L'ultimo

akimizu

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    Dio della penna

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    Isola di Lesbo, 22 marzo 2020

    L'alba sorse da dietro la collina dei giubbotti.
    Ne aveva viste tante nell'ultimo anno, perché dormiva poco e male, ma quella, nonostante il sole così pallido da sembrare malato, gli parve la più bella di tutte. C’era lo splendore di Dio, lo vedeva: era nella luce fioca che ammantava di rosa la distesa immensa di plastica arancione e tela nera; nell'odore delle alghe secche, in quello del finocchietto selvatico che cresceva in ciuffi smeraldo tra le rocce scure; nel mare che friggeva colando dalla rena; nelle strida dei gabbiani che volavano in circolo sopra la massa di sacchetti azzurri colmi di rifiuti.
    Pregava, inginocchiato sulla rena grossa della spiaggia, con le onde che gli bagnavano i piedi ogni volta che risalivano la riva scoscesa. Rafael dondolava e ogni tanto si passava le mani sul viso, graffiandosi le guance con la sabbia, mentre la cantilena fluiva in un sussurro. Quando tacque, alzò le braccia al cielo, sorrise, si rimise in piedi e recuperò lo zaino dalla barca. Sentì freddo d'improvviso e s'accasciò sulla paratia, con la vernice rossa degli assiti che andava via in piccole schegge mentre respirava. Non era stanco, ma si sentiva vuoto. Respirò a lungo, gli spigoli delle costole contro il legno, lo sguardo rivolto al mare increspato.
    Laggiù, sulla linea dell'orizzonte, la Turchia appena lasciata.
    Tirò fuori dallo zaino la giacca della tuta e la indossò sopra la maglia di cotone, chiudendola fin sotto al collo. Lasciò la barca a dondolare e cozzare tra gli scogli e seguì la costa, fino alla prima casa, una piccola abitazione di calcestruzzo e sassi tondi costruita direttamente sul mare.
    Un vecchio pescatore stava scaricando delle casse di polpi da un furgone. Le sistemava in fila sullo spiazzo in cemento grezzo antistante un pergolato ricoperto di giovani foglie di vite. Il pescatore gli si rivolse in greco, ma Rafael scosse la testa.
    «Parlo inglese» disse il ragazzo.
    Il vecchio sputò in acqua e riprese a scaricare il furgone.
    «Francese?» azzardò Rafael.
    Il pescatore sbatteva le casse sul cemento, i polpi ancora vivi agitavano i tentacoli, emettendo un rumore sordo, un risucchio ovattato simile a quando cammini nel fango.
    Rafael si tolse lo zaino dalle spalle e iniziò ad aiutare il vecchio. Quando tutte le casse furono a terra, il pescatore iniziò a smistare i polpi. Quelli grandi finivano nel cestello di una lavatrice arrugginita, quelli piccoli venivano sbattuti sul cemento e poi appesi a un cavo d'acciaio. Decine di girandole colorate ruotavano al vento per tenere lontane le mosche.
    Il ragazzo si inginocchiò di fianco al vecchio e si mise a pestare i polpi sul pavimento. Non era facile, perché gli si attorcigliavano al braccio e sentiva le ventose appiccicarsi. Quando le staccava schioccavano, come baci.
    Finito il lavoro, il vecchio lavò in mare le casse di polistirolo e accese la lavatrice. Nonostante i tacchi di sughero, ballava sul cemento e faceva un rumore cupo e profondo. Quindi si sciacquò le mani con una saponetta, si mise seduto, con i piedi sospesi sul mare, e si accese una sigaretta. Ne offrì una al ragazzo, che rifiutò con un sorriso, mentre scendeva tra gli scogli per lavarsi via il muco dei polpi dalle braccia.
    Il vecchio aveva una barba di tre giorni, ispida, le sopracciglia folte sporche di salsedine e occhi velati e seri. A Rafael piacque guardarlo mentre fumava.
    Il vecchio lasciò la sigaretta a metà, la spense sul cemento e infilò il mozzicone nella tasca dei pantaloni. Fece cenno al ragazzo di seguirlo in casa e scostò la tendina di perline che nascondeva la porta. Preparò un caffè turco e lo bevvero insieme, seduti sul divano, con un grosso gatto arancione addormentato tra loro. C’era un mobiletto laccato di fronte al divano, con la foto di una donna abbagliata dal sole e un’icona della Madonna bordata d’oro. Rafael si segnò con la croce e il vecchio parve sorpreso del fatto che fosse cristiano. Si alzò, con la tazza del caffè vuota, e indicò la donna nella foto, quindi se stesso, quindi sorrise.
    «Era una donna bellissima» disse Rafael, in arabo. Il vecchio annuì, come se avesse capito, e si rimise seduto. Rafael gli pose una mano sulla spalla e l’uomo si rilassò, abbandonandosi sul divano.
    Mentre dormiva, Rafael lavò le tazze e uscì fuori, a leggere.
    Quando la lavatrice finì, la svuotò, la lavò con una pompa e appese i polpi sul filo.
    Il vecchio uscì di casa poco dopo, si grattava il mento ispido e aveva uno sguardo perplesso. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma rimase per un po’ con la bocca socchiusa, quindi scosse la testa e fece cenno al ragazzo di prendere le sue cose e salire sul retro del furgone, poi s'indicò, con il pollice.
    «Kostas» disse.
    «Rafael» rispose il ragazzo e saltò sul rimorchio.
    Il furgone tremava sulle strade dissestate e faceva lo stesso rumore della lavatrice piena di polpi. S'arrampicò su colli ricoperti di uliveti e campi incolti, un panorama punteggiato dall'indaco della borragine, dal rosso acceso dei papaveri e dal viola dell'erba medica.
    Quando la strada divenne asfaltata il vecchio accelerò. Incrociarono poche auto, soprattutto mezzi della polizia. All'orizzonte, in eteree spirali, si levavano colonne di fumo.
    Tra i boschi d'ulivo si cominciarono a intravedere le tende del campo non ufficiale, i panni stesi tra un ramo e l'altro, bambini che si rincorrevano, cumuli di spazzatura.
    Kostas fermò il furgone prima di un posto di blocco, sul ciglio della strada. Indicò al ragazzo il gruppo di poliziotti, tutti con la mascherina, e gli passò una mano callosa sui riccioli. Aveva odore di polpo e sapone di Marsiglia. Rafael si mise lo zaino in spalla e lo abbracciò.
    Il vecchio sorrise e le rughe attorno agli occhi creparono la pelle cotta dal sole. Un sorriso luminoso e triste, come un campo arato in piena estate.



