Scrittori per sempre

Votes taken by mangal

  1. .
    ciao.
    scrivo per ringraziare tutti coloro che hanno votato questo racconto, dandomi il primo posto in classifica in maniera assolutamente inattesa.
    sono sincero, a me piaceva. però ne ho scritto molti altri che mi piacevano e non sono piaciuti a voi.
    evidentemente non sono riuscito, in quelle occasioni, a rendere fruibile agli altri il pensiero che attraversava la storia.
    cosa che probabilmente mi è invece riuscita qui.
    tutto sommato, il succo è semplice da estrarre.
    si pensa sempre al nemico come al male, e magari lo è davvero, come qui, visto che siamo in dittatura.
    però ben difficilmente si pensa che anche tra chi questo male lo combatte (i resitenti, qua, la resistenza in generale, ovunque) si possono trovare personaggi come Ernesto, che abusano del ruolo per avere profitto personale.
    ho voluto mostrarlo, renderlo palese. forse ho usato un modo un po' crudo, ma almeno ha colpito.

    nel ringraziarvi di nuovo, vi dico che mi è venuta davvero l'idea di costruirci intorno qualcosa di più.
    vedremo
  2. .
    bene, abbiamo terminato la prima fase, ossia lettura e commento.
    ora dateci un giorno o due per le apposite verifiche e poi passeremo al voto, proclamando il FLASH natalizio 2019.
    abbiate pazienza ancora qualche ora.
    a presto

    lo staff
  3. .
    CITAZIONE (Fante Scelto @ 7/12/2019, 18:02) 
    Soddisfatto della lettura!

    beh, fante, sono soddisfatto di averti soddisfatto :D
    non è semplice, e il saperlo mi inorgoglisce un po'
  4. .
    partiamo dalle cose negative, così finiamo positivamente.
    intanto è da rivedere del tutto la formattazione del testo, punteggiatura compresa.
    tieni presente che prima di virgola, punto, due punti e punto e virgola non va mai lo spazio. va dopo.
    ci sono anche alcune ripetizioni di troppo.
    poi, se usi i caporali, devi farlo correttamente. sono questi « » e non << >>.
    insomma, una bella revisione non guasterebbe.
    passiamo alle note liete.
    intanto è una bella, per quanto triste, storia.
    argomento trito e ritrito, ma qui ben trattato, con un punto di vista femminile colmo d'amore.
    azzeccato l'excipit, che si lega perfettamente alla storia, anche se hai cambiato da maschile a femminile.
    buone le descrizioni, anche quelle emotive.
    insomma, mi piacerebbe leggere altro di tuo, davvero
  5. .
    il racconto è scritto benissimo, su questo non ci sono dubbi.
    ora provo a dare la mia opinione.
    premesso che una persona che fa delle stragi altrui una forma di cultura personale non è certo da me apprezzabile, posso dire che il personaggio è ben descritto e caratterizzato, anche se a tratti sfuma parecchio.
    insomma, pur se ben presentato, rimane nella penombra, o nella nebbia, per intenderci.
    definirlo homo sapio mi pare una esagerazione, o forse non ne ho capito per niente il senso (e ci sta, perbacco se ci sta).
    per il resto, non ho trovato refusi o errori particolari, è scritto davvero splendidamente.
    ottimo l'aggancio dell'excipit alla storia, cui si adegua alla perfezione.
    ripeto, ciò che mi pare esagerata è l'esaltazione della figura protagonista, quasi fosse un nuovo salvatore o quacosa di simile.
    rileggendo la storia, mi ha dato invece l'impressione di un pazzoide.
    ciò nulla toglie alla grande prova dell'autore, perbacco.
    stracomplimenti, fante.
  6. .
    CITAZIONE (Achillu @ 28/11/2019, 13:46) 
    Ciao Mangal.

    La storia distopica è ben congegnata. Nulla da dire su grammatica e sintassi, per lo meno nulla di evidente. L'excipit si raggiunge in modo perfetto. Resta solo un dubbio: perché Daniela vuol portare fuori solo la mamma e non vuole uscire anche lei? Mi fa desiderare di leggere un eventuale seguito.

