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Isola di Lesbo, 22 marzo 2020
L'alba sorse da dietro la collina dei giubbotti. Ne aveva viste tante nell'ultimo anno, perché dormiva poco e male, ma quella, nonostante il sole così pallido da sembrare malato, gli parve la più bella di tutte. C’era lo splendore di Dio, lo vedeva: era nella luce fioca che ammantava di rosa la distesa immensa di plastica arancione e tela nera; nell'odore delle alghe secche, in quello del finocchietto selvatico che cresceva in ciuffi smeraldo tra le rocce scure; nel mare che friggeva colando dalla rena; nelle strida dei gabbiani che volavano in circolo sopra la massa di sacchetti azzurri colmi di rifiuti. Pregava, inginocchiato sulla rena grossa della spiaggia, con le onde che gli bagnavano i piedi ogni volta che risalivano la riva scoscesa. Rafael dondolava e ogni tanto si passava le mani sul viso, graffiandosi le guance con la sabbia, mentre la cantilena fluiva in un sussurro. Quando tacque, alzò le braccia al cielo, sorrise, si rimise in piedi e recuperò lo zaino dalla barca. Sentì freddo d'improvviso e s'accasciò sulla paratia, con la vernice rossa degli assiti che andava via in piccole schegge mentre respirava. Non era stanco, ma si sentiva vuoto. Respirò a lungo, gli spigoli delle costole contro il legno, lo sguardo rivolto al mare increspato. Laggiù, sulla linea dell'orizzonte, la Turchia appena lasciata. Tirò fuori dallo zaino la giacca della tuta e la indossò sopra la maglia di cotone, chiudendola fin sotto al collo. Lasciò la barca a dondolare e cozzare tra gli scogli e seguì la costa, fino alla prima casa, una piccola abitazione di calcestruzzo e sassi tondi costruita direttamente sul mare. Un vecchio pescatore stava scaricando delle casse di polpi da un furgone. Le sistemava in fila sullo spiazzo in cemento grezzo antistante un pergolato ricoperto di giovani foglie di vite. Il pescatore gli si rivolse in greco, ma Rafael scosse la testa. «Parlo inglese» disse il ragazzo. Il vecchio sputò in acqua e riprese a scaricare il furgone. «Francese?» azzardò Rafael. Il pescatore sbatteva le casse sul cemento, i polpi ancora vivi agitavano i tentacoli, emettendo un rumore sordo, un risucchio ovattato simile a quando cammini nel fango. Rafael si tolse lo zaino dalle spalle e iniziò ad aiutare il vecchio. Quando tutte le casse furono a terra, il pescatore iniziò a smistare i polpi. Quelli grandi finivano nel cestello di una lavatrice arrugginita, quelli piccoli venivano sbattuti sul cemento e poi appesi a un cavo d'acciaio. Decine di girandole colorate ruotavano al vento per tenere lontane le mosche. Il ragazzo si inginocchiò di fianco al vecchio e si mise a pestare i polpi sul pavimento. Non era facile, perché gli si attorcigliavano al braccio e sentiva le ventose appiccicarsi. Quando le staccava schioccavano, come baci. Finito il lavoro, il vecchio lavò in mare le casse di polistirolo e accese la lavatrice. Nonostante i tacchi di sughero, ballava sul cemento e faceva un rumore cupo e profondo. Quindi si sciacquò le mani con una saponetta, si mise seduto, con i piedi sospesi sul mare, e si accese una sigaretta. Ne offrì una al ragazzo, che rifiutò con un sorriso, mentre scendeva tra gli scogli per lavarsi via il muco dei polpi dalle braccia. Il vecchio aveva una barba di tre giorni, ispida, le sopracciglia folte sporche di salsedine e occhi velati e seri. A Rafael piacque guardarlo mentre fumava. Il vecchio lasciò la sigaretta a metà, la spense sul cemento e infilò il mozzicone nella tasca dei pantaloni. Fece cenno al ragazzo di seguirlo in casa e scostò