    I poliziotti portarono Rafael all'ingresso del campo di Moria e lo consegnarono al personale dell'UNHCR, nella zona di prima accoglienza. Dopo i controlli medici, che erano diventati più seri per via dell’epidemia, fu fatto sedere in uno stanzone bianco, su una sedia di plastica e un foglio con un numero identificativo. C'era molta gente che andava e veniva dalla stanza, ma poco rumore.
    La signora che lo aveva accolto stava bevendo un caffè da un bicchiere di carta, alzando la mascherina ogni volta che lo portava alla bocca, e mettendo in ordine dei moduli. Dietro di lei, appiccicate sulla parete del container con grossi pezzi di nastro marrone, c'erano una cartina della Siria e una dell’Iraq. La cosa che più lo incuriosì fu che nonostante dalle finestre entrasse una bella luce, le lampadine al neon sul soffitto erano accese. Così nella stanza avevano eliminato quasi tutte le ombre.
    Una ragazza li raggiunse poco dopo, aveva il fiatone e si scusò con la signora dei moduli, congiungendo le mani. Aveva degli enormi occhi neri e la pelle bruna e lucida, come onice egiziana.
    Fu lei a parlagli, in arabo. Gli disse che si chiamava Luara, gli domandò il nome e da dove venisse.
    «Da Aleppo» rispose Rafael. Le disse tutto quello che era giusto sapesse, che era cattolico Caldeo, che era orfano, che aveva tredici anni, che era in viaggio da solo, che era partito da circa un anno. Aveva un documento? Lo aveva avuto, ma ora non più. Lui parlava, Luara traduceva e la signora riportava tutto sui moduli.
    «Come sei arrivato qua?» chiese Luara.
    «Con la barca» rispose Rafael. Conosceva l'onice egiziano perché sua madre aveva degli orecchini fatti con quella pietra. A lui piacevano tanto, erano a forma di scarabeo e a sentire sua madre portavano fortuna. Chissà dov'erano, ora.
    «Una barca solo per te?»
    «Era una barca piccola.»
    «Strano» Luara sorrise, «hai pagato qualcuno per la barca?»
    «No.»
    «No? L'hai rubata?»
    Rafael scosse la testa con forza.
    «Me l'hanno regalata.»
    Stavolta fu la signora a sorridere, mentre scriveva.
    «E fino a imbarcarti, da Aleppo, come ci sei arrivato?»
    «A piedi.»
    «Tutto da solo?»
    «Mi hanno aiutato tante persone gentili. Io sono stato gentile con loro e loro sono stati gentili con me.»
    Le due donne si scambiarono uno sguardo, ma stavolta nessuna sorrise.
    «Anche voi due siete gentili» concluse Rafael
    «Certo» disse Luara, «hai qualcuno che ti aspetta in Europa?»
    «No.»
    «Non c'è nessuno che possiamo contattare?»
    «No.»
    Luara annuì, confabulò con la signora dei moduli, poi si accovacciò accanto a Rafael, così da avere gli occhi alla stessa altezza.
    «Ci vorrà un po' di tempo, proveremo a recuperare i tuoi documenti, poi verrai convocato per la richiesta di asilo. Starai qua al campo, ti daremo una carta dove dovrai far mettere ogni mese un timbro. Di solito si può girare per l’isola, ma con la pandemia in corso hanno bloccato tutti dentro. Dormirai con altri bambini, in una zona del campo tutta per voi, non avere paura.»
    Rafael si fece serio e aggrottò le sopracciglia.
    «Non posso permettermi di avere paura, sono rimasto solo io, sono l'ultimo» disse.
    «L'ultimo?»
    Rafael strinse lo zaino al petto, era stanco e aveva parlato troppo.
    «L'ultimo della tua famiglia?» suggerì Luara.
    «Sì» sussurrò Rafael.