    Grazie e alla prossima.

    uhm... vado a supporre che voglia darsi da fare tra i resistenti
    però non ne ho la certezza, devo chiederglielo
  7. .
    Accendiamo? Sì, dai, accendiamo!
    Flash di Natale, luci per tutti i gusti.
    Ci abbiamo messo un pochino, ma alla fine ci siamo riusciti ed ecco qui i racconti che le vostre fantasie hanno elaborato. Ripeto, ce n’è per tutti i gusti.
    Una soddisfazione particolare è dovuta alla presenza di svariate new entry, alle quali facciamo un augurio in più rispetto a tutti gli altri.
    La formula presentata è abbastanza anomala, visto che si parte dalla fine, però le adesioni non sono mancate e non è detto che non si ripeta l’esperienza.
    Per adesso godiamoci questa, tenendo presente che c’è tempo fino a tutto il 15 dicembre per leggere e commentare; naturalmente, per i commenti si dovranno seguire le norme indicate (https://scrittoripersempre.forumfree.it/?t=77023043); in seguito ci saranno le votazioni, che verranno comunque annunciate a tempo debito.
    Buona lettura e buon divertimento a tutti quanti: illuminatevi con i vostri FLASH!

    Lo STAFFFFFFFFFF :ouch_ow_oh_ah_geez.gif: :ouch_ow_oh_ah_geez.gif: :ouch_ow_oh_ah_geez.gif:

