Cecilia

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    Cecilia
    Vivere est cogitare.
    Cammino. La musica che si diffonde dagli auricolari è una trasfusione di vibrazioni sonore nelle mie vene.
    Fine agosto: è uno stabilimento balneare vuoto; è la porta cigolante di una cabina che sbatte nel vento bizzoso di settembre; è pittura ancora giovane ma già scrostata dalla salsedine; è ombrelloni vuoti e pelle della spiaggia a macchie di leopardo.
    Mi piace passeggiare sul Lungomare nei rari giorni piovosi di agosto. Mi piace immaginare l’autunno, ancora lontano, nella parodia di questa pioggerellina fine: trasuda un alito caldo mentre mima la furia di un temporale. Mi ricorda una bambina che gioca indossando le scarpe con i tacchi della mamma.
    Quest’anno partire mi costa un po’ di più. Forse mi è costato un po’ di più ogni anno, accumulando l’acuta nostalgia che provo in questo momento; mi manca qualcosa da cui non sono ancora lontana, sono caduta in un flashforward della mia vita, in un gioco di specchi del tempo.
    Non vorrei tornare a Milano. Non vorrei che per me andarvi significasse “tornare”. È qui che ritorno, perché è qui che vorrei restare anche se qui non ho più nulla: famiglia, amici, se ne sono andati prima che maturassi il punteggio sufficiente per il diritto di un ritorno. Ora potrei, ma non ho più un luogo da poter chiamare veramente casa. L’unica mia dimora è questa nostalgia che mi lega a qualcosa che, nella realtà, non esiste più.
    Li vado a salutare ogni anno i miei templi. Cecilia, mi dico, possibile che li chiami ancora così? Sono passati quarant’anni da quando giocavi a essere la padrona dei templi, la principessa, la dea, a seconda del livello raggiunto dai tuoi studi. Sono la mia porta di accesso sull’inconoscibile, al loro cospetto − così sazi di eternità − io sono un frammento di vetro lustrato e levigato dalla risacca. Io sono un sassolino schiacciato tra pietre enormi, tiepide di sole, che lo chiudono nella loro ombra fredda. Io sono un sassolino. Io sono. Io.
    La mia casa non è più la stessa dopo la morte dei miei genitori, eppure, se ne sono andati in silenzio, così come hanno vissuto, sono usciti dalla scena di un mondo che ne ha potuto cancellare in fretta persino le orme. Sono scivolati, in un attimo, fuori dal tempo. Di loro, mi rimane solo una vecchia fotografia in bianco e nero. Due contadini, non so molto altro, forse perché erano, in fondo, solo questo.
    Avere una figlia che colleziona diplomi, laureata in lettere antiche e con la passione per una lingua, il latino, che nessuna parla più e che le torna alle labbra spesso, come un rigurgito di sapere incondivisibile; una figlia che viene chiamata per fare la maestra a Milano; erano sogni molto più grandi di qualunque dolce immagine ne abbia mai popolato la fantasia: io ero le colonne d’Ercole delle piccole vite dei miei genitori. Omne ignotum pro magnifico.
    Anche a me, allora, Milano sembrò l’avventura più strabiliante che potesse capitarmi. Avevo vent’anni e del mondo non conoscevo quasi nulla, neanche del mio. Mi piaceva inventarli, i mondi, e fissarli da qualche parte scrivendo. Scrivevo anche per il giornale dell’università e per quello di cronaca locale. Volevo diventare giornalista? No, non avevo un sogno preciso, solo una confusa necessità di non essere risucchiata dalla mia corazza di anonimato: aspetto insignificante, timidezza con corollario di balbuzie e repentini rossori, il nomignolo “agonia” appiccicato come un documento di riconoscimento valido fino a una lontana e imprecisata scadenza.
    Nessuno si è mai innamorato di me. Io sì. Mi sono innamorata. Una volta. Luca. Ogni volta che lo vedevo me ne innamoravo da capo. Luca compagno di scuola; Luca va a Roma a studiare; Luca torna a Paestum per le vacanze; Luca si fidanza; Luca si sposa e va a vivere a Torino. Ecco i capitoli della mia unica storia, privata, d’amore.
    Vent’anni a Milano non sono bastati per farmi decidere di restare. Lì, sono ancora più “sbagliata”. Percepisco i miei allievi come corpi in movimento, potrebbero essere qualunque cosa: meduse molli e gelatinose, pianeti remoti dalla luce tremolante. Li percepisco come riverberi senza nome a stellarmi gli occhi, vaghe promesse di luce di una notte irreparabile. Gli parlo, a volte, senza udire nemmeno il suono della mia voce. Conosco a memoria il bugiardino e le dosi consigliate. Metto sulle loro tavole, da vent’anni, stancamente, sempre le stesse pietanze fredde e insapori. Loro fingono di sedersi a quel desco così avaramente imbandito. Piluccano. Sopportano. Per lo più, come me, pensano ad altro.
    Domani parto. O partirò? Domani è così vicino se considero la voragine vuota della mia ennesima notte solitaria: non ho mai udito, vicino a me, al buio, ritmarsi un respiro diverso dal mio.
    Domani parto. Tra dieci mesi torno. Un eterno presente orbo di futuro mi circonda, mentre mi avvolge prepotente la ruvida bellezza dei miei templi.
     
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    che bella autoconfessione, dorothy, carica di rimpianti, ricordi sbiaditi e vaga, molto vaga, speranza.
    trasmetti bene lo stato d'animo, arriva dritto a colpire chi legge.
    sei riuscita a stendere per bene un argomento non semplice.
    complimenti.
     
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    Penna suprema

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    Come sei autentica, come sei sincera.
    Una donna, che per tutta la vita ha collezionato vittorie, urla che ha bisogno solo di compagnia.
    E non si fraintenda il termine.
    Lei non vuole per unica compagna la nostalgia per quel mondo che scompare.
     
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    Grazie, mi avete commosso, grazie di cuore.
     
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    CITAZIONE (Dorotychecorre @ 28/12/2020, 12:48) 
    Grazie, mi avete commosso, grazie di cuore.

    addirittura? =/
     
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    Mi commuovo anche per meno. Grazie :]
     
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