    Luara lo accompagnò fino agli alloggi dei minori attraverso un fitto labirinto di tende e container. Lungo la strada incrociarono centinaia di persone, molti erano in fila per le docce e i bagni. Nessuno portava la mascherina, nessuno rispettava le distanze per evitare il contagio. Luara dovette fermarsi spesso ad ascoltare lamentele o richieste della gente che la riconosceva. Lei annuiva, prendeva appunti, salutava tutti i bambini ricordandone il nome.
    La chiamarono anche dalla fila per il cibo e Rafael la seguì. Le persone erano stipate dentro un corridoio di reti elettrosaldate, come in una gabbia per i polli, una a ridosso dell’altra, donne, bambini, uomini, anziani.
    Rafael sentì un ronzio in testa e caldo, dalla gola allo stomaco, come se avesse bevuto un the bollente, tutto d’un fiato. C’era tanto dolore, terrore, tristezza, rassegnazione. Posò la fronte sulla rete e un bambino dalla pelle scura, profumato di talco, con una striscia di muco sul labbro, gli si avvicinò e iniziò a giocare schiacciandoli il naso. Aveva una faccia serissima mentre lo premeva, come fosse un bottone, con la punta del dito infilata attraverso le maglie della rete.
    Rafael lo lasciò fare, poi si sedette, con le ginocchia al mento. Aveva bisogno di pensare, di pregare, di farsi domande. Fino ad allora era solo scappato, non aveva avuto altra preoccupazione che nascondersi e andare avanti. Ma quel posto lo metteva in difficoltà, sentiva che c’era tanta gente che avrebbe potuto aiutare, ma non sapeva né come, né se era giusto esporsi per farlo. Una delle cose che suo padre amava ripetergli era: “Si credis, crea”. Aveva meditato tanto su quelle parole, nei pomeriggi soporiferi al chiostro, così lontane da quelle di coloro che nella fede vedevano solo un dogma. Forse suo padre intendeva dire che la fede non doveva essere solo un fatto passivo, ma anche un atto attivo; non solo un atto meccanico, ma un atto creativo.
    «Sei pensieroso» disse Luara, mentre riprendevano a camminare, «so che non sarà facile…»
    «C’è una chiesa?»
    «Una chiesa?»
    «Un posto per pregare.»
    Al centro della strada in terra battuta scorreva un rivolo di scolo, un misto di acque reflue, saponi e urina. Molti bambini giocavano a saltarlo, tra lo svolazzare di libellule e moscerini.
    «No, qua al campo no, mi spiace.»
    «Non importa. Un posto vale l’altro. Dopotutto non bisogna mai essere troppo pignoli nelle questioni di fede.»
    «Hai ragione.»
    «Molto spesso tiriamo a indovinare sulle cose che riguardano Dio» continuò Rafael, parlando più a se stesso che altro, «l’approssimazione è contemplata e perdonata. Un mio maestro diceva sempre di immaginare Dio come un gigantesco e oscuro pensatore, tipo uno che progetta in continuazione, ma tiene tutti i disegni nascosti.»
    Luara aggrottò le sopracciglia.
    «Quindi il nostro compito è capire i suoi progetti?» chiese.
    Rafael scoppiò a ridere.
    «Che sciocchezza, te l’ho appena detto, il nostro compito è tirare a indovinare» disse.
    «Certo che fai discorsi strani per la tua età.»
    Rafael alzò le spalle. Non rispose, dopotutto cosa poteva dire? Che era da quando aveva tre anni che sentiva intorno a lui solo discorsi del genere? Che a cinque già conosceva a memoria tutte le sacre scritture? Che non aveva mai avuto un’infanzia? Così aveva deciso l’oscuro progettista, c’era poco da fare.