    Edited by mangal - 25/11/2019, 21:00
  8. .
    “Tic tac, tic tac, tic tac”. Quel ticchettio era inesauribile, inspiegabile, agghiacciante ma attraente al tempo stesso. Fred saliva le vecchie scale della torre medievale sempre più in fretta, sempre più con il cuore in gola, con un solo obiettivo in testa: scoprire che cosa fosse.
    Le scale erano vecchissime, piene di ragnatele, scarafaggi, e altre strane…creature, probabilmente insetti, ma mai visti primi, e ogni due o tre passi emettevano uno scricchiolio che non lasciava presagire niente di buono.
    L’aria era scura, le poche finestre tutte appannate, o sporche, la luce entrava a stento, e si avvicinava l’ora del crepuscolo. Fred accese la piccola torcia che aveva nello zaino, e continuò ad avanzare. Non era esattamente paura l’emozione che percepiva: c’era un misto di curiosità, timore, speranza, fiducia. Quest’ultima probabilmente infondata, come gli avrebbe ribadito il suo amico Michele se fosse stato lì: “Scusa, ma come fai a dare credito ad una tipa, mezza zingara e mezza fattucchiera che ti ha estorto dieci euro per leggerti le carte e poi ti ha detto che avresti dovuto salire sulla vecchia torre, ma dai…?!”
    Ma Fred aveva seguito il suo istinto, quello stesso per anni lasciato marcire in cantina, quello stesso che negli ultimi tre mesi lo aveva “costretto” a mettere sotto sopra tutta la sua vita, a rovistare tra i ricordi, spesso dolorosi, ad affrontare le relazioni attuali, spesso bloccate, e tentare di spiccare il volo. Forse la torre aveva un nesso con quel volo? Forse dalla sua sommità, dove da sempre nidificano le rondini, avrebbe potuto idealmente lanciarsi verso una nuova vita?
    Mentre questi pensieri affollavano la sua mente si accorse che i gradini erano terminati. Davanti a lui si apriva un piccolissimo pianerottolo, capace di contenere al massimo tre o quattro persone, e alla sua destra una porticina, malmessa, tutta sgangherata e polverosa. Fred girò la manopola, ma la porta non si apriva, evidentemente era chiusa a chiave. Osservando l’ambiente vide un chiodo arrugginito da cui pendeva uno spago quasi trasparente, tanto era vecchio, con una chiave penzolante alla sua estremità. Strappò la chiave, la infilò nella serratura e si trovò in una grande stanza, piena di oggetti, piena di storia, ma la storia di chi? Tavoli, sedie, quadri, tende, lampadari, tappeti: gli sembrava di essere finito in un buco spazio temporale che lo avesse proiettato in un’altra epoca. La luce penetrava, timidamente, da un paio di finestre, con gli scuri non del tutto serrati, mentre lentamente il fascio della torcia di Fred provava ad illuminare gli oggetti.
    Ad un certo punto la sua attenzione fu catturata da un riflesso: davanti a lui spiccava, poggiato alla parete più grande della sala, uno specchio. Era molto grande, sarà stato alto almeno tre metri e largo almeno la metà. Prima di avvicinarcisi aprì un po’ di più gli scuri di uno dei due finestroni, per vedere meglio, e poi ci si pose davanti.
    Attese alcuni attimi, sentiva solo il rumore del proprio respiro, inaspettatamente era cessato ogni cigolio, nessun rumore, un silenzio quasi irreale. Ed era scomparso anche il battito, quel battito che lo aveva condotto fin lì. Guardò meglio e nello specchio vedeva molto bene se stesso: i capelli grigi, la barba curata, le sopracciglia che non erano stranamente mai invecchiate. E poi le scarpe da tennis, i jeans, e il giubbotto leggero su cui cadeva un’estremità del foulard. Poi, all’improvviso, qualcosa sembrò muoversi. Si stropicciò gli occhi, un po’ incredulo, ma c’era una leggera nebbiolina nello specchio, una nebbia particolare, quasi di color azzurro. Fred roteò gli occhi per guardarsi intorno, ma non c’era traccia di nebbia, quella foschia era solo nello specchio.
    Si diede un pizzicotto, per capire se stesse dormendo, ma era ben sveglio. Iniziò ad osservare meglio lo specchio, perché al di là della nebbia sembrava animarsi qualcosa. Vide allora un neonato, prima piangere, poi ridere, tra le braccia di una donna, poi dentro una culla, infine in un grande letto coperto con un panno di quelli che non si usano più. Quel volto era familiare, quelle scene erano familiari, e non ci mise molto a comprendere che erano scene della sua vita. Nell’istante esatto in cui realizzò questa certezza, in cui cuore e mente si unirono in un’emozione indicibile, il ticchettio ricominciò, molto più intenso di prima, sempre con la stessa tempistica: “Tic, tac, tic, tac, tic, tac”.
    “Com’è possibile?”, pensò tra sé, anzi, non lo pensò, lo disse, muovendo le labbra. Ma mentre lo diceva il suo sguardo era irresistibilmente attratto, come una calamita, da quello specchio e dalle scene che “stava proiettando”. E vide sorridendo se stesso che gattonava per le stanze della casa, e due braccia che lo sorreggevano. E ancora contemplò estasiato il volto di sua madre, il suo sorriso, quelle gambe altissime, che da piccolo gli sembravano infinite, e quelle scarpe che indossava, sempre con il tacco, anche in casa.