la tendina di perline che nascondeva la porta. Preparò un caffè turco e lo bevvero insieme, seduti sul divano, con un grosso gatto arancione addormentato tra loro. C’era un mobiletto laccato di fronte al divano, con la foto di una donna abbagliata dal sole e un’icona della Madonna bordata d’oro. Rafael si segnò con la croce e il vecchio parve sorpreso del fatto che fosse cristiano. Si alzò, con la tazza del caffè vuota, e indicò la donna nella foto, quindi se stesso, quindi sorrise. «Era una donna bellissima» disse Rafael, in arabo. Il vecchio annuì, come se avesse capito, e si rimise seduto. Rafael gli pose una mano sulla spalla e l’uomo si rilassò, abbandonandosi sul divano. Mentre dormiva, Rafael lavò le tazze e uscì fuori, a leggere. Quando la lavatrice finì, la svuotò, la lavò con una pompa e appese i polpi sul filo. Il vecchio uscì di casa poco dopo, si grattava il mento ispido e aveva uno sguardo perplesso. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma rimase per un po’ con la bocca socchiusa, quindi scosse la testa e fece cenno al ragazzo di prendere le sue cose e salire sul retro del furgone, poi s'indicò, con il pollice. «Kostas» disse. «Rafael» rispose il ragazzo e saltò sul rimorchio. Il furgone tremava sulle strade dissestate e faceva lo stesso rumore della lavatrice piena di polpi. S'arrampicò su colli ricoperti di uliveti e campi incolti, un panorama punteggiato dall'indaco della borragine, dal rosso acceso dei papaveri e dal viola dell'erba medica. Quando la strada divenne asfaltata il vecchio accelerò. Incrociarono poche auto, soprattutto mezzi della polizia. All'orizzonte, in eteree spirali, si levavano colonne di fumo. Tra i boschi d'ulivo si cominciarono a intravedere le tende del campo non ufficiale, i panni stesi tra un ramo e l'altro, bambini che si rincorrevano, cumuli di spazzatura. Kostas fermò il furgone prima di un posto di blocco, sul ciglio della strada. Indicò al ragazzo il gruppo di poliziotti, tutti con la mascherina, e gli passò una mano callosa sui riccioli. Aveva odore di polpo e sapone di Marsiglia. Rafael si mise lo zaino in spalla e lo abbracciò. Il vecchio sorrise e le rughe attorno agli occhi creparono la pelle cotta dal sole. Un sorriso luminoso e triste, come un campo arato in piena estate.
I poliziotti portarono Rafael all'ingresso del campo di Moria e lo consegnarono al personale dell'UNHCR, nella zona di prima accoglienza. Dopo i controlli medici, che erano diventati più seri per via dell’epidemia, fu fatto sedere in uno stanzone bianco, su una sedia di plastica e un foglio con un numero identificativo. C'era molta gente che andava e veniva dalla stanza, ma poco rumore. La signora che lo aveva accolto stava bevendo un caffè da un bicchiere di carta, alzando la mascherina ogni volta che lo portava alla bocca, e mettendo in ordine dei moduli. Dietro di lei, appiccicate sulla parete del container con grossi pezzi di nastro marrone, c'erano una cartina della Siria e una dell’Iraq. La cosa che più lo incuriosì fu che nonostante dalle finestre entrasse una bella luce, le lampadine al neon sul soffitto erano accese. Così nella stanza avevano eliminato quasi tutte le ombre. Una ragazza li raggiunse poco dopo, aveva il fiatone e si scusò con la signora dei moduli, congiungendo le mani. Aveva degli enormi occhi neri e la pelle bruna e lucida, come onice egiziana. Fu lei a parlagli, in arabo. Gli disse che si chiamava Luara, gli domandò il nome e da dove venisse. «Da Aleppo» rispose Rafael. Le disse tutto quello che era giusto sapesse, che era cattolico Caldeo, che era orfano, che aveva tredici