Scrittori per sempre

Votes taken by B&S

  1. .
    Tocca ammettere la verità.
    Questo racconto folle lo abbiamo scritto io, ecly, parnassius e vivonic.
    È stato difficile ma davvero soddisfacente, un racconto a otto mani è una grande sfida.
    Grazie a tutti per i vostri pareri.
  2. .
    Tantissimi auguri, Ste !!!!

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  3. .
    CITAZIONE (fumoblu @ 28/7/2018, 01:35) 
    Un grazie speciale a B&S che spero non mi abbia maledetto troppo per la formattazione impossibile.

    Il giusto, fumo. Il giusto. Ehehehehehe.

    Ele
  4. .
    Complimenti a tutti voi, che avete resistito per ben due anni. Instancabili.

    Siete fantastici.
    Ele
  5. .
    Andate e votate,
    belle penne.

    Ele
  6. .
    Eccoci arrivati all'ultimo step di questo lunghissimo e impegnativo concorso seriale, ragassuoli!

    Pronti per il diabete?
    IO mi sono già presa la mia bella dose di zuccheri, leggendo tutti i vostri super rosa racconti in anteprima :)

    Adesso tocca a voi.

    Avete tempo per leggere e commentare fino alla mezzanotte di sabato 21 Luglio

    Buona lettura a tutti!

    Ele

    N.B. per qualsiasi problema sui vostri racconti, vi prego di contattarmi tramite MP. Grazie.
  7. .
    «Benvenuta a Retalhuleu, signora Toniolo!»
    Non sono qui per fermarmi a Retalhuleu e non sono nemmeno una signora. Non so quale parte del saluto rivomitare addosso a questo bamboccio in divisa, che sembra avere la metà dei miei anni. Parolacce, solo parolacce. Non va bene, meglio se resto zitta.
    Raccolgo documenti e bagagli e mi dirigo verso l’uscita dell’aeroporto. Una porta a vetri mi separa dal clima quindici gradi più caldo e venti percento più umido rispetto all’aria condizionata del terminal. Raccolgo le forze e faccio l’ultimo passo nella civiltà occidentale.
    Eccomi in Guatemala. Anche se ho raccolto i capelli lunghi e indossato il vestito leggero, un rivolo di sudore si forma immediatamente sulla schiena e mi scorre dritto negli slip, aumentando il disagio accumulato durante il lungo viaggio. Eppure non mi importa. Manca solo la ciliegina sulla torta, la sto aspettando. So già che ha la forma di un indio basso e sovrappeso, caricatura di un charro messicano che, da queste parti, risalta come un tirolese a Capri.
    «Signorina Mara, sono qui!» José sventola il sombrero mentre attraversa la strada. Non è solo: si è portato Pepita, la figlia minore ormai diciottenne. Lei è poco più di un metro e sessanta, ma vicino al padre sembra quasi alta. Ha il viso indio ma il fisico latino, evidenziato dalla canottiera corallo, con una stampa bianca nei posti tattici, e gli hot pants neri. Viene il dubbio che la mamma si sia data da fare con qualche turista una ventina d’anni fa. Per lo meno, io la domanda me la sono sempre posta; qualche volta ho pure provato a fare una battuta in presenza di mio padre e mio fratello, ma quelli non sono interessati ai pettegolezzi. A meno che non portino guadagno, ovviamente, e questo non ne porta di sicuro.
    «Ciao Mara!» Pepita mi abbraccia con trasporto. Abbandono le valigie nelle mani di José e ricambio. Ci incamminiamo verso l’auto restando abbracciate.
    «Tesoro! Come stai? Sei sempre più bella. Ormai sei quasi una donna fatta.»
    Arrossisce. «Grazie. Anche tu sei splendida. Si vede che ti stai per sposare.»
    «Già. Avrei tante di quelle cose da fare, a proposito. E invece sono qua.»
    «Dai, raccontami.»
    Mi guarda con aria sognante mentre parlo dell’organizzazione del matrimonio, della villa per il ricevimento, dei particolari sui fiori in chiesa e i centrotavola al ristorante. Le faccio vedere un po’ di foto mentre viaggiamo verso casa. Le illustro come verrà disposto tutto e lei condivide la mia eccitazione.
    «E il vestito?»
    «Guarda.» Parlo piano per non farmi sentire da José. Faccio scorrere le immagini sullo smartphone: prima il modello, poi le volte che l’ho indossato, infine le spiego le modifiche che ho chiesto.
    «E Andrea?»
    La guardo di traverso. «In che senso, “e Andrea”? Lo sposo è solo uno dei tanti accessori del matrimonio, non lo sapevi? Farò in modo che sia abbinato ai centrotavola, così non mi rovina la cerimonia.» Ridiamo.
    Arriviamo a Costazul all’ora del tramonto. Tutta la costa del Pacifico è illuminata dal sole, è un panorama che amo e che mi fa dimenticare tutto, compreso il motivo per cui sono qui in questi giorni. Mi fermo a guardare lo spettacolo, insieme a Pepita, in silenzio. Finché non è ora di entrare finalmente in casa.
    La videochiamata con Andrea è breve, un po’ perché la connessione qui lascia a desiderare e un po’ perché in Italia la mezzanotte è già passata; fa appena in tempo a dirmi “Sta’ attenta”, poi mettiamo giù.
    Più lunga, invece, la telefonata con papà, che non perde l’occasione per ricordarmi, ancora una volta, il motivo per cui mi ha spedita qui in Guatemala a meno di un mese dalle nozze. Infine chiude con: «Quando sei a Costazul sei un’altra persona; soprattutto ti sento felice.» Me lo dice sempre e forse ha ragione, in effetti qui mi sento a casa. Un vero peccato che Andrea sia un avvocato in rapida carriera e non possa mollare l’Italia; altrimenti, davvero, io mi fermerei qui per sempre.