    Prima di entrare nell'area riservata ai minori il poliziotto di guardia volle perquisire lo zainetto, perché da poco un ragazzo era stato ferito con un coltello durante un litigio.
    Rafael esitò un poco, poi lo aprì e svuotò il contenuto su una sedia. C’erano due magliette, un paio di calzoni corti, della biancheria intima, una bottiglietta d’acqua, una bibbia, tre libri dalle pagine consumate e una piccola fiala avvolta in fogli di giornale. Il poliziotto la mise controluce per ispezionarne il contenuto.
    «Cos’è?» chiese, agitandola un poco.
    «Sangue secco» rispose Rafael, cercando di essere il più calmo possibile, «una specie di ricordo» si affrettò a puntualizzare.
    Il poliziotto scosse la testa, poi prese l’ultima cosa che era rimasta sul fondo, una scatola di bronzo con intarsi in argento. La ispezionò, ma non trovò aperture o serrature.
    «E questa?»
    «Tanto non si può aprire.»
    «Lo vedo, ma cos’è?»
    «Un altro ricordo?» azzardò Rafael.
    Il poliziotto scosse nuovamente la testa e rimise tutto a posto. In fin dei conti non gliene importava nulla.
    Rafael rimise lo zaino in spalla ed entrò nel container.
    Prima di lasciarlo, Luara gli aveva dato il numero del letto e la chiave di un mobiletto, dove avrebbe trovato lenzuola, cuscino e un asciugamano. Gli aveva raccomandato di trattarli bene, perché difficilmente ne avrebbe ricevuto altri.
    Quando entrò nella camerata, i compagni lo squadrarono, ma nessuno lo salutò. Un ragazzo in canottiera diede un calcetto al fagotto delle sue cose e lo nascose bene sotto la branda.
    Rafael sistemò il letto, ripose le sue cose nel mobile, lo chiuse e con l’asciugamano sottobraccio uscì a mettersi in fila per una doccia fredda e poi per la cena.
    Mangiò uova sode e pane pita, lesse un poco e poi si mise a letto.
    La notte non riuscì a prendere sonno, perché nel buio i cattivi pensieri si amplificano. Si udivano pianti sommessi nella camerata e due volte delle urla che provenivano da chissà dove e lo fecero trasalire.
    Lasciò il letto e uscì. Il poliziotto di guardia dormiva con il berretto calato sugli occhi e i piedi incrociati. Camminò per un po', vide tanti lumi nelle tende; un canto sommesso, un cane che rovistava tra i rifiuti, i fili elettrici, per lo più allacci abusivi, si diramavano dai pali della luce come ragnatele. Un vecchio sedeva su una stuoia con una radiolina in grembo. Borbottava maledizioni mentre cercava di sintonizzarla scuotendo l’antenna. Lo illuminava dal basso una torcia con le batterie quasi esauste, vista la luce debole che emanava.
    «Ragazzo» lo chiamò il vecchio, «vieni a darmi una mano.»
    Rafael si mise seduto davanti a lui, con le gambe incrociate. Il vecchio vestiva un thawb consunto e sandali di tela.
    «Ti ho visto questo pomeriggio» disse il vecchio, «ti ha accompagnato la signorina Luara.»
    «Sì, signore, sono arrivato oggi» disse Rafael. Ora dalla radiolina veniva fuori un vecchio brano dei Beach Boys.
    «Non chiamarmi signore, sono Habid, per tutti solo Habid. Ora senti, questo coso continua a farmi sentire musica americana, hai idea di come posso fare ad ascoltare della buona musica araba?» chiese.
    «Non so, non saprei come aiutarla» disse Rafael, con la faccia contratta.
    «Maledetti americani, sono dappertutto» borbottò il vecchio, poggiando la radio. Non la spense però e i Beach Boys furono presto sostituiti da Michael Jackson.
    «Sono molto dispiaciuto» sussurrò Rafael, «non so… avrei voluto fare qualcosa…»
    Poteva farlo, in realtà, ma non voleva farsi notare, non poteva, una cosa che lo torturava. Poi successe qualcosa di strano, come se saltasse un tappo, gli occhi si riempirono di lacrime e cominciò a singhiozzare. Era assurdo, non piangeva dal giorno che aveva trovato il cadavere di sua madre, più di anno prima. Ma c’era qualcosa in quel posto, qualcosa che lo opprimeva in una maniera che non aveva mai provato prima.
    «Via, ragazzo, su, fa schifo, lo so, ma non farne una tragedia. La spengo?»
    «Non è quello. È che non riuscirò ad aiutare nessuno, ecco la verità» balbettò.
    Habid si diede una pacca sul ginocchio e scosse la testa con forza.
    «Sei solo un ragazzo, via, chi dovresti aiutare?»
    «Non sono un ragazzo» bisbigliò Rafael, asciugandosi le lacrime.
    «Hai una grande considerazione di te.»
    «No, è proprio il contrario.»
    «Certo, è una gran bella cosa aiutare gli altri, via, ma ti svelo un segreto» annunciò il vecchio, alzando l’indice al cielo, «qua sono tutti abituati ad aiutarsi da soli, non ti preoccupare.»
    Rimasero per un po’ zitti, ad ascoltare la musica. Habid teneva il ritmo battendo il dito sul ginocchio e malediceva sottovoce gli americani.
    «Lei vive solo» disse Rafael, d’improvviso.
    «Sì» ammise Habid.
    «Ma non è arrivato da solo…»
    Habid tossì, ma non rispose.
    Rafael si allungò e sfiorò la radiolina. Per un po’ si zittì, poi iniziò, non troppo chiara, a trasmettere una vecchia canzone irachena.
    «Avevo una figlia, qua con me» bisbigliò Habid, «ora, per favore…»
    Rafael annuì e la radiolina riprese a trasmettere normalmente.
    «Mi piacerebbe venire a stare qua da lei, nella sua tenda. Non mi piace dove sto ora» disse.
    «C’è un sacco di spazio, se non ti spiace vivere con un vecchio...»
    Stettero ancora in silenzio per un po’, poi Rafael si mise in piedi, a respirare grandi boccate d’aria.
    «Ho visto, stamattina, che la primavera in quest’isola è proprio bella» disse.
    «Sì, ragazzo, è bella anche se è fragile. Come noi.»
    Rafael sorrise e la prima la notte passò così: a guardare la meraviglia della primavera tra i cumuli di rifiuti e le cunette dove scorreva il piscio, con la musica dei maledetti americani in sottofondo.