    Di che cosa si trattasse esattamente Fred non riusciva davvero a capirlo, ma la cosa gli piaceva, tanto che decise di sedersi per terra. Intanto la vita, la sua vita, scorreva velocemente davanti ai suoi occhi, e la cosa buffa è che riusciva a vedere soltanto i momenti di felicità e di gioia, quasi che quelli più duri, quelli dolorosi, li avesse già affrontati altrove. Ed ecco momenti della sua adolescenza, le prime cotte, la discoteca, i viaggi, le speranze. E poi lo specchio si popolò di nuove figure, altri bambini, di nuovo piccoli e poi sempre più grandi: sì erano proprio i suoi figli, e nello specchio ora viveva la sua esperienza di padre. Fred era commosso, ed aveva quasi smesso di fare caso al ticchettio che, imperterrito, riempiva ormai tutta la stanza. Ma ad un certo punto le immagini si fermarono. Fu come se la pellicola avesse incappato in un fermo immagine, dove c’era lui con i suoi ragazzi. Fu a quel punto che il rumore destò nuovamente la sua attenzione, quasi un ritorno alla realtà, dopo l’immersione in quel turbinio di emozioni e di scene già vissute.
    Si alzò e cercò di capire da dove provenisse quel suono. Ad un certo punto scorse all’altra estremità della stanza un orologio a pendolo. Era molto alto, più di lui, e con sua grande sorpresa, era in funzione e segnava anche l’ora esatta. Gli si avvicinò, e con una mano provò a togliere un po’ di polvere al quadrante. Nella parte sottostante l’orologio notò un’altra serratura. Memore della porta osservò il muro lì vicino, a destra e a sinistra e intravide un’altra cordicella di spago ed un’altra chiave. Staccò anch’essa e la inserì nella serratura. Lentamente aprì lo sportello. Appena girata la chiave nella fessura il battito cessò e nella penombra udì una voce che gli diceva: “Buonasera Fred”. L’uomo fece un balzo all’indietro, istintivamente. Poi con un bel respirò provò ad avvicinarsi nuovamente, allungando il viso davanti al corpo. “Non avere paura”, ripeté la voce, “Non voglio farti del male”.
    “Chi sei tu? E dove sono capitato? Anzi che cosa mi sta accadendo?” chiese Fred a colui che ancora non aveva potuto vedere. “Quante domande, calma, c’è un tempo per ogni cosa, intanto fammi uscire da qui”. Ed ecco che un omettino, poco più alto di un metro e trenta, prima con un piede e poi con l’altro, uscì dal pendolo. Cominciò a scuotere le gambe, i piedi, a togliersi dalle braccia e dal corpo chili di polvere, a dimenare la testa e a pulirsi i capelli, che, se erano sembrati bianchi ad una prima impressione, apparvero dopo pochi istanti, neri come la pece.
    “Davvero non hai ancora capito?. “No, non ho capito niente”. “Niente accade per caso, c’è un destino per ognuno di noi, io almeno lo chiamo così, altri lo chiamano diversamente. E’ il destino di felicità che le stelle hanno scritto per noi, sarebbe sufficiente seguirlo, ed abbiamo una bussola fantastica, il nostro cuore. Ma spesso, troppo spesso, lo dimentichiamo, e quindi perdiamo la strada. Tutto qua. Tu hai capito già da un po’ di tempo di averla ritrovata e hai capito come si fa ad ascoltare il cuore, finalmente. Oggi hai incontrato la zingara, non era lì per caso, sei salito fin quassù, ed anche questo era scritto da qualche parte. E quindi qualcosa deve ancora succedere. Quella che hai visto scorrere nello specchio era la tua vita, anzi, i momenti di felicità della tua vita. Belli vero? E quanti, non dimenticarli, mai!”
    Fred era incredulo, con la bocca aperta. Sapeva di essere sveglio ma non riusciva a credere a quello che gli stava accadendo. “Ma tu chi sei, esattamente?”, domandò all’ometto, con un’aria un po’ sbigottita, tra la curiosità e l’inquietudine. “Io sono il ricordo di qualcosa”, rispose lo strano ometto, che, mentre parlava, si posizionò in un punto della stanza dove la luce illuminava più chiaramente, e, fuori dalla penombra, si mostrò in tutte le sue fattezze: una giacca sgualcita, un papillon blu come la notte più profonda, un panciotto stile anni ’30, dei pantaloni pieni di polvere e di muffa, e due scarponi che pareva aver rubato ad un clown del circo. Ed uno strano, ineffabile, profondo sorriso spalancato sulle labbra.
    “Ehi, ma mi comprendi? Forse non parli la mia lingua? Ti ho detto che sono il ricordo di qualcosa!”, ribatté l’ometto, con un tono ben più deciso. “Sì, sì, ho capito, o almeno credo”, rispose a quel punto con un balbettio appena percepibile Fred. “Ma scusami, puoi essere più chiaro: di quale ricordo si tratta?” aggiunse, ricordando il suo coraggio che raramente lo aveva abbandonato. “Ah allora ci sei, finalmente, pensavo che tu avessi fatto tutta questa faticaccia per niente. Sì, sono il ricordo di un amore, di un amore sospeso, di un amore antico, di un amore che hai dimenticato, o forse lo hai creduto, e se sei qui significa che sei pronto a ricordarlo, e, forse, anche ad accogliere le conseguenze di tutto ciò!”, “Va bene ho capito, so di avere perso tanti ricordi e tanta felicità, ma che cosa posso fare per imparare e soprattutto c’è qualcosa che posso fare?”
    Il folletto tacque per un attimo e Fred decise di avvicinarsi, fece un passo avanti e strinse forte la mano del suo interlocutore. Una scossa fortissima lo attraversò completamente, dalla punta dei piedi all’ultimo capello, gli interruppe il respiro e svenne, cadendo a terra.
    Si svegliò di soprassalto e quasi in automatico, prese il telecomando e accese la tv per vedere se ci fossero nelle novità nel mondo, e, inaspettatamente, vide spuntare dallo schermo non il viso di un noto anchorman ma quello del folletto che gli si rivolse così: ‒ Sì, puoi. Non tutto in un attimo, ma puoi accendere una luce, piantare un seme, spezzare la catena in un punto. Qualcun altro vedrà la tua luce, qualcun altro coltiverà il tuo seme, coglierà il frutto, pianterà un nuovo seme. Anche quando nessuno si ricorderà più di te e il tuo nome sarà stato spazzato via dai millenni. Certo, avrai bisogno di un sacco di aiuto. Dovrai darti da fare, per trovarlo. ‒ Ma tu non ci sarai…‒ Il mio tempo qui è finito. Ora inizia la tua storia.