    Al mattino tocca alzarmi presto, farmi un’altra doccia e vestirmi pure bene. L’unica cosa che so del signor Benson, che devo incontrare stamattina, è la foto di un piccolo yacht con una figura sfocata a bordo. Andrea è diffidente; non capisco come si possa essere gelosi di una macchia indistinta di colore, eppure è il motivo per cui negli ultimi giorni mi dice sempre “Sta’ attenta”.
    Pepita invece è d’accordo con me: sembra uno dei tanti ricconi palestrati che frequentano la Marina a Champerico. La cosa non mi piace: è gente abituata a dare ordini e farsi soddisfare ogni capriccio come se fossero Dei in Terra. Mi aspetta una brutta giornata! Ciononostante mi vesto con un abito turchese in tinta unita, estivo ma dal taglio professionale, sandali con tacco cinque abbinati a una pochette panna. Come acconciatura ho scelto una crocchia, più che altro per tenere il collo fresco; poi braccialetto, orecchini pendenti e girocollo in oro bianco.
    Attendo ancora venti minuti e finalmente compare José. Mi porta in città col minivan; ci fanno compagnia la vicina di casa e i figli che scendono in zona mercato comunale, una deviazione che ci prende circa quarto d’ora. Io invece sono diretta in centro. L’ufficio che devo raggiungere è in un palazzo in stile coloniale, con la facciata ridipinta di fresco. La porta d’ingresso è aperta e vengo accolta da un portiere in divisa blu, nero e muscoloso come se ne vedono pochi da queste parti.
    «Mara Toniolo; ho un appuntamento con il signor Benson.»
    «Prego, si accomodi.» Il portiere mi indica una poltrona nella sala d’attesa. È da stamattina che sono immersa nel ritmo guatemalteco e non mi stupisce di dover attendere altri venti minuti.
    Dal corridoio principale si affaccia un uomo latino con la camicia bianca slim fit, che a mala pena ne contiene bicipiti e pettorali. Ha il volto sbarbato e capelli scuri fluenti. Mi guarda le tette.
    «Signora Toniolo, scusi se l’ho fatta aspettare. Venga pure.»
    «Buongiorno, signor Benson.»
    Mi stringe la mano con fermezza e mi fa strada verso il suo ufficio: «Felice di conoscerla.»
    «Preferirei saltare i convenevoli,» gli dico. «Sono qui per concludere l’affare e ormai ne conosce i termini. Per la nostra società di famiglia non è un problema di soldi, faccia pure il prezzo che preferisce e siamo pronti a firmare.»
    Mi guarda ancora le tette. Sospira, giocherella con la penna e si agita sulla sedia. «Il terreno non è in vendita. Possibile che non riusciate a capire? Davvero non vi siete mai fermati a guardare i tramonti a Costazul?»
    Certo, tante volte, e sono stupendi. «Preferirei restare sull’argomento principale, se non le dispiace.»
    Gli occhi grigi di Benson mi guardano sempre lì. Lui si agita di nuovo sulla sedia e continua a tormentare la penna. «Senta, facciamo così: troviamoci stasera sul mio terreno a ora di cena. Se riesce a comprendere il valore dello spettacolo che offre la natura a quell’ora, vedrà che mi darà ragione, che non c’è prezzo.»
    Fingo di restare impassibile. «E se non mi dovessi commuovere?»
    «Si commuoverà.» Prende il preliminare di compravendita, segna una cifra che non riesco a leggere e firma. Poi arrotola il plico e lo mette in un tubo di cartone. «Questo glielo ridò stasera,» dice, puntandomelo guarda caso proprio al petto. «Scommettiamo la cena che non lo rivorrà più indietro?»
    Scommessa accettata! Ci mancherebbe pure che mi fermo a cena con un tipo del genere.

    Nel pomeriggio mi sono concessa un paio d’ore in spiaggia. Ho bisogno di sentirmi libera da tutto prima dell’incontro di stasera.
    «Devo solo fingere che non m’importa nulla, poi prendo il preliminare firmato e l’affare è concluso. Facile no?»
    Pepita ride. «Se lo dici tu…»
    «Dai, non è la prima volta che devo affrontare un polipo. Ce la farò.»
    «Ma ti ha toccata?»
    «Eh, la mano lunga ce l’ha.»
    «Che porco!»
    «Avrei dovuto dirgli anche: “Bello: vedi che gli occhi ce li ho più su!”»
    Pepita ride di nuovo. «Ma davvero? Aveva il guarda fisso?»
    «Già… Una cosa insopportabile, non staccava mai gli occhi!»
    «Eh, lo capisco.»
    «In che senso?» Mi giro verso di lei.
    Arrossisce. «No, dicevo: ti capisco. Anch’io a volte vorrei non avere le tette, quando i ragazzi mi guardano sempre lì…»
    «Eh, li capisco.»
    Mi guarda con sospetto; poi si rende conto che l’ho presa in giro e ci mettiamo a ridere. Alla fine mi dice: «Insomma stasera vai all’appuntamento con un porco per soffiargli un terreno in riva al mare?»
    «Detta così, in effetti, non è bellissima. Però è la verità.»
    «Sta’ attenta.»
    «È quello che mi dice sempre Andrea.»
    «Scusa; non volevo…»
    «Tranquilla. Se me lo dici tu va bene.»
    «Ok.»

