Ortensie

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    Dio della penna

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    Io la falena e tu l’ortensia. Di giorno, io nascosta nell’ombra, guardandoti vivere, mentre profumavi l’aria di sogni, sempre lì a discorrere con il sole, di quanto semplice e accogliente potesse essere la vita. Ma era la notte il nostro tempo. Tu non lo sai, non potevi saperlo. Tu dormivi in un’oscurità profonda e io mi rifugiavo leggera tra i tuoi petali. E loro s’agitavano, senza vento e allora io annusavo l’aria che muovevi. Annusavo i tuoi incubi, che scordavi al risveglio. Non ho mai potuto capirli, non ho mai osato chiedere. Quella del mattino non era rugiada, era il tuo pianto che asciugavi nella carezza dell’estate, era il ricordo delle tue paure che io mi bevevo per non dimenticarmene. E poi te ne parlavo, almeno ci provavo, ti dicevo fermati, ascolta questa voce che hai dentro e che chiede aiuto, ti dicevo che non c’è niente da temere, ognuno di noi ha la propria tenebra. Ma tu eri troppo impegnato a farti bello con il sole. Nemmeno mi rispondevi. O se lo facevi, mi invitavi a lasciare stare, sostenevi che erano tutte fantasie, che tu eri solo e soltanto quello che mostravi, che essendo io figlia dell’oscurità, ero troppo ossessionata dalle ombre per accettare il fatto che alcune creature ne fossero prive.
    Alcune notti erano senza incubi, ma io li vedevo ugualmente, adombravano le stelle, percuotevano l’anima. Ogni tanto c’era la luna, sembrava disposta ad ascoltare. E allora io gridavo, gridavo forte, piena di disperazione. Ma quanto rumore può fare mai una falena. Smettevo di urlare, ma ero troppo sottile per contenere tutta quella rabbia. La spingevo in basso, la comprimevo, fino a farla divenire il fulcro della mia essenza. E alla fine la liberavo, in un sol colpo, elettrica, incontrollabile. La sentivo pulsare nel petto, fremere nelle ali e mi alzavo in un volo furioso. Miravo alla luna, ma mai riuscivo a raggiungerla. Volavo in alto per poi svenire e precipitare. Sognavo i tuoi petali, ma sono sempre caduta sull’asfalto.