    Edited by mangal - 15/12/2019, 11:06
  9. .
    CITAZIONE (frase @ 17/11/2019, 18:54) 
    LAPIDE DI AIDA
    Quando ho visto tutta questa acqua
    ho pensato a quanto fosse piccolo il mio villaggio.
    Quando ho chiuso gli occhi dentro tutta questa acqua
    ho pensato a quanto fosse bello il mio villaggio.

    colpisce, eh
  10. .
    biglietto-di-auguri-per-il-compleanno-felice-con-il-mazzo-dei-bucaneve-86127158
  11. .
    Sogno spesso Bruna che spicca il volo dalla finestra del sesto piano.
    Mi guarda sorridendo, allarga le braccia e si lascia cadere nel vuoto, mandandomi un bacio con la mano aperta.
    Oppure la sogno che mi guarda ormai esangue, appesa ad un ramo robusto del platano del nostro giardino, mentre nostra figlia gioca poco distante con le sue bambole, seduta a un tavolino con le amichette.
    A volte confondo sogno e realtà e dimentico in che modo si sia tolta la vita: se caduta dal sesto piano dalla terrazza dell’attico dei suoi genitori, o impiccata a un ramo robusto del platano del nostro giardino, oppure addormenta in un letto di un albergo anonimo del centro, dopo avere ingurgitato troppe pillole… non saprei, il ricordo mi sfugge anche in questo momento.
    So solo che da sei mesi Bruna non è più con me, non è più da nessuna parte, solo nei miei sogni ricorrenti, e che di nostra figlia si occupa mia suocera, finché io non mi sentirò meglio.

    Ricordo confusamente il giorno del suo funerale e i due giorni che l’hanno preceduto: la girandola di gente che entrava e usciva dalla camera ardente, la bara a cui non riuscivo ad avvicinarmi, sua madre, elegante ed efficiente che dirigeva il traffico dei parenti venuti dalla Francia, e suo padre, accasciato su una sedia in un angolo, a cui nessuno faceva caso.
    E le facce di mia madre e delle mie sorelle, dei miei amici e colleghi, tutte mescolate tra loro alternativamente, di cui vedevo i lineamenti, ma non esattamente i contorni.
    E il mio unico pensiero nel cervello: non è vero, non è vero.
    Non è vero niente.