    Arrivo al chiringuito che manca ancora mezz’ora al tramonto. Sono vestita in modo informale, ma non troppo da spiaggia. Anzi, per nulla: potrei essere pronta per andare a fare un giro dei locali in città. Ho scelto un vestito sabbia con la cintura bianca, borsetta abbinata e sandali beige. Reggiseno rinforzato, per attirare l’attenzione del signor guarda fisso e, allo stesso tempo, evitare inutili fastidi, dovesse fare la mano morta in modo troppo audace. Come acconciatura una coda di cavallo. Niente braccialetti, ma non ho rinunciato ai pendenti e al girocollo, questa volta di bigiotteria. Mi pento della scelta, perché forse mi si è scatenata una reazione allergica. Vorrei tanto grattarmi sotto il collo, ma cerco di resistere alla tentazione e mi limito a massaggiare la zona irritata.
    Il signor Benson è già lì che mi aspetta, lui sì vestito da spiaggia: bermuda sahariani a vita bassa e maglia nera corta, che scoprono in modo volgare gli addominali scolpiti.
    «Buonasera, signorina Toniolo.» Si alza e mi tende la mano. Gli porgo la mia e me la stringe con fermezza; gli occhi me li ha già infilati nella scollatura, mentre la mano sinistra si appoggia al fianco per invitarmi a sedere. «Prende un drink?»
    «Un margarita con lime, grazie.»
    «È pronta a vedere lo spettacolo più bello del mondo?»
    Sì, peccato per la compagnia. «Vediamo, sono curiosa.»
    «Tra meno di mezz’ora qui sarà tutto rosso fuoco…» si dilunga in descrizioni enfatiche di un fenomeno che conosco già benissimo. Fingo di sorseggiare il margarita mentre assaporo volentieri le tapas di frutti di mare che l’accompagnano.
    «Venga.» Alla fine si è alzato in piedi. In mano ha i nostri drink e mi invita a seguirlo. Prendo il bicchiere e mi alzo, il signor Benson fa il polipo per un attimo e poi ci incamminiamo. Ho i sandali che affondano nella sabbia e desidero tanto toglierli, ma non voglio dargli questa soddisfazione.
    Alle nostre spalle la musica del chiringuito; davanti a noi lo spettacolo del sole che si allinea alla costa e, con un gioco di luci e di ombre, crea una magia di colori tra l’oceano, il bosco vicino e le scogliere in lontananza. Ogni volta resto senza fiato. Anche stavolta abbasso le difese e mi dimentico di tutto: assaggio il margarita e mi gratto delicatamente la base del collo. Poi mi ricordo che ho una missione da compiere e fingo di rimanere impassibile. La mano fastidiosa del signor Benson mi aiuta a distrarmi e dissimulare l’interesse. Mi giro per evitare il contatto e lo guardo negli occhi grigi. «Allora?»
    «Posso chiamarti Mara?»
    «Preferisco di no.»
    «Possibile che tutto questo ti lasci indifferente? Io mi sento salire un fuoco dentro, non lo senti anche tu?»
    No, non lo sento. Soprattutto non lo sento con te, che riesci a smorzare qualunque scintilla con i tuoi modi da bambino viziato. Vorrei qualcun altro qui, vicino a me, in questo momento. Qualcuno che…
    Mi stringe e tenta di baciarmi. Non capisco per quale motivo abbia interpretato il mio silenzio per una disponibilità che non dimostro. Istintivamente gli rovescio in faccia il margarita e molla la presa. «Mi scusi, signor Benson. Ci dev’essere un equivoco. Io sono qui per concludere un affare. Ha con sé il documento firmato, per favore?»
    Non so se è stata la tequila, il lime o il sale, ma il mio interlocutore ha un occhio irritato e sta lacrimando abbondantemente. «Brutta cagna, io…» Ho paura. Ora caricherà il braccio per spingermi o colpirmi e mi immagino già a terra.
    «Eccolo!» La voce di Pepita interrompe bruscamente la minaccia. Ha una camicia fantasia annodata sopra l’ombelico e una minigonna cobalto a vita bassa che attirano l’attenzione dell’energumeno e sviano la sua volontà di attaccarmi. Ma soprattutto tiene in mano il tubo di cartone che avevo visto in ufficio questa mattina.
    «Dammelo! Ladra…»
    «Signor Benson,» lo interrompo, «per la precisione, il tramonto mi ha lasciata indifferente. Siamo persone d’affari e, soprattutto, di parola. Credo proprio che questo documento non sia stato rubato, come lei sostiene, ma che invece mi appartenga, come promesso. Ha qualcosa da obiettare?»
    «Siete delle cagne, ve la farò pagare!»
    Gli porgo il tubo. «Ecco la sua occasione. Può farcela pagare subito, rompendo la parola data e prendendosi la sua rivincita. Oppure può mantenere la parola e lasciarci in pace per sempre. Scelga.»
    Massaggiandosi l’occhio irritato se ne va. Biascica qualcosa, probabilmente un altro “cagne” o qualcosa di peggio. Io e Pepita restiamo a guardare la scena di lui che si allontana, mentre alle nostre spalle potrebbe esserci uno dei più bei tramonti di Costazul. Abbracciate, ci dirigiamo verso le luci del chiringuito.
    «Grazie che sei venuta.»
    «Non potevo lasciarti da sola con quel porco. Ti avrebbe pure menata.»
    «Già.» Poi le chiedo, indicando il tubo: «Dove l’hai trovato?»
    «Era in bella vista nel suo fuoristrada, è stato facile.»
    «Come facevi a sapere che era il suo?»
    «Era l’unica auto di lusso nei dintorni, per forza!» Ci mettiamo a ridere. Poi aggiunge: «Comunque hai rischiato grosso: e se avesse preso il tubo?»
    «Era vuoto.» Mi guarda con sospetto. «Mica sono scema! Prima di porgerglielo ho aperto il tappo e ho lasciato cadere il preliminare sulla sabbia. Tra l’occhio irritato e il crepuscolo non se n’è nemmeno accorto.» Ridiamo di nuovo.
    Ordino due margarita al barista. Mi giro. Pepita sta tremando, poi mi mette le braccia al collo e mi bacia. Magari è un attimo eppure mi sembra un’eternità. Non me l’aspettavo, o sì? Forse l’ho sempre saputo. Resto incantata e lei si siede, rossissima in viso, con lo sguardo basso e mordicchiandosi il labbro.
    «Mara, scusami. Io… adesso che tutto è finito tornerai in Italia e sposerai Andrea. Era la mia ultima occasione per dirtelo. Perdonami, è stata una cavolata. Non odiarmi, ti prego!» Tira su con il naso.
    Sono sconvolta, ma in un modo diverso da… Cosa mi sta succedendo? Non riesco a convincermi che sia tutto sbagliato. La voce di papà mi rimbomba in testa: “Mara, quando sei a Costazul sei un’altra persona. Va’ là e cerca di scoprire te stessa. Ricordati che ti amo, qualunque cosa succederà.” Possibile che…?
    Non ho idea di cosa Pepita stia pensando del mio silenzio, mentre alcune lacrime le cadono sulla gonna. Le prendo le mani, tremano ancora. Lei solleva la testa e mi guarda con gli occhi congestionati, mordendosi sempre il labbro. La abbraccio, senza avere il coraggio di aprir bocca.
    I nostri margarita restano sul banco. Ho bisogno di stare lontana dalla folla, abbiamo bisogno di stare da sole. Camminiamo abbracciate e in silenzio. So che tocca a me parlare e non so cosa dire. Rivedo la mia vita come in un film e comincio a capire tante cose: da bambina, da adolescente, da ragazza e adesso da donna. La verità è sempre stata sotto ai miei occhi e non l’avevo mai vista. Io no, almeno, ma chi mi ama veramente aveva capito, addirittura prima di me.
    Siamo lontane dal chiringuito, a pochi passi da casa. Mi giro, le accarezzo il viso e i capelli. Prendo coraggio e la bacio. Prima la bocca, poi socchiudo le labbra e le nostre lingue si incontrano. Lei ha il fuoco dentro, ha la passione dei diciotto anni e, soprattutto, di chi ha già capito e accettato la propria sessualità. Io no. Mi sembra di baciare per la prima volta. È come scoprire emozioni che non sapevo riconoscere dentro di me. Ho ventisei anni e mi sento imbranata come una ragazzina. Pepita mi guida in questo viaggio alla scoperta di me stessa; adesso è lei che ha ventisei anni e io ne ho diciotto. Mi sento confusa, eppure le sensazioni al basso ventre mi dicono che… Accidenti al reggiseno rinforzato, adesso vorrei sentire le sue mani calde e ardenti di passione, invece è solo una sensazione così lontana!
    «Pepita.»
    «Tutto bene?»
    «Sì… andiamo in camera, per favore.»
    «Vuoi che smetto?»
    «No… voglio dire: andiamo in camera insieme. Nella stessa camera.»
    Un brivido la percorre. Sorride e le luccicano gli occhi.
    «Solo una cosa,» aggiungo.
    «Dimmi.»
    «Va’ piano. Io…»
    «Ok. Vado piano.»
    «Non in quel senso!» Mi affretto a baciarla una, due volte. «Solo, non chiedermi se ti amo, ecco. Non sono ancora…»
    «Shh! Ho capito.» Mi zittisce con un dito e con le sue labbra. Poi sorride. Io tremo. Mi tira per il braccio e non oppongo resistenza, mentre la porta di casa si chiude alle mie spalle.
  8. .
    Grazie Ginevra.
    Grazie davvero.