anni, che era in viaggio da solo, che era partito da circa un anno. Aveva un documento? Lo aveva avuto, ma ora non più. Lui parlava, Luara traduceva e la signora riportava tutto sui moduli. «Come sei arrivato qua?» chiese Luara. «Con la barca» rispose Rafael. Conosceva l'onice egiziano perché sua madre aveva degli orecchini fatti con quella pietra. A lui piacevano tanto, erano a forma di scarabeo e a sentire sua madre portavano fortuna. Chissà dov'erano, ora. «Una barca solo per te?» «Era una barca piccola.» «Strano» Luara sorrise, «hai pagato qualcuno per la barca?» «No.» «No? L'hai rubata?» Rafael scosse la testa con forza. «Me l'hanno regalata.» Stavolta fu la signora a sorridere, mentre scriveva. «E fino a imbarcarti, da Aleppo, come ci sei arrivato?» «A piedi.» «Tutto da solo?» «Mi hanno aiutato tante persone gentili. Io sono stato gentile con loro e loro sono stati gentili con me.» Le due donne si scambiarono uno sguardo, ma stavolta nessuna sorrise. «Anche voi due siete gentili» concluse Rafael «Certo» disse Luara, «hai qualcuno che ti aspetta in Europa?» «No.» «Non c'è nessuno che possiamo contattare?» «No.» Luara annuì, confabulò con la signora dei moduli, poi si accovacciò accanto a Rafael, così da avere gli occhi alla stessa altezza. «Ci vorrà un po' di tempo, proveremo a recuperare i tuoi documenti, poi verrai convocato per la richiesta di asilo. Starai qua al campo, ti daremo una carta dove dovrai far mettere ogni mese un timbro. Di solito si può girare per l’isola, ma con la pandemia in corso hanno bloccato tutti dentro. Dormirai con altri bambini, in una zona del campo tutta per voi, non avere paura.» Rafael si fece serio e aggrottò le sopracciglia. «Non posso permettermi di avere paura, sono rimasto solo io, sono l'ultimo» disse. «L'ultimo?» Rafael strinse lo zaino al petto, era stanco e aveva parlato troppo. «L'ultimo della tua famiglia?» suggerì Luara. «Sì» sussurrò Rafael.
Luara lo accompagnò fino agli alloggi dei minori attraverso un fitto labirinto di tende e container. Lungo la strada incrociarono centinaia di persone, molti erano in fila per le docce e i bagni. Nessuno portava la mascherina, nessuno rispettava le distanze per evitare il contagio. Luara dovette fermarsi spesso ad ascoltare lamentele o richieste della gente che la riconosceva. Lei annuiva, prendeva appunti, salutava tutti i bambini ricordandone il nome. La chiamarono anche dalla fila per il cibo e Rafael la seguì. Le persone erano stipate dentro un corridoio di reti elettrosaldate, come in una gabbia per i polli, una a ridosso dell’altra, donne, bambini, uomini, anziani. Rafael sentì un ronzio in testa e caldo, dalla gola allo stomaco, come se avesse bevuto un the bollente, tutto d’un fiato. C’era tanto dolore, terrore, tristezza, rassegnazione. Posò la fronte sulla rete e un bambino dalla pelle scura, profumato di talco, con una striscia di muco sul labbro, gli si avvicinò e iniziò a giocare schiacciandoli il naso. Aveva una faccia serissima mentre lo premeva, come fosse un bottone, con la punta del dito infilata attraverso le maglie della rete. Rafael lo lasciò fare, poi si sedette, con le ginocchia al mento. Aveva bisogno di pensare, di pregare, di farsi domande. Fino ad allora era solo scappato, non aveva avuto altra preoccupazione che nascondersi e andare avanti. Ma quel posto lo metteva in difficoltà, sentiva che c’era tanta gente che avrebbe potuto aiutare, ma non sapeva né come, né se era giusto esporsi per farlo. Una delle cose che suo padre amava ripetergli era: “Si credis, crea”. Aveva meditato tanto su quelle parole, nei pomeriggi