    Ultimamente la sogno inchiodata ad una croce che mi guarda mite senza pronunciare una sola parola, e io non riesco a dire o fare niente, paralizzato di fronte a lei.
    Il mio terapista dice che questo sogno racconta la mia croce, e che sono i miei sensi di colpa che me l’hanno piantata nel cervello, che Bruna ormai non prova più dolore, e che anche io devo imparare a liberarmene se voglio continuare a vivere.
    Forse il terapista ha ragione, forse davvero sono inchiodato a questa croce per non aver saputo accompagnarla in quel tratto di strada, per non aver saputo ascoltare la sua muta disperazione, ottuso e felice per la nascita di Lucilla che cresceva meravigliosa e allegra, tanto cieco da non vedere quanto Bruna si stesse spegnendo, soffocata da mostri orrendi che la stritolavano nel suo nuovo ruolo di madre, e tanto ingenuo da credere che le bastasse cambiare casa per essere felice, e avere quel giardino grazioso, che lei desiderava tanto, dove giocare con la nostra bambina.
    Credevo fosse felice quando la vedevo spingere Lucilla sull’altalena, credevo che il pallore, la stanchezza e la paura sarebbero passate col tempo, svanite d’incanto in una mattina chiara, come la notte al sopraggiungere dell’alba.
    Credevo che il mio amore e quel giardino le sarebbero bastati.
    Se è vero che i miei sensi di colpa mi hanno conficcato questa croce nel cervello, tanto meglio, me lo merito: non voglio stare bene.
    Adesso voglio solo stare male.