    ❤️

    I bimbi crescono e alcuni se ne andranno alla materna, il prossimo anno, e già ci mancano.
    La festa di fine anno porterà tanta ansia, in un periodo già stressante com'è quello della fine dell'anno, ma poi rimarrano tanti bei ricordi ( e le pance vuote che il buffet si svuota sempre mentre cantiamo due canzoni eheheheheheh).
    Noi chiudiamo solo ad agosto... Uff quanto ancora manca.

    Un abbraccio grande grande
  9. .
    Niente riposo, per gli scrittori di SPS.

    La scadenza per inviare i vostri racconti ROSA è il 25 giugno entro le ore 24.00.


    Se avete perplessità sul genere è stata aperta una discussione qui https://scrittoripersempre.forumfree.it/?t=75686120

    Se invece avete altri dubbi, scrivete in coda a questa discussione.

    Grazie a tutti e buona continuazione.

    Ele

    Edited by E©ly - 30/5/2018, 14:17
  10. .
    CITAZIONE (E©ly @ 10/5/2018, 18:40) 
    CITAZIONE (B&S @ 10/5/2018, 18:29) 
    Grande Arianna. Complimenti di ❤️.

    Ma dove l'hai preso quel quore? :blink:

    Buh, mi è venuto fuori dal telefono... ❤️
  11. .
    Grande Arianna. Complimenti di ❤️.
  12. .
    Jennifer guardava il soffitto della sua camera.
    Dalla finestra, la luce fioca della luna si insinuava tra i rami mossi dal forte vento di ottobre e proiettava ombre all’interno della camera da letto. Il rumore era più forte del solito e la giovane ragazza non riusciva proprio a prendere sonno.
    Neanche la tisana era servita a rilassare i suoi nervi tesi: l’esame d’ammissione al college era imminente e l’ultima cosa che lei desiderava era finire in una friggitoria a vendere patatine fritte, costretta a indossare quelle divise color senape corredate di cappellino.
    Guardò per l’ennesima volta la sveglia a led sul comodino, accanto la tazza con l’infuso ormai freddo: segnava le 23:43 e tra poco più di sei ore sarebbe suonata. Si stava innervosendo, quel forte rumore non le consentiva di prendere sonno e lei sarebbe stata uno zombie per tutta la giornata, perdendo lucidità e rallentando, inevitabilmente, il suo ritmo di studio.
    Si costrinse a chiudere gli occhi, infilò la testa sotto al cuscino e cercò di ignorare il vento sibilante, ovattandolo tappandosi le orecchie sotto al guanciale.
    Così alla fine crollò, sfinita, tra le braccia di Morfeo.
    La tisana, nella tazza, disegnava sinistri cerchi concentrici.
    Ma Jennifer non se ne accorse.
    Aprì gli occhi di colpo. Il letto sobbalzava, si muoveva come scosso da qualcuno che lo sollevava e lo faceva ricadere a terra. Istintivamente si aggrappò alle lenzuola che erano fradice: giaceva in un bagno di sudore. Le ombre dei rami sul tetto ora le sembravano più grandi, più vicine.
    “Potrei quasi toccarle”, pensò stupita.
    Ma poi realizzò che non poteva muoversi: le sue gambe erano diventate pesanti, sembravano ancorate a quel letto che non si placava. Il rumore del vento era ormai diventato insopportabile, e Jennifer era impietrita dall’angoscia dell’immobilità.
    La tazza cadde dal comodino, frantumandosi in cocci sparsi per il tappeto madido di tisana.
    Spalancò la bocca, provò a urlare ma non si udì nessun suono. Quello che provava era decisamente nauseabondo: un conato che non riuscì a fermare. Ruotò la testa di novanta gradi e vomitò sul cuscino. Aveva avuto l’intenzione di sporgersi dal letto, ma non riusciva a muoversi, inchiodada a quel letto, ormai galleggiando nel proprio sudore.
    I capelli erano appiccicati alla fronte e il vomito che colava dalla sua guancia destra si mischiava alla lacrima calda che le rigava il viso.
    Rigurgitare le aveva dato sollievo, e il letto si era improvvisamente placato. Era fradicia, le lenzuola erano letteralmente una pozzanghera che puzzava di acido. Allentò la stretta delle mani.
    Il vento si era posato.
    “Dev’essere stato un incubo”, pensò mentre dava un’occhiata alla sveglia sul comodino. Segnava l’1:36.
    Provò ad allungare un braccio nel tentativo di raggiungere l’interruttore dell’abat-jour ma non ci riuscì: era ancora impossibilitata a muoversi, si sentiva come se qualcosa la bloccasse, anche se sapeva di essere da sola nella sua camera da letto.
    Improvvisamente il vento si rialzò e il rumore divenne intenso come poco prima.
    Il letto restò immobile e questo la tranquillizzò.
    Guardava le ombre proiettate sul soffitto, quando sentì qualcosa di viscido muoversi sulla sua guancia destra.
    Le venne naturale cercare di spostarsi, per vedere cosa fosse ciò che si arrampicava sulla sua guancia. Era caldo e grande quanto la circonferenza di un bicchiere, o così le parve.
    Nuovamente provò a urlare, a chiamare i genitori che dormivano nella stanza accanto, ma il suono non usciva, e la bocca spalancata divenne il rifugio di quell’essere che le strisciava addosso.
    Non riusciva a muoversi. Lo sentiva pesante e caldo sulla lingua, strisciare sui denti e sul palato. Il sapore, orrendo, era quello del suo vomito. Allora le balenò il pensiero che quella cosa fosse uscita dalla sua bocca.
    Stava muovendosi sempre più giù, le sfiorava le tonsille e le provocava altri conati che non riuscivano a risalire dato che la creatura sconosciuta otturava ormai la cavità della sua bocca che non si poteva chiudere poichè diventata tana di quello che le sembrava essere un verme.
    Jennifer boccheggiava, provando a respirare dal naso, ma sentiva il muco venir fuori dalle narici e anche che l’aria che passava non era sufficiente a riempirle i polmoni.
    L’animale si muoveva nella sua bocca e le lenzuola erano fradice.
