ordine e la benedizione di Nostro Signore, stai per ricevere la Santa Reliquia che potrà donarti la vita eterna. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” lesse Emanuele scorrendo il dito e traducendo contemporaneamente. “E’ abbastanza chiaro, no?” Benedetto XVI guardò dapprima Georg, poi Emanuele e infine ancora Georg. “E sia!” esclamò. “Tanto vale fare un tentativo” disse il Papa dissimulando la sua determinazione nell’arrivare in fondo a quella vicenda tanto misteriosa quanto affascinante. “Ci sono ancora due particolari non da poco che vorrei porre alla vostra attenzione, Santità” disse Emanuele a bassa voce. Ratzinger acconsentì con un cenno della mano, che per un istante riflesse la luce al neon della stanza nell’oro dell’anello del pescatore. “Nella lettera viene menzionata anche una patena, che verrà data al nuovo custode insieme al contenitore. Non sembra essere anch’essa una reliquia, bensì un oggetto da tramandare tra tutti i custodi, una sorta di simbolo di appartenenza. Ma la domanda è dunque d’uopo: la reliquia è un calice?” “Il Calice” disse Georg facendosi il segno della croce. “E l’altro particolare?” domandò il Papa. “Guardate qui Santità” disse Emanuele indicando ciò che restava di un simbolo mezzo sbiadito sul fondo del foglio. “Non vedo niente!” si scocciò Ratzinger. Emanuele prese dunque una lente e indicò nuovamente il simbolo, sorridendo con gli occhi illuminati. Anche il Papa sembrò sorpreso. “Sembra una specie di carta intestata” disse Ratzinger. “Precisamente” confermò Emanuele. E continuò: “Ma non una carta intestata qualunque, ma una ufficiale, stampata da un’autorità, anzi di più, da uno stato. Tra l’altro uno stato dal passato glorioso. Guardate bene, Santità, un leone!” “La Serenissima!” esclamò il papa. “Venezia!” gli fece eco Georg. “Ecco il nostro punto di partenza” disse Emanuele soddisfatto.
Benedetto XVI e padre Georg uscirono dagli archivi vaticani con una cartellina dove era contenuta una copia della lettera, riscritta a mano da Emanuele. Georg fece subito una telefonata: nei sotterranei degli archivi non c’era campo, ma qualcuno lo aveva cercato. Era il suo contatto nelle guardie svizzere: avevano trovato il suo uomo e lo stavano conducendo in Vaticano. Ratzinger sembrava soddisfatto. A Dio piacendo e con un po’ di fortuna, il suo pontificato avrebbe potuto essere ricordato secula seculorum per aver risolto il mistero più difficile e indagato di tutta la storia della chiesa.
Lo avevano trovato in chiesa, ma stranamente non in una cripta. Con grande stupore lo videro in piedi, immobile, davanti alla Vocazione di San Matteo di Caravaggio presso la chiesa di San Luigi dei Francesi. Indagava su una misteriosa moneta presente nel dipinto, secondo indicazione e intuizione di un amico storico dell’arte. Le guardie svizzere, tracciando il segnale del suo laptop, lo trovarono agevolmente: si era collegato al wi-fi di un caffè nei pressi della chiesa. Non aveva telefono, ma non poteva lavorare e studiare senza pc. Senza opporre resistenza, accettò di buon grado di seguire le guardie, a maggior ragione dopo aver saputo che era lo stesso Pontefice ad averlo fatto cercare. Il sigillo papale sul messaggio era inequivocabile. Quarantenne, di madre greca e padre italiano, don Leandro aveva dedicato tutta la sua vita a studiare i misteri del mondo che in qualche modo avessero a che fare con la chiesa e la religione. Appartenente all’ordine francescano, laureato in teologia, parlava correntemente quattro lingue, oltre a conoscere alla perfezione il greco antico e il latino. A vederlo bene, sembrava più un turista che un sacerdote. Lui ne era consapevole, ma non se ne curava, poiché secondo lui la fede non andava ostentata: la fiamma della vocazione ardeva nel cuore e la luce di Dio irradiava dalle pupille.