    La sera vado a letto in ansia, sperando di sognare Bruna ancora una volta, sperando di restare ancora un po’ con lei nei miei sogni angoscianti.
    E’ tutto quello che mi resta di lei e non voglio perderlo.
    Questa notte il sogno è un po’ diverso: c’è una croce enorme di legno chiaro in mezzo al mio giardino, ma Bruna non c’è, non vedo nemmeno il platano. Il giardino è completamente deserto.
    Da un braccio della croce penzola una piccola altalena. Dondola, leggera, spinta dal vento. Un fiore bianco è sbocciato ai suoi piedi, si nutre del mio amore. Mi sono sbagliato. La croce non l’hanno piantata nel mio cervello, ma dritta nel mio cuore.
  12. .
    Ginevra è una ragazza prodigio della mia stessa età, del mio stesso banco, della mia stessa ultima fila.
    Lo specifico perché la classe, dietro, sembra un’altra classe, ognuno cura le sue attività, i suoi interessi , le sue letture. La capacità di gestione di Ginevra mi intimidisce tanto quanto le sue belle ginocchia scoperte, anche se per lei sono soprattutto un ventilatore a pale che mantiene fresco il suo umore.
    Nulla scalfisce la sua sostanza. Non lo so spiegare bene, e chiedo perdono a Dio se sembra una bestemmia: io credo che lei sia un’anima sovrapposta alla mia, una decalcomania che riesce a cristallizzare pensieri e parole e a guidarli. Con lei interpreto ogni forma di compagno di banco, e quando divento troppo espressivo mi bacchetta dicendo: Ci stai provando?
    Il massimo della mia capacità attoriale lo sfoderai il giorno che il professore di italiano dopo aver battuto con forza il pugno destro sulla cattedra, urlò: Chi mormora?
    Una voce sottile e lontana che sembrava non appartenermi e invece mi apparteneva rispose: Il Piave.
    Ero sempre capace di regalare a Ginevra qualcosa di personale e di imprevisto nonostante la mia timidezza. Lei conquistata dalla velocità e originalità della mia battuta rise a squarciagola come tutti gli altri, e diventai il suo eroe.
    Ora, trenta anni dopo quella esibizione umoristica, mentre le piattaforme di ghiaccio si sgretolano, comincio a pensare che il caos caloroso di schiamazzi che seguì in quella piccola e fondamentale aula di scuola di periferia potesse essere stato l’inizio dello scioglimento delle calotte polari o almeno in piccola parte aver contribuito alle mutazioni climatiche.
    Io e Ginevra cominciammo a frequentarci con più continuità e accanimento, anche fuori della scuola, questo è sicuro. I miei amici mi invidiavano, lei era di una bellezza unica.
    Ufficializzata la coppia in famiglia, e terminata la scuola, avevamo affittato un minuscolo e fatiscente monolocale proprio sopra un supermercato. Lei, all’inizio, si vergognava perfino di fare la pipì perché i muri erano di cartongesso e qualsiasi rumore non veniva placcato. C’era un lungo balcone ricco di fiori affacciato sopra la malinconica sequenza dei posteggi vuoti e male illuminati, dopo ogni sigaretta fumata ritornavamo dentro contenti di lasciare alle spalle lo squallore di quella semioscurità penitenziaria , ma con i calzoni sporchi di foglie e di insetti uccisi.
    Non so perché io e Ginevra ci allontanammo, all’improvviso. Forse il nostro rapporto smise di funzionare proprio perché funzionava troppo, o perché pur essendo felice di trovarmi in sua presenza avevo cominciato a sentire il bisogno di altra gente, di altri mondi, e pure per lei, credo, accadeva la stessa cosa.
    Cercai di conservare una mappa per ritrovarla, un minimo contatto. Pur essendo non di rado afflitto da problematiche economiche non le feci mai mancare gli auguri per ogni tipo di festa, accompagnati da un piccolo omaggio: delle rose bianche. Erano le rose bianche i fiori più disciplinati che conoscessi e a quel non colore si poteva affidare ogni sfumatura di sentimento, ogni interpretazione personale. Confesso che da parte sua non arrivò mai un ringraziamento.
    L’elemento più sorprendentemente moderno di questa storia fu una specie di ravvedimento facilitato da Intuizioni mediatiche, che si trasformò ben presto in stravagante riappacificazione pura tra noi due.
    Senza manipolazioni, molto spontaneamente decidemmo di rivederci.
    Lei aveva mantenuto il suo attraente pallore, sembrava un vero giglio della sabbia. Io sulla faccia avevo il riassunto di tutte le mie debolezze, oltre a una esordiente barba grigia poco curata.
    A lei, comunque, continuavo a piacere.
    Disse, sorridendo imbarazzata, che ero diventato come un muro del centro, scrostato nella parte bassa, ma ancora robusto. Poi mi baciò storcendo le labbra a destra e a sinistra, senza sfiorarmi, una smorfia brutta come uno sbadiglio di sonno.
    -Se mi devi baciare baciami davvero, i baci finti lasciamoli ai finti di questo mondo, - dissi.
    - Ma si usa così, - disse.