    Le lacrime le rigavano il volto, i suoi pensieri erano fermi come il suo corpo: non riusciva a pensare a nulla, nonostante si sforzasse non era capace di riflettere e trovare una soluzione al suo problema. Poteva solo stringere i pugni nelle lenzuola ma era impossibilitata a fare altri movimenti. Tentava, invano, di sollevare le braccia, le gambe o le spalle, ma era come se qualcosa la tenesse ferma. Le ombre dei rami si dimenavano impetuosamente sul soffitto, il rumore del vento le spaccava i timpani e lei era completamente inerme.
    L’animale si muoveva nella sua bocca e le lenzuola erano fradice.
    Jennifer si stava rassegnando, arrendendosi al suo destino di morte. Faceva piccoli respiri con il naso, l’onda del petto era frenetica, e chiuse gli occhi, per non vedere quegli orribili rami sul soffitto.
    Lasciò la presa delle mani, le forze la stavano abbandonando. Ripensò a sua madre, a suo padre, al college, e realizzò che non avrebbe mai potuto realizzare nessuno dei suoi sogni di diciannovenne. Jennifer morì quella notte, sul suo letto.
    Era morta in un bagno di sudore, di muco e di vomito.
    Dall’uscio, sua madre guardava compiaciuta la scena: “Il college non fa per te, figlia mia, adesso resti in casa qui con me, per sempre”, sussurrò stringendo in mano la teca che conteneva la chiocciola Achatina che avevano trovato il giorno prima in giardino.
    Per terra una fiala di ketamina, precedentemente sciolta nella tisana.
    L’animale si muoveva nella sua bocca e le lenzuola erano fradice.
  13. .
    Amanda guardò confusa l'orologio. Erano le 22,54. Uscì dal vagone della metro e cominciò a salire le scale che l'avrebbero riportata in superficie.
    Quegli spostamenti sotterranei la mettevano sempre a disagio. Il ticchettio dei tacchi sui gradini aumentò notevolmente il suo nervosismo.
    Si voltò, ma ad eccezione delle sue paure, dietro di lei non c'era nessuno.
    Eppure quella spiacevole sensazione di essere osservata non voleva abbandonarla. L'aria novembrina di Milano l'avvolse sul marciapiede esterno col suo sudario d'inquietudine. Si lasciò scappare un gemito che prontamente assunse le sembianze di una nuvola di fumo davanti ai propri occhi. Affrettò il passo. I tacchi degli stivali marroni percuotevano ritmicamente l'asfalto umido.
    Un calore sgradevole le si sprigionò dalle viscere, risalendo sino al petto voluminoso. L'inequivocabile segnale della paura, dell'irrazionale.
    Si voltò nuovamente, con la certezza di vedere una mano assassina protesa verso di lei, ma ancora una volta il suo istinto parve ingannarla.
    Questo fatto invece di rincuorarla sembrò turbarla ancora di più.
    I lampioni ai lati del marciapiede emanavano una luce fioca, quasi spettrale.
    All'improvviso si fermò, rimanendo in ascolto. Un rumore di passi le esplose nella testa. Erano passi pesanti, irregolari, tutt'altro che discreti.
    Amanda comandò al cervello di muovere le gambe, ma gli stivali sembravano essere bloccati in una colata di cemento. Il panico aveva preso possesso della sua centrale di controllo. Mentre realizzava quel pensiero lo vide sbucare in fondo alla strada. Sembrava il personaggio uscito dalla matita di un disegnatore di fumetti. L'uomo era alto, ben piazzato, avvolto in un trasandato cappotto grigio. Anche i capelli, lunghi e disordinati erano grigi. Mano a mano che avanzava inesorabile verso di lei, realizzò che anche la barba sfatta e incolta era dello stesso colore.
    I passi sembravano rimbombare sull'asfalto come colpi di mortaio nel silenzio della città. Quando finalmente se lo trovò di fronte non poté fare altro che guardarlo negli occhi. La paura la stava mangiando viva. Avrebbe
    voluto girare la testa dall'altra parte, ma una forza maligna la obbligava a guardare. Quegli occhi erano due pozzi neri, nei quali era bandita ogni speranza. Erano insistenti, penetranti, quasi volessero stuprarle l'anima.
    Urlò per non impazzire. Insieme alla voce anche le gambe diedero nuovamente segni di vita. Scappò da lui, col sangue ghiaccio per ciò che aveva intravisto in quegli occhi. Corse all'impazzata per un tempo che le sembrò infinito, incurante del cuore che, come un pallone da basket, le rimbalzava su e giù per la cassa toracica.
    Nel frattempo aveva preso a piovere. L'acqua le percuoteva il viso, quasi a volerla spronare ad andare ancore più veloce. Col fiato corto si voltò per controllare, ma dell'uomo dal cappotto grigio non c'era più traccia.
    Amanda pensò di rallentare per riprendere fiato, ma fu solo la fugace idea di un secondo. No, non ci sarebbe cascata. Sapeva che appena si fosse fermata lui sarebbe subito ricomparso dietro di lei per condurla nel regno di dolore in cui regnava.
    Mai fermarsi, quella era la regola incontrovertibile di ogni film dell'orrore degno di quel nome. Ma ogni regola aveva la sua eccezione, soprattutto nella realtà. Non appena tornò a guardare davanti a lei, andò a rimbalzare contro l'energumeno dagli occhi pieni di nulla. Amanda lo implorò di non farle del male. Chi era? Cosa voleva da lei? Nessuna delle sue domande però ricevette una risposta. Quell'uomo, se era veramente un uomo, la guardava senza proferire parola. Allora alzò gli occhi al cielo, nell'ultimo disperato tentativo di ottenere un aiuto soprannaturale, trovando però soltanto scariche di pioggia gelata.
    Senza speranza, con l'animo straziato, abbassò infine gli occhi, specchiandosi nel grigio della strada. La testa incominciava a girarle e sentiva le gambe che stavano cedendo. Prima di perdere conoscenza ebbe solo il tempo di pensare che il grigio era un colore che aveva sempre odiato.