    Non l’ho mai detto a nessuno, ma le ortensie sono il mio fiore preferito. Non so cosa significhino per il resto dell’umanità, per me sono un simbolo di rabbia e resilienza.
    Giocavo in cortile, con il pallone di cuoio, da bravo maschiaccio quale ero a quell’età. Mi ricordo che era mattina, probabilmente un sabato, visto che non ero a scuola e non era estate. A separare il mio cortile di cemento dal giardino della vicina, c’era solo un muretto troppo basso. Io ci sono sempre stata attenta, ma la palla inevitabilmente finiva dall’altra parte. Di solito scavalcavo e recuperavo, non c’erano conseguenze. Ma ora il giardino era in fiore e il pallone aveva infastidito le ortensie una volta di troppo. Sequestrato da un’irremovibile vicina canaglia, che mi aveva pure sgridato più del dovuto. Ho trattenuto le lacrime, solo fino a quando è arrivato mio padre. Mancava da casa da un po’, aveva problemi di salute e quel giorno tornava da un ricovero in ospedale. Gli sono saltata al collo e le lacrime hanno iniziato a scendere. Non siamo neppure saliti in casa, mi ha chiesto subito cosa fosse successo e io gliel’ho raccontato. Ora, da adulta, vedo la cosa sotto una luce diversa, ma quello era il mio pallone di cuoio, lo avevo desiderato così tanto, per lui avevo messo da parte ogni centesimo di ogni Sant’Apollonia, praticamente mi era costato tutti i miei denti da latte. E poi senza il mio papà mi sentivo indifesa, sapevo che sarebbe tornato quella mattina, ma in quel momento non c’era, mi mancava e la vicina se ne era vigliaccamente approfittata, fottendomi il pallone.
    Babbo non la prese molto bene, anche perché la semplice richiesta di restituzione non andò a buon fine. Discussero animatamente, insultandosi anche in maniera pesante, iniziavo a capire che il pallone era solo un pretesto. Poi la rabbia divenne così forte da non lasciare posto neppure alle parole. Mio padre recuperò un bastone, un manico di scopa forse, non ricordo e scagliò tutta la sua ira contro le ortensie. Fu un massacro. Guardavo i petali cadere, mi sembrava che avessero perso il loro colore. Loro cadevano e loro morivano e la loro morte era ingiusta. Non li avrei neppure potuti seppellire, perché non si seppelliscono i fiori. Loro cadono e loro muoiono e rimangono lì. Rimasero lì e una parte della mia innocenza rimase lì con loro. Odiavo tutti, perfino le ortensie, non sopportavo che fossero così indifese.
    Le credevo deboli, ma in loro c’era una forza che non potevo immaginare. Era nelle radici, era nel nel tempo, era nell’attesa, nella cura, nella speranza. Passarono i giorni, ne passarono molti, ma le ortensie rifiorirono e fioriscono ancora oggi.
    Crescendo, ho perso gran parte del mio odio istintivo e di quella rabbia feroce che non mi mollava mai. Ormai non mi arrabbio più. Ogni tanto mi prendono i cinque minuti, ma non è la stessa cosa. Non è neppure rassegnazione, credo sia una questione di età, forse la rabbia non è un sentimento per vecchi. O forse, dopo tanti anni passati a combatterla, ci ho preso confidenza e me la sono fatta amica. È lei l’unica in grado di asciugarmi le lacrime in questo mondo straniero e dai troppi occhi. Ho paura a uscire e resto chiusa in me stessa, in compagnia della mia rabbia addomesticata. Fuori da me non funziono, sono sbagliata.
    Ho la faccia sbagliata, il peso sbagliato, l’altezza sbagliata. L’età, la voce, la postura, il carattere, tutto sbagliato.
    Credevo ci fosse qualcuno di sbagliato almeno quanto me. Due torti non fanno una ragione, due sbagli non mettono a posto le cose, ma forse riescono a vedersi, a riconoscersi, a non essere soli.
    Non è così, non esistono altri sbagli, sono tutti invisibili e in realtà non solo loro quelli che cerco.
    Mi pesa non essere vista mai da nessuno, mi pesa non essere mai vista da te.
    Ma tu che ne sai. Tu con quella faccia simmetrica e pulita da eterno ragazzino, tu che sei l’incarnazione del politicamente corretto. Mai che ti scappi un “cazzo” o anche una semplice parola di troppo, un commento colorito, un pugno sul tavolo. Dove la nascondi tutta la tua collera, sotto quale macigno l’hai imprigionata. Deve pur essere da qualche parte, assieme al resto dei tuoi sentimenti. Per questo a volte cerco il litigio, per stanare le emozioni dal loro rifugio, ma con te mi è sempre andata male. Perché non mi davi della stronza quando ti mandavo affanculo? Non lo capivi che c’era amore in tutta quella rabbia? Che era un disperato tentativo di scrollarti di dosso quell’artefatta perfezione e cercare nelle crepe un appiglio, un pretesto per venirti più vicino.
    E invece nulla, nessun graffio neppure in superficie Le mie urla mi sono tornate indietro come un boomerang, centrandomi in pieno, stordendomi. Sono rimasta sorda in una melma grigia e inutile. Non sapeva inghiottirmi o soffocarmi. Solo mi rimaneva appiccicata addosso, non si toglieva nemmeno dalle mani. E allora le ho premute forte sul tuo viso, per vedere se riuscivo a sporcarti, a renderti meno perfetto, giusto quel tanto che ti avrebbe permesso di essere un poco più simile a me e allora forse mi avresti visto.
    Ma non è servito a nulla, la fanghiglia ti scivolava via e cadendo si rapprendeva sul terreno, sbriciolandosi fra i passi della gente. Alla fine anch’io sono riuscita a liberarmi dal fango, che è rimasto umido, tramutandosi prima in erba e poi, col tempo, in un piccolo cespuglio di ortensie.
    Ne ho raccolto una, l’ho sistemata in un vaso colorato, nella segreta speranza che presto sarebbe appassita.
    Ma è rimasta intatta, delicata come il giorno in cui è sbocciata, resiliente come le ortensie della mia infanzia.
     