    Esserci riavvicinati poteva essere la via d’accesso a una serena vecchiaia, anche se ogni tanto la vita in comune somigliava alle scaramucce di due insetti infilati in una bottiglia di vetro, dove hanno poca aria e poca via di uscita. Tutte le volte che cercavo nella sua borsa un paio di occhiali da lettura provavo a tastare velocemente qualche indizio, un ‘suggerimento’, che mi facesse capire quei trenta anni di distanza. Sarebbe stato più facile chiedere, ma non si gioca con il tempo e poteva costarmi caro. E poi il piacere con cui mi osservava mentre cucinavo qualcosa, o lavavo i piatti , o dipingevo i miei sgorbi, l’aveva del tutto riabilitata ai miei occhi.
    Finché un giorno qualunque,vagamente depressa e consapevole della propria sgradevolezza, mi urlò a distanza dentistica: Non abbiamo un soldo neppure per il funerale.
    Non avevamo mai dato importanza al denaro, e io rimasi di stucco, ferocemente mortificato.
    - Se ci prende un colpo qualcuno ci seppellirà, - risposi.
    - Mannaggia a te e alle tue maledette mani bucate.
    - Abbiamo comprato l’automobile da poco e in contanti, - risposi.
    - Due anni fa, l’abbiamo comprata, due anni fa.
    - Senti, forse è meglio stare per un po’ lontani, ti sento stufa.
    - Questo lo dicono le coppie che si separano, ma tranquillo ho il ‘risultato’, tra un po’ ti saluto e me ne vado all’altro mondo.
    La sua finta serenità sommata al suo cinismo mi fece paura.
    - Non scherzare, che ‘risultato’? - Chiesi con tono mansueto.
    - E chi scherza, chi scherza, ciccio mio.- Rispose.
    Lacrime enormi, indimenticabili, sbatterono sui suoi zigomi, presero velocità e atterrarono sul pavimento con il fragore di una fontana del centro storico.
    - Be’ i tuoi amici almeno smetteranno di invidiarti adesso che sono vecchia, grassa, e pure malata.
    - Non smetteranno.
    Che poi di amici ne avevamo davvero pochi, perché il ‘mucchio’ fa sembrare la merce scadente e noi non siamo scadenti, diceva.
    - Mi abbracci?- Non così forte, mi fai male.
    - Hai tenuto tutto nascosto, perché?
    - Non volevo essere straziante, non ho voluto mai essere straziante.
    - Tu sei matta, amore mio.
    - Sì, sono matta, fammi ridere un po’, dai! - Fammi la faccia del mostro che mi fai sempre in
    ascensore, anche quando non siamo soli.
    - Non mi viene.
    - E questa cos’è?
    Con amarezza ride. Rido.
    - Ce la faremo, Ginevra.
    - Ce? Farai la chemio pure tu per solidarietà?
    - No, meglio di no.
    - Ma che risposta. -Ti sei offeso? - mi fa molto piacere quel ‘ce’ collettivo. - Giuro, - mi fa tanto piacere. - Il mondo va così. - All’improvviso tutto si rovescia e tutto appare come una stupida perdita di tempo. - La prevenzione, la prevenzione. -Tutti gli anni ho fatto la mammografia ed è servito a nulla, come è servito a nulla correre quella stupida gara che non sta immunizzando te dal dolore e me dalla malattia. - Tu correvi per cinque chilometri mentre il mio corpo veniva fatto a pezzi dalla malattia, farcito di mine antidonna, da metastasi.- Ma ti pare giusto? - Mi piazzavo sempre all’arrivo per vedere le magliette rosa che tagliavano il traguardo sorridenti, mano nella mano, osservando con gratitudine il pubblico che applaudiva, il cielo che esisteva ancora, le nuvole che esistevano ancora. - Gli uccellacci che volavano sopra le nostre teste sembravano rondini . - Non erano rondini!
    - E ora chi aiuta me? - che non so dove sbattere la testa? - che non so dove guardare? - Mi mettevo vicino alle bottiglie di minerale e le passavo, le passavo a tutti: a uomini giovani, a uomini vecchi, a bambini, a donne operate, a donne non operate.- Mi mettevo lì per avere l’arrivo più vicino. - Ora l’arrivo ce l’ho dentro, a portata di mano, a portata di mano, a portata, di, mano.
    - Amore mio.
    - Piantala di chiamarmi amore, stavi per lasciarmi, disgraziato.
    - Ma quando?
    - Quindici minuti fa.
    - Non lo dire nemmeno per scherzo, e se ti succede qualcosa, io ti vengo dietro, giuro.
    - Come ai bei tempi? come ai tempi di scuola? - Non posso svignarmela, ma tu non ti azzardare nemmeno a pensarlo o ti uccido con le mie mani, o pensi di averla solo tu la forza? - ce l’ho pure io, anche se non vado in palestra. -Ti uccido Perdio, se solo la pensi quella cosa!

    Ho mantenuto l’auto grande, e guido piano, come se avessi tanta gente da trasportare, un trucco per sentirmi meno solo. Ginevra non c’è più, è morta da qualche mese. Il sogno si ripete quasi tutte le notti:
    Da un braccio della croce penzola una piccola altalena. Dondola, leggera, spinta dal vento. Un fiore bianco è sbocciato ai suoi piedi, si nutre del mio amore. Mi sono sbagliato. La croce non l’hanno piantata nel mio cervello, ma dritta nel mio cuore.


    Edited by mangal - 11/11/2019, 11:25
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    stesso posto, achillu?
    sempre polmoni sviluppati?
    :tisupplico.gif:
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    buon-comleanno-stefania-05
513 replies since 30/12/2011
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