“Leandro!” disse Ratzinger varcando la soglia della sala. Georg era dietro di lui. “Santità” rispose Leandro andando incontro al Papa e inginocchiandosi nell’atto di baciargli la mano. “Ti ho fatto chiamare per una questione alla quale vorrei che dedicassi un po’ del tuo tempo,” Benedetto XVI fece una pausa, “Georg ti spiegherà tutto nel dettaglio, io voglio soltanto dirti che ho massima fiducia in te, poiché ti stimo profondamente. Ricorda però che il tempo stringe, la Pasqua s’avvicina e Nostro Signore ci guarda, ci benedice e ci aiuta.” “Vi ringrazio, Santità. Qualsiasi sia l’indagine che m’aspetta, non vi deluderò. E sono sicuro che il Padre ci osserva e ci protegge in ciascun giorno che ci concede in vita, oltre ad aiutarci nella soluzione delle questioni in seno alla sua chiesa” rispose devotamente Leandro. “Amen,” sospirò Benedetto “va’ e sii prudente comunque, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” Georg gli porse la cartellina. Leandro la aprì. C’era la copia della lettera, un biglietto di sola andata e un post-it con scritto Santo Graal a matita. Leandro, con gli occhi spalancati, guardò Georg che annuiva in silenzio. Doveva fare in fretta, il treno per Venezia partiva in meno di un’ora.
Leandro era giovane, ma non stupido e neanche timoroso. La questione era spinosa e di grande rilievo: Benedetto XVI era determinato a giungere a una conclusione e non aveva esitato a sguinzagliare i servizi segreti vaticani per farlo cercare. Ciò significava che probabilmente qualcuno lo avrebbe seguito sino alla conclusione di quella vicenda. C’era un altro problema, ovvero da dove iniziare con le indagini: una lettera antica scritta a mano unita a una manciata di particolari forniti a voce non erano certo un granché. Nella città lagunare era atteso dal Patriarca il quale, informato del suo arrivo direttamente dal Papa, aveva ordine di fornirgli tutto il supporto necessario, logistico, pratico e morale circa la soluzione della vicenda in tempi brevi. Leandro, pensieroso, di una cosa era certo: Venezia era soltanto il punto di partenza. E poi, i tempi brevi di Benedetto XVI lo facevano decisamente sorridere poiché il Pontefice era convinto, quasi pretendeva, di risolvere una questione come quella del Graal in un paio di mesi, quando nessuno ci era riuscito in secoli.
“Benvenuto in città” disse calorosamente sua eccellenza Francesco Moraglia, quarantottesimo Patriarca di Venezia. “Grazie dell’ospitalità eccellenza” rispose Leandro avvicinandosi per baciare la mano. “Orbene” disse l’alto prelato “il tempo è tiranno a quanto pare. Sua Santità Benedetto XVI mi ha informato delle ragioni del suo viaggio.” “Una questione di poco conto” sospirò Leandro con una punta d’ironia. “La invito, prima di iniziare le sue indagini, a recarsi nella basilica di San Marco. Le ragioni sono due: la prima è un momento di preghiera al fine di ottenere ulteriore protezione da Nostro Signore, poiché ritengo ne abbia bisogno per la sua missione; la seconda è che lì troverà don Fabio Trevisan, la persona che ho scelto per lei e che l’accompagnerà durante il suo soggiorno veneziano.” Leandro, che non aveva peli sulla lingua, disse: “L’esortazione alla preghiera sembra quasi una minaccia, eccellenza!” “Suvvia,” disse Moraglia visibilmente irritato da tanta insolenza “non ci è concesso ora di fare appunti su simili bazzecole. E poi la bontà e l’amore di Dio nei confronti dei suoi servi primi è risaputa. Il mio invito era, come dire, il buon consiglio di un amico” concluse piantando il suo sguardo negli occhi di Leandro. Il mezzo greco non si scompose, si avvicinò e inchinandosi gli baciò la mano per congedarsi.
Piazza San Marco pullulava di turisti. Nonostante questo la città sembrava immersa in uno strano silenzio rotto soltanto dal leggero fragore delle onde che s’infrangevano in sequenza sulla riva, visto il gran traffico di barche e vaporetti sul canal Grande. Don Fabio era un ometto di bassa statura, con un’ampia fronte e pochi capelli che, sistemati a modi riportino, cercavano malamente di mascherare la calvizie. Camminava sempre con le mani giunte sopra lo sterno e aveva una voce di tono così basso che sembrava bisbigliasse. Fabio accolse Leandro calorosamente cominciando a raccontagli della cripta della basilica e di tutte le peripezie che continuava a subire per via dell’acqua alta. Pregarono insieme. Leandro mostrò a Fabio la lettera manoscritta da Emanuele. “Interessante” chiosò Fabio pensieroso. “Cosa ne pensi?” chiese diretto Leandro. “Non c’è una data su questa lettera. E’ strano. Comunque, leggo che è nominata la cattedrale di Santa Sofia. Per quel che mi sovviene e, bada bene, la storia si confonde con le leggende, dobbiamo