soporiferi al chiostro, così lontane da quelle di coloro che nella fede vedevano solo un dogma. Forse suo padre intendeva dire che la fede non doveva essere solo un fatto passivo, ma anche un atto attivo; non solo un atto meccanico, ma un atto creativo. «Sei pensieroso» disse Luara, mentre riprendevano a camminare, «so che non sarà facile…» «C’è una chiesa?» «Una chiesa?» «Un posto per pregare.» Al centro della strada in terra battuta scorreva un rivolo di scolo, un misto di acque reflue, saponi e urina. Molti bambini giocavano a saltarlo, tra lo svolazzare di libellule e moscerini. «No, qua al campo no, mi spiace.» «Non importa. Un posto vale l’altro. Dopotutto non bisogna mai essere troppo pignoli nelle questioni di fede.» «Hai ragione.» «Molto spesso tiriamo a indovinare sulle cose che riguardano Dio» continuò Rafael, parlando più a se stesso che altro, «l’approssimazione è contemplata e perdonata. Un mio maestro diceva sempre di immaginare Dio come un gigantesco e oscuro pensatore, tipo uno che progetta in continuazione, ma tiene tutti i disegni nascosti.» Luara aggrottò le sopracciglia. «Quindi il nostro compito è capire i suoi progetti?» chiese. Rafael scoppiò a ridere. «Che sciocchezza, te l’ho appena detto, il nostro compito è tirare a indovinare» disse. «Certo che fai discorsi strani per la tua età.» Rafael alzò le spalle. Non rispose, dopotutto cosa poteva dire? Che era da quando aveva tre anni che sentiva intorno a lui solo discorsi del genere? Che a cinque già conosceva a memoria tutte le sacre scritture? Che non aveva mai avuto un’infanzia? Così aveva deciso l’oscuro progettista, c’era poco da fare.
Prima di entrare nell'area riservata ai minori il poliziotto di guardia volle perquisire lo zainetto, perché da poco un ragazzo era stato ferito con un coltello durante un litigio. Rafael esitò un poco, poi lo aprì e svuotò il contenuto su una sedia. C’erano due magliette, un paio di calzoni corti, della biancheria intima, una bottiglietta d’acqua, una bibbia, tre libri dalle pagine consumate e una piccola fiala avvolta in fogli di giornale. Il poliziotto la mise controluce per ispezionarne il contenuto. «Cos’è?» chiese, agitandola un poco. «Sangue secco» rispose Rafael, cercando di essere il più calmo possibile, «una specie di ricordo» si affrettò a puntualizzare. Il poliziotto scosse la testa, poi prese l’ultima cosa che era rimasta sul fondo, una scatola di bronzo con intarsi in argento. La ispezionò, ma non trovò aperture o serrature. «E questa?» «Tanto non si può aprire.» «Lo vedo, ma cos’è?» «Un altro ricordo?» azzardò Rafael. Il poliziotto scosse nuovamente la testa e rimise tutto a posto. In fin dei conti non gliene importava nulla. Rafael rimise lo zaino in spalla ed entrò nel container. Prima di lasciarlo, Luara gli aveva dato il numero del letto e la chiave di un mobiletto, dove avrebbe trovato lenzuola, cuscino e un asciugamano. Gli aveva raccomandato di trattarli bene, perché difficilmente ne avrebbe ricevuto altri. Quando entrò nella camerata, i compagni lo squadrarono, ma nessuno lo salutò. Un ragazzo in canottiera diede un calcetto al fagotto delle sue cose e lo nascose bene sotto la branda. Rafael sistemò il letto, ripose le sue cose nel mobile, lo chiuse e con l’asciugamano sottobraccio uscì a mettersi in fila per una doccia fredda e poi per la cena. Mangiò uova sode e pane pita, lesse un poco e poi si mise a letto. La notte non riuscì a prendere sonno, perché nel buio i cattivi pensieri si amplificano. Si udivano pianti sommessi nella camerata e due volte delle urla che provenivano da chissà dove e lo fecero