    Isola di Lesbo, aprile 2020

    Il contagio partì da Mitilene, portato da una donna di ritorno dalla Turchia, e arrivò al campo alla fine di aprile. Le autorità greche schierarono l’esercito in aiuto della polizia per contenere le proteste dei migranti e circondarono con le reti anche il campo non ufficiale.
    Medici senza frontiere allestì un ospedale nell’edificio che prima fungeva da scuola, ma ben presto, con l’arrivo dei primi decessi, le persone furono prese dal panico.
    Rafael si tenne ben nascosto nella tenda di Habid. Sapeva che erano arrivate televisioni di tutto il mondo a documentare il dramma del campo e non poteva rischiare di essere filmato. Dormiva poco, per lo più stava sveglio, rannicchiato, con le sue cose strette al ventre. C’erano violenze e furti continui, Habid gliene rendeva conto quando tornava col cibo. Aveva paura che potessero sottrargli lo zaino, con tutto il suo prezioso contenuto. Stava diventando paranoico, ma non riusciva a calmarsi.
    La protesta divenne violenta il ventinove aprile. Rafael sentì le urla e poi la terra che tremava. Tornò indietro col pensiero a quando avevano bombardato il suo quartiere, ad Aleppo, e istintivamente si coprì la testa, ma non sentì nessuna esplosione. Il tremare della terra invece aumentò: un brontolio sordo, come se ci fossero decine di cavalli al galoppo.
    «Stanno venendo da questa parte» disse Habid, affacciandosi all’imbocco della tenda.
    «Chi?» chiese Rafael, mettendosi seduto.
    «I soldati. Stanno ricacciando dentro al campo le persone che stavano manifestando. Hanno i blindati. Dobbiamo andare via, saliamo sulla cima della collina.»
    Raccattarono in fretta le loro cose, uscirono e furono investiti dalle persone che scappavano, inseguiti dall’esercito che sparava in aria. C’erano due troupe televisive e diversi fotografi.
    Rafael si coprì il volto.
    «Cosa fai, ragazzo?» chiese Habid, «muoviti, dobbiamo andare.»
    Rafael non riusciva a muoversi. Habid gli si piazzò davanti e cominciò a scuoterlo, così non vide il poliziotto che lo incitava a spostarsi. Lo sfollagente lo colpì sulla spalla e gli strappò un grido di dolore e sorpresa. Il poliziotto sollevò nuovamente il braccio, ma Rafael si mise tra lui e il vecchio, con le braccia spalancate.
    Pregava a bassa voce e guardava il poliziotto dritto negli occhi. Rimasero come bloccati, in un fermo immagine che parve infinito. Poi il poliziotto fece un passo indietro e abbassò piano il braccio. Dopo che si fu allontanato, Rafael vide un uomo che lo riprendeva con la telecamera e capì che per lui era finita.



    Rintracciò Luara la mattina dopo, quando tutto il campo era immerso in un silenzio irreale. Tutti si erano asserragliati nelle tende, non c’era fila né per il cibo, né per il bagno.
    Lei lo fece accomodare nella stessa sedia dove si era seduto il primo giorno.
    «Devi aiutarmi a scappare» le disse.
    Lei scosse la testa, sconsolata.
    «Rafael…»
    «Non è per il virus. So che stanno venendo a prendermi.»
    «Chi sta venendo? Non può arrivare nessuno sull’isola.»
    «Loro arriveranno. Se mi hanno visto… non posso rischiare.»
    «Non potrei comunque portarti da nessuna parte, dove vorresti scappare?»
    «C’è un pescatore, vicino a dove sono sbarcato. Lui mi porterà lontano, con la sua barca. Si chiama Kostas.»
    Luara continuava a scuotere la testa, sconsolata.
    «Non sei l’unico che mi ha chiesto una cosa del genere. Non posso. Va’ via, ora.»
    Rafael strinse i pugni, fino quasi a farsi male.
    «Non costringermi, ti prego.»
    «Mi stai minacciando? Non me lo aspettavo da te. Vai via!» urlò Luara, alzandosi in piedi. Sembrò impallidire, la sua meravigliosa pelle d’onice parve sbiancare. Le luci al neon perennemente accese la resero di marmo.
    Uscì dal container, camminando rigida, seguita da Rafael. Avanzava come se stesse marciando, con lo sguardo fisso in avanti. La sua macchina era parcheggiata poco fuori dal campo. Aprì il cofano e Rafael si rannicchiò all’interno.
    Poco dopo la macchina sobbalzava sulle strade di campagna, verso il mare.
     
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    Ciao Aki. Attendevo di leggere il secondo capitolo della tua storia perché non avevo la più pallida idea di dove saresti potuto andare a parare.
    Devo dire che “L’ultimo” mi ha veramente colpita e soddisfatta nella lettura. È un racconto splendido, curato nei minimi dettagli e veramente meritevole.
    Mi sono dovuta documentare proprio perché so con quale cura tu scriva le tue storie e devo dire che mi sono più volte commossa. L’incipit con la visione della collina dei giubbotti è toccante. La scelta dell’isola di Lesbo, l’ultimo porto per una umanità alla “ricerca disperata di umanità” è centratissima. Le condizioni inumane in cui versano centinaia di bambini in un’ospedale pediatrico del campo profughi, tanto da costringere molti di essi al suicidio. Tematiche forti che entrano di prepotenza nel cuore del lettore, a prescindere dalla pandemia che tenta di riportarci in un presente in cui anche noi possiamo sentirci vittime e non carnefici. Il virus paradossalmente diventa “un bene” perché si porta via tanta gente e un bene perché ci mette tutti, immeritatamente, dalla stessa parte. E su quell’ultimo, un ultimo della terra, fondiamo le nostre speranze future.
    Le similitudini che ci offri e che costituiscono la tua speciale cifra stilistica, sono delicate e potenti. In più, il cliffhanger che hai sapientemente inserito nella descrizione del contenuto dello zaino, è un forte richiamo al prosieguo della storia.
    Ottimo, senza riserve. Del resto Qualcuno ha detto che “gli ultimi saranno primi”. Per me lo sei.
     