andare molto indietro nel tempo.” “Quanto indietro?” disse Leandro. “Azzardando un’ipotesi…si potrebbe pensare alla quarta, e fallita, crociata.” “Alludi forse allo smacco dei veneziani nei confronti dei crociati durante l’assedio di Costantinopoli?” “Esatto! I veneziani piantarono in asso i crociati a causa del mancato pagamento dovuto per la fornitura delle navi, delle armi e delle provviste. Né i sovrani europei che avevano inviato truppe nella spedizione, né il basileus di allora che aveva tramato con loro per prendere il potere, né tantomeno il Papa, erano riusciti a trovare la grossa somma mancante.” “E i veneziani hanno detto grazie e arrivederci.” “Il doge di allora, Enrico Dandolo, non era un personaggio facile. Era già piuttosto anziano quando intraprese quel viaggio, ma con questo non voglio insinuare niente. Egli perseguiva con ogni mezzo il prestigio di Venezia nel mondo. Prestigio, ovviamente, legato a doppio filo al commercio. A Costantinopoli gli interessi della repubblica di Venezia erano già rilevanti, la possibilità per nulla remota di assumerne il controllo attraverso la connivenza con un basileus fantoccio, non faceva altro che aumentare il desiderio di conquista del sovrano.” “Era una situazione perfetta” concluse dunque Leandro. “Ma, ti prego di scusarmi Fabio, non vedo nessuna connessione con la lettera che abbiamo in mano, né, tantomeno, con il mistero del Santo Graal.” Fabio allargò le braccia come se si spazientisse, ma tornò subito a giungere le mani riprendendo il racconto con la sua voce melliflua: “Ci stavo arrivando. Oltre alla conquista di Costantinopoli, Dandolo sapeva bene quante e quali ricchezze avrebbe potuto esportare dalla capitale dell’impero d’oriente. Ricchezze non solo, come dire, normali, ma anche religiose, reliquie molto importanti e d’inestimabile valore.” Fabio fece una pausa, Leandro non gli staccava gli occhi di dosso. “Come sai” continuò il prete veneto “la conquista della città non avvenne mai, almeno in quel frangente. Però si dice che qualcosa sia arrivato ugualmente a Venezia dall’oriente, qualcosa di molto importante, proprio su una delle navi di ritorno da quella spedizione.” “Il tuo si dice sembra si rifaccia a una leggenda piuttosto che alla storia, caro Fabio” sorrise Leandro. “Infatti, tra l’altro non è nemmeno una leggenda popolare, ma circola soltanto negli ambienti ecclesiastici e religiosi della città.” “Il Patriarca cosa dice in proposito?” lo interruppe Leandro. “Oh!” esclamò Fabio “Cosa vuoi che ne sappia il Patriarca che sé un genoves ciò!” rise “quello pensa che tutte le calli che ghe sé a Venesia sono i caruggi de Zena!” Leandro si mise a camminare verso l’uscita. “Insomma” continuò Fabio “si dice che il Santo Graal sia transitato da Venezia. Anzi, si dice che sia ancora a Venezia anche se nessuno sa dove.” “Fabio, perdonami, sempre che non vedo connessioni tra il Graal e la lettera in nostro possesso. Il fatto che la carta su cui è scritta riporti a Venezia a causa del simbolo della Serenissima, non è un indizio sufficiente. Almeno non per me!” “Sono d’accordo,” acconsentì Fabio “ma per scoprirlo bisognerebbe indagare più a fondo sui luoghi nominati nella lettera che sembrano l’origine, la provenienza della misteriosa reliquia nonché dell’autore della lettera.” Poco prima dell’uscita della basilica, Leandro si fermò fissando il pavimento. “Fabio, che cosa rappresenta questa lastra di pietra, non la conosco” chiese. “Oltre al corno dogale che vedi nella parte alta del cuore, c’è un riccio di mare. Sotto questa pietra è sepolto il cuore di Francesco Erizzo, da qui l’assonanza con il riccio, doge di Venezia nel XVII secolo” spiegò don Trevisan. “E’ sepolto a San Marco?” domandò ancora don Leandro. “No,” rispose prontamente Fabio “la sua tomba si trova nella chiesa di San Martino Vescovo di Castello, vicino all’Arsenale. Se ti fa piacere ci possiamo andare.” “Non credo ne avremo il tempo” disse Leandro sempre più pensieroso. Uscirono dalla basilica. Il sole tramontava sulla città, creando zone d’ombra tra le calli dove l’aria diventava gelida soffocata dall’umidità. Continuava imperterrito il traffico delle barche e il movimento delle persone. “Che dici Fabio” disse Leandro riprendendosi improvvisamente dal torpore pensante in cui era caduto “Nostro Signore ce lo concederebbe uno spritz a questo punto?” “Sempre sia lodato!” disse Fabio alzando lo sguardo al cielo, “conosco un posto a Cannaregio dove lo fanno veramente speciale, andiamo!” Fabio s’avviò a passo spedito per far strada. Leandro lo chiamò: “Fabio!” “Sì?” rispose il veneto a qualche metro da lui. “Ci sei mai stato in Turchia?”
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