    Si svegliò e si mise seduta sul letto con le gambe incrociate. Era un bagno di sudore e il cuore pompava senza sosta il sangue reso elettrico dalla paura.
    Per fortuna si era trattato soltanto di un bruttissimo sogno. Con un certo sollievo si passò la mano fra i capelli appiccicosi e subito dopo sul viso. Il
    respiro dapprima affannoso cominciò a rilassarsi, riacquistando la solita consistenza leggera. Amanda si guardò attorno, contenta che l'incubo si fosse suicidato al suo risveglio. Poi però, all'improvviso, la respirazione
    ritornò a farsi concitata. L'adrenalina impazzita tornò a saturare nuovamente le sue vene, mentre la mente, imprigionata in quella situazione snervante, cercava una via di fuga, una scappatoia dal delirio e dalla pazzia.
    In quella stanza c'era qualcosa che la metteva a disagio. Cercò nel letto la rassicurante presenza di Paolo, ma alla sua destra c'era soltanto uno spazio vuoto. Per forza! Suo marito era partito per Berlino la sera prima per questioni di lavoro. Arrossì come una bambina per quella stupida dimenticanza, poi corse in bagno e inondò il viso con abbondante acqua gelata. Il sortilegio pareva spezzato, ma quando rientrò in camera da letto tutto sembrò ricominciare da capo. Era come se il panico avesse riavvolto il nastro, riportandola nuovamente al centro del terrore. Poi finalmente capì e riuscì a dare una risposta al suo disagio. I suoi occhi si soffermarono sulla sedia situata accanto al letto, quella dove solitamente appoggiava la sua vestaglia di seta rosa. Il fatto era che ora non c'era la sua vestaglia adagiata su quella maledetta sedia, bensì un lungo cappotto grigio. Cercò di deviare lo sguardo con tutte le sue forze, senza però riuscirci. Quel lurido soprabito era come una calamita per le sue pupille. E la cosa tragica era che più teneva gli occhi incollati e più il cappotto si gonfiava, fino a quando si ritrovò ad accogliere il suo legittimo possessore.
    L'essere del sogno, o per meglio dire dell'incubo, si materializzò nella sua stanza, davanti alla sua incredulità.
    Mentre la osservava con quegli occhi fatti di nulla, si toccò la barba grigia, poi le regalò un sorriso fatto di denti marci.
    Completamente inerme e svuotata, Amanda riuscì a sussurrare la solita domanda, col poco fiato che le era rimasto nei polmoni.
    «Che cosa vuoi da me?»
    Lui la guardò stupito, mentre le sue iridi cominciavano a ruotare come dei vortici. Poi finalmente parlò, sputando fuori da quella bocca immonda parole oppressive e senza senso.
    «Lo sai che la felicità non è un bene gratuito, vero? C'è sempre un prezzo da pagare tesoro. È la regola e non l'ho inventata io.»
    «Ma di quale prezzo parlate? E voi chi siete?»
    L'uomo la guardò divertito, con un sorriso beffardo stampato sul volto.
    «Ci conosciamo da una vita e ancora non riesci a darmi del tu? Certo che sei strana Amanda.»
    «Cosa state dicendo? Questa è la prima volta che la vedo! E come fa a conoscere il mio nome?»
    L'uomo grigio non riuscì a trattenere una risata raccapricciante, poi, salutando con la mano, varcò la soglia della camera da letto e uscì nel freddo del mattino, sbattendo la porta d'ingresso.
    Amanda arrivò al lavoro visibilmente scossa poco prima di mezzogiorno.
    Da un paio d'anni aveva aperto col marito un grazioso ristorante alle porte di Milano. Lei e Paolo avevano acquistato e poi ristrutturato un vecchio cascinale nella zona di Chiaravalle, anche se, a dire la verità, era solo lei che si occupava della LocandaManda. Paolo infatti preferiva dedicarsi totalmente alla carriera di avvocato nello studio legale di cui era socio, lasciando sulle spalle della moglie l'intera gestione del locale.
    Persino durante la ristrutturazione era stata Amanda a seguire i lavori, e lo stesso era avvenuto per la scelta dell'arredamento e delle forniture.
    Sara, la cameriera storica, le si fece subito incontro.
    «Amanda è successo qualcosa? Sei più bianca di un fantasma.»
    «Non è niente Sara, solo un incubo che mi ha tormentato tutta la notte. Piuttosto, quanti coperti abbiamo per pranzo?»
    «Una trentina, non male per un martedì. E lui chi è?»
    Amanda seguì con terrore lo sguardo di Sara e si fermò sull'uomo posizionato una decina di passi dietro di lei.
    «Ah, quasi mi dimenticavo. Oggi proprio non ci sono con la testa. Lui è Alvaro», disse con un certo sollievo. Chissà perché aveva temuto di trovarsi nuovamente al cospetto del demone dal cappotto grigio.
    L'uomo indossava un giaccone verde stile militare e un paio di jeans sbiaditi che avevano visto giorni migliori.
    «È già passato un mese? Come vola il tempo», sbottò Sara scuotendo incredula la testa.
    Amanda aveva incrociato Alvaro nei pressi della Stazione Centrale e lo aveva subito caricato in auto. Sin da quando aveva aperto la sua trattoria aveva preso l'abitudine di invitare a pranzo un senzatetto almeno una volta al mese. Era un piccolo gesto, ma se tutti l'avessero imitata, Milano probabilmente sarebbe stata una città migliore e più umana.
    «Prepara il solito tavolo Sara», disse Amanda, poi si rivolse al suo ospite.
    «Alvaro, tu ordina pure ciò che vuoi, senza complimenti. Io ti raggiungerò tra poco», è così dicendo si allontanò dai due, con ancora le parole di ringraziamento del barbone che gli danzavano nelle orecchie.
    Scese una larga scala a chiocciola e raggiunse il piano interrato.