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    Bello. Niente da dire. Scrittura impeccabile, fluida, ottimo il ritmo. La ricchezza delle descrizioni, delle immagini, se nel tuo primo capitolo mi avevano un po' disturbato e poco convinto, qui trovano il loro posto ad un livello quasi poetico. La storia cattura ed emoziona. Crei empatia continua, con splendidi personaggi, semplici e di una umanità quasi imbarazzante (nel senso buono). I meccanismi che metti in gioco funzionano alla perfezione, e i dialoghi sono realistici e diretti. All'inizio mi chiedevo dove saresti andato a parare, e poi la storia mi ha preso per mano e mi ha indicato la tua visione, la tua strada, e io, come lettore, mi ci sono lasciato trasportare. Se proprio, giusto per fari il rompi…, dovessi trovare un appunto, l'unica cosa che non mi ha del tutto convinto è nel finale, Luara che sembra cadere in uno stato ipnotico, cedendo alla volontà del ragazzo contro la sua volontà… non so, forse poteva davvero lasciarsi convincere, dallo sguardo, dalla pietas…
    Concludendo, mi inchino. Davvero un racconto splendido. Difficile davvero non metterti fra i primi… direi impossibile. =0)
     
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    Penna stilografica

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    Peccato che non ci sia subito il futuro. E' stato veramente facile leggere la tua bella storia. Tu riesci a rendere scorrevole apparentemente con molta facilità la lettura. Sei il mio ultimo racconto e guarda combinazione coincide anche con il tuo titolo però non sei certo l'ultimo nella mia scelta. Attendo di sapere qualcosa in più sugli oggetti del piccolo (si fa per dire) Rafael. Bravissimo ma che te lo dico a fare!
     
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    Ciao Aki.
    A differenza di Tony, ti ho letto per primo. Proprio perché il tuo present faceva parte di quelli che più aspettavo e da loro inizierò.
    Non che ci sia molto da dire, hai detto tutto tu con questa imponente prova.
    Un ritmo perfetto condito da una scrittura perfetta e senza refusi.
    Ho provato subito empatia per Rafael nel contesto in cui l'hai gettato.
    Luara è lo stereotipo ( in senso buonissimo ) di persona che tutti vorrebbero vedere.
    Ma ciò che mi ha legato al testo è Habid, con quelle forti emozioni per la musica, con i legami persi.
    Molto interessante anche quel vedo ma non so sullo zaino di Rafael e il suo contenuto.

    In definitiva, ho aspettato tutto questo tempo per essere nuovamente soddisfatto dalle tue parole.
    Poi mi insegnerai a farlo, grazie.
     
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    Penna suprema

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    Secondo il mio modesto parere, bastano le prime cinque righe per affibbiarti
    lo 'Strega', o il 'Pulitzer'. Sei davvero bravo, e non come sempre, più di sempre.
    Bella la storia e bello come la racconti.
    Tutto appare sussurrato, pure il dolore.
    Il pianeta è nel frullatore di quella fuga, di quel campo, di quelle immagini di desolazione.
    Non pensi, comunque, a far affari con la commozione del lettore.
    Le tue immagini sono asciutte e concrete fino alla fine.
    Oggi non ci sono cattivi che tramano nell'ombra.
    Tutto è nostrano.
    Vivo e appariscente.
     
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    Penna furiosa

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    Faccio fatica, ma è un limite mio, a collegare il tuo racconto al primo step. O meglio, ho più opzioni, diverse tra loro, per cui non so quale strada prendere andando a ritroso nella narrazione.
    Mi sono fatto un'idea sul tuo Rafael, ovvero che sia molto di più di un semplice profugo, tanto da non voler essere ripreso dalle telecamere durante la rivolta, per esempio. Un personaggio che vuole rimanere volutamente nascosto nel prosieguo della sua stessa vita. Quando parla con Luara, mentre si recano al tendone dei bambini, Rafael fa quei discorsi un po' strani per la sua età e dice, pensando, di conoscere le sacre scritture fin dai primi anni della sua vita. Ecco, questo passaggio è interessante, poiché mi piacerebbe sapere di più sulla sua famiglia, certamente una famiglia "particolare". E poi, come ti hanno già detto tutti, il contenuto dello zaino è emblematico per la continuazione della storia. Anche se non sappiamo cos'è, il piccolo Rafael è custode di qualcosa di molto importante, capace di fare la differenza e, chissà, cambiare il destino delle persone, anche quelle che marciscono dentro a un sudicio campo profughi.
    Anche nel tuo racconto è presente il virus e non poteva essere altrimenti, siamo nel presente. Mi sto abituando a come questa situazione abbia influenzato gli scritti in generale, a parte il genere storico del contest che, forse, ce lo impone.
    Ti dico che oltre a Rafael, mi sono piaciuti molto anche i tuoi personaggi non protagonisti, da Luara ad Hadib. Kostas è il migliore per me: tu lo hai magistralmente descritto, la mia mente ha immaginato chi potesse essere veramente come uomo. Però i polpi nella lavatrice me lo devi spiegare perché non l'ho proprio capito.

    Tecnicamente non c'è niente da dire, il racconto è perfetto.

    Concludo: attendendo il seguito, questo tuo "present" non mi è piaciuto come il "past" perché lo trovo (e forse hai voluto così) troppo, passami il termine, "sospeso".
     