trasalire. Lasciò il letto e uscì. Il poliziotto di guardia dormiva con il berretto calato sugli occhi e i piedi incrociati. Camminò per un po', vide tanti lumi nelle tende; un canto sommesso, un cane che rovistava tra i rifiuti, i fili elettrici, per lo più allacci abusivi, si diramavano dai pali della luce come ragnatele. Un vecchio sedeva su una stuoia con una radiolina in grembo. Borbottava maledizioni mentre cercava di sintonizzarla scuotendo l’antenna. Lo illuminava dal basso una torcia con le batterie quasi esauste, vista la luce debole che emanava. «Ragazzo» lo chiamò il vecchio, «vieni a darmi una mano.» Rafael si mise seduto davanti a lui, con le gambe incrociate. Il vecchio vestiva un thawb consunto e sandali di tela. «Ti ho visto questo pomeriggio» disse il vecchio, «ti ha accompagnato la signorina Luara.» «Sì, signore, sono arrivato oggi» disse Rafael. Ora dalla radiolina veniva fuori un vecchio brano dei Beach Boys. «Non chiamarmi signore, sono Habid, per tutti solo Habid. Ora senti, questo coso continua a farmi sentire musica americana, hai idea di come posso fare ad ascoltare della buona musica araba?» chiese. «Non so, non saprei come aiutarla» disse Rafael, con la faccia contratta. «Maledetti americani, sono dappertutto» borbottò il vecchio, poggiando la radio. Non la spense però e i Beach Boys furono presto sostituiti da Michael Jackson. «Sono molto dispiaciuto» sussurrò Rafael, «non so… avrei voluto fare qualcosa…» Poteva farlo, in realtà, ma non voleva farsi notare, non poteva, una cosa che lo torturava. Poi successe qualcosa di strano, come se saltasse un tappo, gli occhi si riempirono di lacrime e cominciò a singhiozzare. Era assurdo, non piangeva dal giorno che aveva trovato il cadavere di sua madre, più di anno prima. Ma c’era qualcosa in quel posto, qualcosa che lo opprimeva in una maniera che non aveva mai provato prima. «Via, ragazzo, su, fa schifo, lo so, ma non farne una tragedia. La spengo?» «Non è quello. È che non riuscirò ad aiutare nessuno, ecco la verità» balbettò. Habid si diede una pacca sul ginocchio e scosse la testa con forza. «Sei solo un ragazzo, via, chi dovresti aiutare?» «Non sono un ragazzo» bisbigliò Rafael, asciugandosi le lacrime. «Hai una grande considerazione di te.» «No, è proprio il contrario.» «Certo, è una gran bella cosa aiutare gli altri, via, ma ti svelo un segreto» annunciò il vecchio, alzando l’indice al cielo, «qua sono tutti abituati ad aiutarsi da soli, non ti preoccupare.» Rimasero per un po’ zitti, ad ascoltare la musica. Habid teneva il ritmo battendo il dito sul ginocchio e malediceva sottovoce gli americani. «Lei vive solo» disse Rafael, d’improvviso. «Sì» ammise Habid. «Ma non è arrivato da solo…» Habid tossì, ma non rispose. Rafael si allungò e sfiorò la radiolina. Per un po’ si zittì, poi iniziò, non troppo chiara, a trasmettere una vecchia canzone irachena. «Avevo una figlia, qua con me» bisbigliò Habid, «ora, per favore…» Rafael annuì e la radiolina riprese a trasmettere normalmente. «Mi piacerebbe venire a stare qua da lei, nella sua tenda. Non mi piace dove sto ora» disse. «C’è un sacco di spazio, se non ti spiace vivere con un vecchio...» Stettero ancora in silenzio per un po’, poi Rafael si mise in piedi, a respirare grandi boccate d’aria. «Ho visto, stamattina, che la primavera in quest’isola è proprio bella» disse. «Sì, ragazzo, è bella anche se è fragile. Come noi.» Rafael sorrise e la prima la notte passò così: a guardare la meraviglia della primavera tra i cumuli di rifiuti e le cunette dove scorreva il piscio, con la musica dei maledetti americani in sottofondo.