    I locali sotterranei erano stati ristrutturati solo per metà. Mentre percorreva lo stretto corridoio Amanda poteva ammirare i muri candidi e il pavimento in cotto. Davanti a lei poteva vedere il suo ufficio, una discreta stanza, accogliente e modernamente arredata. Il corridoio poi svoltava repentinamente a sinistra e in fondo, ai due lati, si stagliavano due porte. Una era metallica e moderna, e celava i locali della dispensa. Anche quel locale era stato ristrutturato e sistemato in maniera impeccabile. L'altra invece, quella che accoglieva la cantina, era anacronistica rispetto al contesto. Si trattava di una porta di legno dipinta con una vernice verde, ma oramai tutta scrostata. Amanda sin dalla prima volta che si era trovata al cospetto di quell'entrata, aveva provato una sensazione allo stesso tempo di attrazione e repulsione. Ancora oggi, a distanza di più di due anni, quando si trovava faccia a faccia con quell'asse fatiscente avvertiva una sorta di brivido lungo la schiena.
    Si fece coraggio, infilò una mano nella tasca dei pantaloni e sfilò la chiave per aprire quell'uscio.
    Una volta dentro l'avvolse il solito odore secolare, un misto di polvere e segreti. Non aveva voluto che la società edile incaricata dei lavori vi apportasse alcuna miglioria. Là dentro tutto doveva essere pressoché immutabile da parecchi anni. Centinaia d'anni. Forse migliaia.
    Le pareti del locale erano in pietra, mentre il pavimento era in terra battuta. Sulla parete destra c'era una rastrelliera per i vini e una sorta di scansia in legno occupata da salumi e formaggi, ovvero le uniche novità imposte da Amanda a quell'ambiente. Il resto dello spazio era occupato da quattro gigantesche botti di rovere ormai in disuso, consumate e impolverate, appollaiate sui loro supporti come sovrani dimenticati di un lontano regno medievale. L'ultima botte era collocata vicino alla parete di sinistra, in prossimità di una piccola nicchia, ma non attaccata al muro come un tempo.
    Amanda ricordava ancora perfettamente il venerdì di due anni prima, quando curiosa si era insinuata in quella nicchia e, per caso, aveva scoperto un passaggio segreto. Per potersi infilare nell'apertura infatti aveva fatto presa con la mano destra sull'ultima pietra dell'arcata della nicchia e con sua estrema sorpresa si era palesata una nuova stanza dietro al muro di pietra.
    Il vano era piccolo e pressoché spoglio. All'interno vi era solo una panca con sopra poggiate delle candele e un inginocchiatoio. Il pavimento era costituito da vecchie assi di legno che scricchiolavano sinistramente sotto i suoi piedi. Mentre avanzava notò che ai piedi dell'inginocchiatoio erano sistemati due libri. Entrambi avevano la copertina nera. Amanda li raccolse e li ispezionò velocemente. Tutti e due erano scritti in latino. Con una certa dose d'intuito e grazie soprattutto ai ricordi degli studi classici, capì che si trattava di un messale e di uno strano ricettario alquanto macabro.
    Poi, improvvisamente, come spinta da un impulso irrefrenabile, aveva spinto l'inginocchiatoio da una parte. Sull'asse di legno, dove prima era posizionata la base anteriore di quello strano elemento d'arredo, era incisa una feritoia larga un paio di centimetri e lunga quasi come l'intera asse.
    Avvicinato il viso a quell'apertura non fu in grado di vedere nulla. Si avvicinò allora alla panca dove erano posizionate le candele. Accanto ad un candelabro c'era anche una scatoletta di fiammiferi. Amanda ne estrasse uno e accese una candela, poi si portò nuovamente davanti alla feritoia. Anche la luce diretta della candela però impediva di vedere se dentro ci fosse stato qualcosa. Se voleva soddisfare la propria curiosità restava solo una cosa da fare. Dopo aver sistemato il candelabro al lato dell'asse sfregiata inserì una
    mano nella fessura e tirò con tutte le sue forze.
    Il pezzo di legno scivolò fuori dall'assito quasi senza opporre resistenza e Amanda si ritrovò col culo per terra in una frazione di secondo.
    Col cuore che le batteva in gola si mise in ginocchio e carponi si avvicinò al buco per guardare dentro. Appena avvicinò il viso all'antro misterioso i suoi occhi incontrarono le orbite inespressive di un teschio. Con un urlo agghiacciante stramazzò col sedere per terra, nello stesso punto di prima, per poi indietreggiare meccanicamente sino alla parete in fondo alla stanza. I giorni successivi ispezionò con più calma quella fossa degli orrori, scoprendo che là in fondo, sotto al suo ristorante, giaceva una sconfinata marea bianca di teschi, tibie e femori. Un ossario senza fine di cui nessuno presumibilmente era a conoscenza. E lei promise a se stessa che avrebbe mantenuto il segreto. Aveva paura che se avesse denunciato la scoperta alle autorità si sarebbe trovata costretta a chiudere il ristorante. No, meglio non dire nulla. Non poteva rischiare, il locale era tutta la sua vita.
    Amanda risalì dall'interrato con una bottiglia di Barbera. Raggiunse Alvaro nel momento in cui stava addentando una succosa bistecca. Chiacchierarono amabilmente per una mezz'ora, parlando delle loro vite e di come il mondo si stava inesorabilmente buttando nel cesso.
    «Ho un appuntamento in centro fra un'ora», disse Amanda guardando l'orologio. «Vuoi vedere la cantina prima di rientrare in città?»
    «Con piacere», rispose con entusiasmo Alvaro. «E grazie ancora per la gustosa bistecca.»
    I due scesero di sotto nel momento in cui il ristorante cominciava a riempirsi. Amanda fece vedere all'uomo il suo ufficio e la dispensa, poi lo condusse alla cantina.
    «Guarda se c'è una bottiglia di vino che ti piace», disse Amanda, sottintendendo che se la sarebbe potuta portare via.
    «Amanda, mi gira un po' la testa», fece all'improvviso l'uomo.
    «Forse hai bevuto troppo vino Alvaro. Vieni con me, di qua c'è un letto.»