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    Penna stilografica

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    Tutto ciò che fa riflettere non può che essere una buona cosa. Sarà quella data iniziale, che per caso è il mio compleanno, che mi ha tirato subito dentro la storia costringendomi a trarne spunto per valutazioni del tutto personali. Il racconto doveva riguardare il “presente” e certamente non poteva essere di più stretta attualità di questo. Leggendo, fino dalle prime righe, mi sono ritrovato a riflettere sulla mia realtà, su quel mio recente compleanno trascorso in un modo del tutto inusuale, di cui mi sono al momento rammaricato, la pandemia, i disagi di questo periodo. Ben poca cosa di fronte ai drammi umani che si nascondono nelle vicende disperate dei migranti, particolarmente odiose quando riguardano bambini.
    Questa riflessione per dire che la storia è bellissima e scritta in maniera superba, ma non è una novità.
    Per non fare solo elogi, posso dire che a fronte di alcune espressioni “divine” come ad esempio “un rumore sordo, un risucchio ovattato simile a quando cammini nel fango”, ne ho trovate altre che ho avvertito, per gusto personale, un po’ eccessive, come: il “mare che friggeva colando dalla rena”, oppure le riflessioni sulla fede, fin troppo profonde per un tredicenne e il suo forte desiderio di aiutare gli altri, nonostante il suo disagio, a meno che il seguito della storia non giustifichi uno spirito così elevato.
    Segnalo poi “schiacciandoli” che scriverei “schiacciandogli”.
    E’ il primo racconto che leggo, ma so comunque che non potrò tenerlo fuori dai primi.
     
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    Su chef

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    Ciao a tutti, vi ringrazio per la lettura e le belle parole. Sono, devo ammettere, sollevato dal fatto che il racconto sia comunque stato di vostro gradimento, nonostante l'evidente "sospensione". Ci ho girato attorno per parecchi giorni, ma non sono riuscito a renderlo autoconclusivo, e questa cosa mi pesava.
    Vi scrivo queste due parole per ringraziarvi, appunto, e per rispondere a Molli. Amico mio non voglio anticiparti troppo, ma il legame col passato si disvelerà nel futuro, in che modo non te lo posso rivelare. L'indizio che ti do è che, in fin dei conti, i nostri racconti parlano della stessa cosa, Rafael infatti è l'ultimo dei ... Non aggiungo altro 🤟.
     
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    Penna furiosa

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    Branzack

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    Grazie a te. È un piacere sapere che l'essenza dei nostri racconti è comune. Lo so che non avresti potuto rivelare tutto, "bruciando" il futuro. Del resto, da quel che ho notato, molti racconti in questo step sono, come dire, interlocutori, preparatori per ciò che verrà, per il botto finale.

    Credimi, mai come in questo TAS, ho sofferto il limite di caratteri.

    Vabbè, CR7, fatti un bagno nell'oceano di Madeira anche per me. 🤙😂
     
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    Penna d'oca

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    Ti faccio i miei complimenti.
    Molto a tuo agio nella prima parte, con quelle descrizioni che raffigurano il mondo che ci appartiene, che appartiene a noi come mediterranei e isolani: il finocchietto selvatico che cresce spontaneo tra le rocce calcaree (e che noi mettiamo dappertutto nel cibo), i fiori della borragine (che io conservo nel ghiaccio e adopero tutto l'anno), i boschi di ulivi, il mare che frigge tra gli scogli, i polpi sbattuti a terra, e via discorrendo.
    Le utilizzi con grande sapienza e crei la giusta atmosfera sospesa e credo, con occhi diversi dai miei si intende, forse anche esotica, di un esotico vicino, prossimo.
    Descrivi alla perfezione Kostas, che pare uno dei nostri vecchi, che ancora si trovano nei porti d'inverno, quando i turisti sono andati via, vicino le loro piccole barche e le reti da pesca. E Rafael naturalmente, che porta il nome di un arcangelo, forse non a caso. È un ragazzino diverso, che va in giro da solo e frequenta campi profughi perché fugge dalla bianca Aleppo (una delle città più antiche del mondo) pare non solo a causa dalla guerra, un po' come San Giovanni dall'Anatolia si rifugia a Patmos per scrivere la sua Apocalisse. Ma è chiaro che non è questo il destino di Rafael. Lasci correre la fantasia e non ti esponi più di tanto, ma forse qualcosa in più potevi azzardare e dire.
    E se proprio devo farti un appunto Rafael assomiglia troppo a uno di quei ragazzetti arroganti dotati di superpoteri che popolano le serie TV, che costringe gli altri a fare quel che lui vuole per sfuggire da un nemico nascosto, che pure sempre lo cerca e ha bisogno di lui.
    Perché un ragazzino che non è un ragazzino, Aki?
    E infatti, gli altri bei personaggi del racconto oltre Kostas (forse il più vero), Luara e Habid si riducono a dei burattini nelle sue mani. E in una certa maniera non li rendi più vividi, ma li disumanizzi.
    Un bel racconto, a ogni modo, che non delude le aspettative, pure se il raccordo con il passato è lasciato anche questo all'immaginazione e l'ucronia rimane quasi impalpabile.
    Perfetto dal punto di vista formale, ho solo un refuso da segnalarti: "schiacciandoli il naso.- " hai dimenticato una g.
    E poi questo periodo che non tanto mi suonava: "Forse suo padre intendeva dire che la fede non doveva essere solo un fatto passivo, ma anche un atto attivo; non solo un atto meccanico, ma un atto creativo." Dove quell'atto attivo meccanico creativo mi sembra un po' troppo ridondante, ripetitivo. Senza contare che l'atto è già di per sé attivo, è la manifestazione di una volontà e ha una connotazione di sapore giuridico, specie messo vicino a fatto. Perché non adoperare dei sinonimi? Gesto, azione, e così via?
    A rileggerti.
     