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    Penna suprema

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    Prima di dare un giudizio ci voglio pensare.
    In realtà aspetto qualche commento perché non ho capito.
    Sono il capoccione della classe, sto all'ultimo banco,
    e non solo perché sono alto.
    Un abbraccio.
     
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    Penna furiosa

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    Pezzo non facile, poetico e a cui si è dedicato tempo e impegno. Sinceramente però non è molto nel mio genere, troppo statico e monocorde. Autrice comunque brava, senza dubbio.
     
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  4. Cristina Lombardo
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    Meraviglioso, sentito, puro, ma:
    Sta a metà tra il flusso e la poesia, nessuno pensa cosi. Soprattutto all'inizio i verbi al passato, uno dopo l'altro, creano la tipica ridondanza della poesia.
    Anche se non è del tutto scorretto come flusso di coscienza, non è comunque definibile come tale, almeno secondo me. Ma io ho un'opinione troppo specifica sul flusso forse, per me è il genere più difficile in assoluto e ho aspettative molto alte a riguardo.
    Però l'ho sentito molto vicino. Se fosse stato scritto sotto forma di poesia, forse, avrei pianto.
     
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    In genere prediligo lasciarmi trasportare dal contenuto del racconto tralasciando spesso e colpevolmente la correttezza formale. Questa e’ (mi scusino i puristi ma utilizzo un iPad e non sono molto capace di ottenere le lettere accentate) una storia profonda, emotivamente coinvolgente. Un tipo di arrabbiatura sorda, senza scoppi (se non per la violenta reazione del padre a danno delle ortensie). Mi è piaciuto molto.
     
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    parte con una poesia e poi gradualmente lascia trasparire l'incazzatura per terminare con la saggezza. E' stato piacevole leggerlo ma non è riuscito a convincermi di essere in tema. Mi sembra abbia solo sfiorato la superficie.
     
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    Penna furiosa

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    Davanti a questo testo rimango un po’ perplessa. Lo trovo un bel monologo, ben scritto. Faccio però un po’ fatica a mettere insieme tutti i pezzi. Penso che collegamenti siano ben chiari nel tuo pensiero, nei tuoi sentimenti, ma a me lettrice non arrivano benissimo. Mi rendo conto che questo è un testo costruito sulle analogie emotive, non sulla concatenazione logica. Forse per i miei gusti è un po’ ermetico, in modo particolare la fine.
    Comunque, ben scritto.
     
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    Dio della penna

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    Mi dà l'aria di un po' di confusione nella mente dell'autrice che, comunque, non riesce a a trasmettere il senso del tutto. Lei è la falena che vive nel buio del dolore e della rabbia mentre l'ortensia è il suo "lui" che non si apre, non riconosce i suoi incubi e i suoi tormenti. Poi il tutto si lega con il ricordo dell'infanzia e dell'ortensia calpestata che le è rimasta nell'anima. Mi sembra un collegamento poco riuscito. Ma proverò a rileggere
     
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    Penna d'oca

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    Sicuramente ben scritto. Forse troppo.
    io alla fine l'ho trovato freddo. E penso che non fosse questo l'intento dell'autore/autrice.
    E comunque non è un genere che amo, per usare un eufemismo.
    Il termine "resilienza" passa dal linguaggio tecnico a quello poetico. Una concessione alla moda?
     