Isola di Lesbo, aprile 2020
Il contagio partì da Mitilene, portato da una donna di ritorno dalla Turchia, e arrivò al campo alla fine di aprile. Le autorità greche schierarono l’esercito in aiuto della polizia per contenere le proteste dei migranti e circondarono con le reti anche il campo non ufficiale. Medici senza frontiere allestì un ospedale nell’edificio che prima fungeva da scuola, ma ben presto, con l’arrivo dei primi decessi, le persone furono prese dal panico. Rafael si tenne ben nascosto nella tenda di Habid. Sapeva che erano arrivate televisioni di tutto il mondo a documentare il dramma del campo e non poteva rischiare di essere filmato. Dormiva poco, per lo più stava sveglio, rannicchiato, con le sue cose strette al ventre. C’erano violenze e furti continui, Habid gliene rendeva conto quando tornava col cibo. Aveva paura che potessero sottrargli lo zaino, con tutto il suo prezioso contenuto. Stava diventando paranoico, ma non riusciva a calmarsi. La protesta divenne violenta il ventinove aprile. Rafael sentì le urla e poi la terra che tremava. Tornò indietro col pensiero a quando avevano bombardato il suo quartiere, ad Aleppo, e istintivamente si coprì la testa, ma non sentì nessuna esplosione. Il tremare della terra invece aumentò: un brontolio sordo, come se ci fossero decine di cavalli al galoppo. «Stanno venendo da questa parte» disse Habid, affacciandosi all’imbocco della tenda. «Chi?» chiese Rafael, mettendosi seduto. «I soldati. Stanno ricacciando dentro al campo le persone che stavano manifestando. Hanno i blindati. Dobbiamo andare via, saliamo sulla cima della collina.» Raccattarono in fretta le loro cose, uscirono e furono investiti dalle persone che scappavano, inseguiti dall’esercito che sparava in aria. C’erano due troupe televisive e diversi fotografi. Rafael si coprì il volto. «Cosa fai, ragazzo?» chiese Habid, «muoviti, dobbiamo andare.» Rafael non riusciva a muoversi. Habid gli si piazzò davanti e cominciò a scuoterlo, così non vide il poliziotto che lo incitava a spostarsi. Lo sfollagente lo colpì sulla spalla e gli strappò un grido di dolore e sorpresa. Il poliziotto sollevò nuovamente il braccio, ma Rafael si mise tra lui e il vecchio, con le braccia spalancate. Pregava a bassa voce e guardava il poliziotto dritto negli occhi. Rimasero come bloccati, in un fermo immagine che parve infinito. Poi il poliziotto fece un passo indietro e abbassò piano il braccio. Dopo che si fu allontanato, Rafael vide un uomo che lo riprendeva con la telecamera e capì che per lui era finita.
Rintracciò Luara la mattina dopo, quando tutto il campo era immerso in un silenzio irreale. Tutti si erano asserragliati nelle tende, non c’era fila né per il cibo, né per il bagno. Lei lo fece accomodare nella stessa sedia dove si era seduto il primo giorno. «Devi aiutarmi a scappare» le disse. Lei scosse la testa, sconsolata. «Rafael…» «Non è per il virus. So che stanno venendo a prendermi.» «Chi sta venendo? Non può arrivare nessuno sull’isola.» «Loro arriveranno. Se mi hanno visto… non posso rischiare.» «Non potrei comunque portarti da nessuna parte, dove vorresti scappare?» «C’è un pescatore, vicino a dove sono sbarcato. Lui mi porterà lontano, con la sua barca. Si chiama Kostas.» Luara continuava a scuotere la testa, sconsolata. «Non sei l’unico che mi ha chiesto una cosa del genere. Non posso. Va’ via, ora.» Rafael strinse i pugni, fino quasi a farsi male. «Non costringermi, ti prego.» «Mi stai minacciando? Non me lo aspettavo da te. Vai via!» urlò Luara, alzandosi in piedi. Sembrò impallidire, la sua meravigliosa pelle d’onice parve sbiancare. Le luci al neon perennemente accese la resero di marmo. Uscì dal container, camminando rigida, seguita da Rafael. Avanzava come se stesse marciando, con lo sguardo fisso in avanti. La sua macchina era parcheggiata poco fuori dal campo. Aprì il cofano e Rafael si rannicchiò all’interno. Poco dopo la macchina sobbalzava sulle strade di campagna, verso il mare.
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