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    Penna furiosa

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    Ciao Aki,
    anche a sto giro bel pezzo il tuo, ma credo sia inevitabile per chi ha il dono di saper scrivere con naturalezza e osservare con attenzione ciò che lo circonda.
    Belle descrizioni, bei personaggi, soprattutto Kostas, tanto espressivo a dispetto delle zero parole pronunciate.
    Poi c'è Rafael, l'ultimo, il predestinato, che deve portare a termine una missione e lo scopriremo solo nella terza parte.
    Devo confessare che il past mi era piaciuto di più, forse sarà perché lì si respirava la storia, la figura di Cristo, la caratterizzazione di Longino, delle descrizioni splendide, insomma si respirava una sorta di magia. Qui quella magia l'ho percepita poco, si sente che c'è in serbo qualcosa di grosso, ma come è già successo per altri regna un'atmosfera interlocutoria, di attesa per ciò che si espleterà più avanti.
    Detto questo è indubbio che uno dei primi due o tre posti non te li leva nessuno, ma io sto già pensando al tuo terzo capitolo che sarà senza dubbio qualcosa di eccezionale, non ho dubbi.
     
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    Scrivano supremo

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    Ciao Akimizu.

    Parto dal neo più evidente di questo racconto: Rafael ha il potere di dominare le menti, lo si intuisce dall'ultima scena e lo si capisce dalla scena poco precedente con il poliziotto e Habid. Per me è un neo perché dal mio punto di vista (che è parziale, in quanto non conosco ancora il terzo episodio) diventa un elemento fantasy all'interno di un mondo che hai costruito e ricostruito in modo secondo me scientificamente valido; quindi stona e mi dispiace perché il racconto mi è piaciuto tanto. Dal punto di vista grammaticale ho notato solo "schiacciandoli" al posto di "schiacciandogli"; inoltre io preferisco la grafia "tè" a "the".

    Dal punto di vista narrativo: le scene sono ben costruite e non si nota per niente il lavoro di riscrittura che hai dovuto affrontare per inserire la pandemia. Anzi, l'hai fatto pure diventare un punto a tuo favore, è inserito talmente bene nella trama che ne è diventato addirittura un punto essenziale. Le descrizioni sono reali o comunque verosimili, non ci trovo nulla di stereotipato né macchiette. Ho adorato soprattutto Kostas e la capacità che hai avuto nel dipingere la scena in cui Rafael, senza (apparentemente?) usare i suoi poteri, riesce comunque con i suoi gesti e le sue azioni a entrare nei favori del vecchio pescatore.

    Grazie e alla prossima.
     
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    Dio della penna

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    mamma

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    altro ottimo racconto.
    del resto da te non ci si aspetta altro, aki.
    stupende le descrizioni, bellissima la figura di Kostas.
    e non solo quella, ovviamente, sebbene per me risalti.
    stesura ottima, come sempre, che agevola non poco la lettura.
    certo, tutto rimane sospeso in attesa di qualcosa, ma se lo attendo vuol dire che hai fatto un ottimo lavoro
     
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    Teropode assennato

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    Storia completamente diversa, nel taglio e nel concept, rispetto allo step Past.
    Meglio? Peggio?
    Difficile dirlo a freddo. Il livello è altissimo e ci sono cose che ho apprezzato più del capitolo precedente.
    In questo brano davvero si respira la realtà, la concretezza, e anche se penso nessuno, eccetto chi ci vive o lavora, abbia idea di come funzionino davvero le cose in un campo profughi, la ricostruzione è talmente fedele da sembrare vera e veritiera.
    La parte dedicata a Kostas è quella che ho apprezzato di più: talmente ben tratteggiata da rasentare la perfezione.
    La parte nel campo e poi quella della rivolta è forse un pelo più accelerata, ma credo fosse inevitabile vista l'ampiezza della scena col vecchio pescatore.
    Poco male, comunque.

    Ecco, dovessi mettere a paragone Past e Present, direi che nel primo si respirava di più la Storia mentre il secondo è uno spaccato di vita, di momenti, di realismo potente. Qui l'ucronia è nascosta, più intuita che mostrata, e quindi la si apprezza meno. Come scrissi nel commento al Past, non avevo idea di dove volessi andare a parare, ma ero molto curioso. Curioso lo sono rimasto eccome, più che altro perché qui ci sveli poco o nulla e non riesco a immaginare come i fatti del Past abbiano portato a questo Present non molto diverso dalla realtà odierna.
    Per contro, questo racconto, anche se meno permeato di Storia, ha il pregio di essere più vero e forte del primo, dove c'era un po' di cinematografia in più, come se fosse un film degli anni '80.

    Ti segnalo un paio di ripetizioni nella primissima parte (un "rena" ripetuto troppo vicino e l'altra non la trovo più).

    Insomma, rimango sorpreso e appassionato da questa vicenda.
    Il fatto che Rafael appaia in possesso di un potere paranormale sposta l'ago del realismo verso il fantasy, ad un certo punto (quando stoppa il poliziotto) mi ha anche ricordato un passaggio di quel racconto sull'Ifreet che avevi scritto per INK.
    Più di tutto, questo potere obbliga a riconsiderare l'intero racconto dal punto di vista logico: siamo sicuri, al di là delle apparenze, che Rafael non lo abbia usato anche con Kostas e con Habid?
    Ma più ancora: siamo sicuri che non fosse successo qualcosa del genere anche nel Past?

    Io non indago per non auto-spoilerarmi nulla. :)
    Ottimo lavoro.
     
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