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    Penna stilografica

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    L'ho trovato molto poetico e anche sincero. malinconico. Mi è suonata un po' forzata la virata sul rapporto di coppia. Quel "mai vista da te" mi ha lasciato un po' perplesso. Tutto un racconto intimistico e poi quello spostamento di prospettiva... per carità, ci sta, ma è stato proprio molto repentino... avrei cercato di prepararlo meglio. L'impressione è che l'autrice sapesse già dove voleva andare a parare e che per questa ragione lo abbia fatto in modo un po' meccanico. Buono lo stile. Piaciuto
     
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    Dio della penna

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    Il mio giudizio è altamente positivo e rientra nell'intimismo delle mie corde.
    Poi… un episodio simile capitò tanti anni fa a me che vidi rapire il mio pallone da un energumeno idiota e alla richiesta gentile d'un fanciullo di riavere cortesemente il maltolto risposero i diavoli con un ceffone da bestia in volto.
    Le Ortensie soffrirono molto dentro e fuori l'animo e comprendo la falena…
    Plauso plauso...
     
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    Teropode assennato

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    L'ho trovato un po' fumoso, molto vago; il primo passo, quello in cui la voce narrante si definisce una falena, mi ha lasciato indeciso fino all'ultimo se fosse una falena letterale o solo una forma poetica.
    All'ultima parola del primo paragrafo ho deciso "Sì, dev'essere proprio una falena."
    Alla riga dopo parte il discorso del pallone e io, ok, niente falena.

    Come dicevo, un po' fumoso. C'è della malinconia ben trasmessa, ci sono delle emozioni rabbiose, anche se molto ovattate dietro questa forma di melodia quieta che è lo stile col quale è scritto, mi ha colpito la scena del padre che distrugge le ortensie.
    Forte e molto emotiva, a suo modo potente.

    Non riesco a decidere se mi sia piaciuto in toto o meno, ha dei punti a favore ma è forse troppo poetico per le mie corde.
     
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    Penna d'oca

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    Molto molto interessante. Ci ho trovato una grandissima capacità di trasmissione e delle attente variazioni di stile che sfumano un quadro dai pochi colori ben disposti. Mi chiedo solo se l'autore intendesse essere così ermetico (cosa che non mi dispiace) o intendesse mostrare una dimensione più ampia. In ogni caso un ottimo lavoro che forse meritava qualche parola in più per essere completo.
     
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    Penna suprema

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    Tanto lavoro, tanta sofferenza, tanti ricordi. Non voglio sorprenderti autrice, ma nel mio giardino, proprio sotto il muretto, c'è un'ortensia bianca vecchia come la mia casa:trentasei anni pieni.
    Lei è gigantesca come il tuo bel racconto che mi ha molto commosso.
    Mia vincitrice.

    Edited by tommasino2 - 3/12/2018, 18:52
     
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    Penna suprema

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    Genere: monologo - flusso di coscienza
    Arrabbiatura: beh, prendersela con la Vita per il carattere che abbiamo o per le circostanze che ci piovono addosso, non mi sembra un’arrabbiatura. Una ne hai messa: quella del padre verso la vicina, ma non fa testo, è un cameo.
    Contenuto: non lineare, a mio avviso. Parti da una similitudine (o almeno mi aspetto che tale sia), ma gli eventi che si dipanano non mi mostrano chiaramente il tuo pensiero: cosa identifichi con l’ortensia? Lui? La gente indifferente? La Vita?
    Forma: ottima. Scrivi in modo splendido, leggerti è stato un piacere. C’è soltanto una svista: ...in realtà non solo loro quelli che.../ in realtà non sono loro quelli che.
     
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43 replies since 21/11/2018, 18:39   742 views
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