    La donna lo prese per mano e girarono attorno alla botte situata davanti al passaggio segreto. L'uomo non camminava, si lasciava trascinare.
    Questa volta fece giusto in tempo a far entrare il barbone in quella stanza degli orrori, perché appena varcata la soglia Alvaro stramazzò al suolo privo di conoscenza.
    «Devo avere esagerato con la droga», gracchiò Amanda, concludendo quel pensiero con una risata terrificante.
    Come da prassi, raggiunse l'inginocchiatoio e iniziò a recitare la solita cantilena in latino. Poi, quando ebbe finito il rituale, prese il ricettario con la copertina nera. Oramai aveva provato una ventina di ricette gustose, e tutte erano piaciute parecchio ai suoi affezionati clienti.
    La serata particolare del quindici del mese era diventata rinomata nella zona di Milano; difatti gli ultimi appuntamenti col menù speciale erano stati un successone.
    Nel frattempo Amanda continuava a sfogliare il libretto, indecisa sul da farsi, poi si illuminò in volto.
    «Ecco qualcosa di sfizioso! Polenta con bocconcini di carne e tartufo! Hai sentito Alvaro?», disse rivolta all'uomo ancora in stato d'incoscienza.«Il tartufo è la morte tua.»
    Mentre usciva dal suo piccolo tempio, per poi ritornarvi con in mano una mannaia e con addosso una tuta protettiva , pensava che avrebbe dovuto aumentare le sue scorte di carne.
    Un solo sacrifico al mese oramai non era più sufficiente.
    Poi si chinò sul povero Alvaro e iniziò a macellarlo. La mannaia si alzava e si abbatteva su quel corpo con decisione, descrivendo movimenti rapidi e netti. Il sangue fuoriusciva copioso, voglioso di impregnare il legno marcio del pavimento, ansioso di congiungersi infine col bianco spento delle ossa che dormivano a pochi centimetri sotto di lui. Nella sua irruenza e ingenuità, sperava in un ultimo disperato tentativo di colorarle nuovamente con la vita.
    A lavoro finito Amanda si liberò della tuta insanguinata e ritornò in superficie. Salutò Sara, dicendole che riaccompagna Alvaro in centro, mentre in realtà si diresse verso casa. Si sentiva felice, ma esausta. Aveva solo voglia di farsi una doccia, di lavarsi il corpo e l'anima.
    Si spogliò in camera da letto, poi raggiunse il bagno. Appena aprì la paratia
    in plexiglass della doccia lo vide là, rannicchiato come un mostro in agguato. Inizialmente urlò con tutto il fiato che aveva in gola, poi lentamente, come i frammenti di un sogno al risveglio, tutto le tornò alla mente. Paolo che la sera precedente, per uno sgradevole scherzo del destino, le aveva chiesto il cellulare per fare una telefonata, visto che il suo personale non dava segni di vita e quello del lavoro lo aveva dimenticato allo studio.
    Paolo che era solito farsi i cazzi propri, mentre quella sera, con lei che era in cucina a lavare i piatti, si era dilettato a vedere le sue foto, anche quelle della cartella scarpe, dove invece di sandali e stivali erano conservate le foto dei clochards che aveva massacrato nel corso di quei ventiquattro mesi.
    Allora aveva fatto il geloso e aveva chiesto una spiegazione e lei gliela aveva data. Gli aveva detto la verità, perché lo amava. Gli aveva confidato il suo segreto e anche qualcosa di più, qualcosa di intimo che non aveva mai osato confessare a nessuno. Lui però non aveva capito, l'aveva giudicata e aveva minacciato di denunciarla. A quel punto lei aveva fatto l'unica cosa che poteva fare, aveva preso un coltello e gli aveva spaccato il cuore, come lui aveva appena fatto con lei, poi lo aveva trasportato nella doccia e lo aveva lasciato sul piatto a dissanguarsi. E adesso lui era ancora lì, acquattato nella doccia, con una lama piantata nel petto, nel suo migliore vestito blu per un viaggio a Berlino che non avrebbe mai fatto.
    Accantonò l'idea della doccia, si rivestì e indossò il soprabito. Prima di uscire si guardò allo specchio. Non era l'immagine di una donna quella che il vetro rifletteva, bensì quella dell'uomo grigio.
    «Ora ti ricordi di me Amanda?»
    «Si, mi ricordo.»
    «Ti ricordi anche quanti anni avevi?»
    «Sedici.»
    «Già, sedici anni. Carne soda. Anche adesso però ti difendi bene.»
    «Ero poco più di una bambina, stronzo.»
    «Mi sono sempre piaciute le bambine. E poi eri tu che mi ronzavi attorno. Non è così?»
    «Ero affascinata, ma questo non vuol dire che desideravo farmi violentare
    da te Marcel. Mi piaceva stare a vedere quello che dipingevi. Eri bravo.»
    «Sì, ci ho sempre saputo fare col pennello. In tutti i sensi.»
    «Mi fai schifo, hai rubato la mia fiducia e hai approfittato di me.»
    «Cosa ti aspettavi da un maledetto vagabondo come me? Nella strada non ci sono regole, se vuoi giocare devi essere pronta a farti male. Come ti ho detto c'è sempre un prezzo da pagare.»
    «Vaffanculo Marcel, è meglio che vada.»
    «Lo credo anch'io. La polizia sarà qui a momenti. A proposito, bel cappotto. Mi piace il grigio.»
    Amanda fece il dito medio allo specchio e si ascoltò ridere nell'istante in cui usciva di casa. Mentre partiva con la macchina verso una destinazione che ancora non immaginava, le sembrò di sentire il rumore delle sirene in lontananza.
  14. .
    Complimenti a buc e a tutti tutti tutti :).
  15. .
    Gli scofanatori sono ovunque, si camuffano e sembrano come noi, ma non lo sono. Loro masticano sempre.

    Grazie aut, mi hai fatto ridere e pensare a tutte le feste di natale e fine anno dell'asilo dove lavoro, durante le quali il buffet magicamente sparisce nel giro di una canzoncina coi bimbi, ahahahahahah.

    Ele
146 replies since 30/12/2011
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