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All’improvviso un vento improbabile schiaffeggiò la vallata; poi un rombo assordante accese di ter-rore gli sguardi prima che il buio li spegnesse per sempre, prima che la montagna inghiottisse tutto quanto.
Era il 9 del mese di ottobre del 1963 quando l’incoerenza della montagna incontrò l’incoerenza degli uomini dando origine ad un disastro di dimensioni colossali, oltre duemila morti e i paesi di Erto, Casso e Longarone letteralmente cancellati: il disastro del Vajont.
Questa è la storia di Giovanni, uno dei pochi sopravvissuti, e il racconto di una pagina terribile della storia italiana che ha lasciato una profonda cicatrice nel cuore del nostro Paese.
Giovanni, detto “Nane”, alla fine degli anni cinquanta, era un giovane uomo figlio della guerra. Na-to a Erto nel 1933, non aveva mai lasciato il suo paese; la grande montagna era per lui madre, padre, datore di lavoro e perfino il suo Dio. Dei suoi monti, amava ogni pietra e conosceva ogni sentiero, ogni albero, ogni animale. Suo padre era stato un carbonaio e gli aveva insegnato l’arte di trasformare il legname di faggio e carpino di cui la zona era molto ricca, in carbone. Era un lavoro molto duro che aveva imparato ad amare e che avrebbe tramandato a suo figlio Mauro una volta cresciuto, ma all’epoca dei fatti aveva solo tre anni e doveva lasciarlo ancora con la mamma.
Giovanni sapeva di fumo, quell’odore acre e pungente impregnava i suoi vestiti e la sua pelle, aveva le mani ruvide e nere di chi lavora sodo e il cuore semplice e genuino di chi vive la vita senza prete-se. Alto e grosso come la sua amata montagna, era molto rispettato nel paese: la sua forza e la sua generosità, ne avevano fatto un leader naturale. Da qualche tempo, giù al bar, le discussioni si erano fatte accese. Si discuteva della grande diga, del fatto che nel giro di pochi mesi, le case e i terreni sarebbero stati espropriati per permetterne la co-struzione. Endrio, poco più che ventenne, era il più giovane del gruppo e anche il più desideroso di cambiare il suo destino. Amava la montagna, ma non voleva finire la sua vita facendo il carbonaio come suo padre.
«Avete sentito cosa vanno dicendo giù a Longarone? La SADE vuole assumere per i lavori di co-struzione della diga! Ci pensate? Dicono che qua si farà la diga più alta del mondo! Cercano operai forti, che conoscano bene come muoversi in montagna. Io ci voglio andare, per me è una buona opportunità. Si dice che paghino bene...»
Giovanni trovava quell’entusiasmo giovanile del tutto fuori luogo. Quella storia della diga non lo convinceva affatto. I maledetti della SADE si sarebbero presi le loro case, le loro vite. Lui, il Toc, lo conosceva bene. Conosceva il suo terreno friabile e sabbioso e aveva paura. La montagna doveva essere rispettata, non violata. Costruire un lago artificiale tra le sue strette gole, era pura follia. Sen-tiva il sangue ribollire al solo pensiero e per tutta risposta sbottò:
«Ma cosa stai dicendo? Quelli vogliono portarci via la nostra vita! Energia elettrica, lavoro, pro-gresso? Ma non vi siete accorti che la Montagna non vuole? La roccia è troppo friabile, ci sono spesso smottamenti e frane. C’è pericolo che venga giù tutto! Dobbiamo andare a parlare con quei signori là, che si scelgano un altro posto e ci lascino in pace!».
Nane si fece promotore di un comitato contro la realizzazione della diga, ma il suo generoso e schietto tentativo di evitare che il progetto fosse realizzato, fu vano. Quelli della SADE ci sapevano fare con le parole.
Quattrocento nuovi posti di lavoro, la necessità crescente di energia elettrica per sostenere le aziende in pieno boom economico, convinsero gli abitanti dei paesi della vallata Erto, Casso e Longarone dell’importanza del progetto. Così i montanari della valle, in nome del progresso e di un progetto che in qualche modo li rendeva fieri di esserne protagonisti, lasciarono le loro secolari attività per entrare in servizio come operai della SADE. Ben presto le loro case e le loro terre furono espropriate in cambio di pochi soldi e duro lavoro. Rasserenati dai risultati sbandierati dagli esperti circa la certificata idoneità e sicurezza del luogo, colsero quell’opportunità di lavoro ben sapendo che il “Toc”, la loro montagna, dava segni preoc-cupanti di instabilità. Eppure nell’aria si avvertiva qualcosa di sinistro. Vecchie leggende popolari predicevano che il paese di Erto, dopo aver vissuto anni di prosperità, sarebbe sparito nelle profondità di un lago.
Anche Nane, carbonaio da generazioni, alla fine dovette piegarsi per portare il pane a casa e, in breve tempo, divenne un efficiente e affidabile manovale. Luigi, il suo caposquadra, comprese al volo che la sua serietà e la sua conoscenza della montagna erano preziose. E poi Giovanni era molto rispettato dai suoi compagni e, per questo, teneva in gran considerazione le sue opinioni e lo sorvegliava in modo speciale.
Questa storia aveva avuto inizio circa trent’anni anni prima…
Era il 1929 quando la SADE, la Società Adriatica di Elettricità, individuò nella stretta e suggestiva gola scavata dal fiume Vajont, tra il monte Toc (che in dialetto friulano significa “marcio, avariato” proprio a causa della sua nota franosità) e il monte Salta, la zona ideale per costruire un bacino idroelettrico di grandi dimensioni. Il progetto fu approvato nel 1943 durante la seconda guerra mondiale dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, con una votazione a dir poco irregolare resa possibile proprio dalla particolare situazione di turbolenza dovuta a quel drammatico periodo: soltanto 13 rappresentanti su 34 furono presenti alla seduta. La realizzazione dell’opera fu avviata solo alcuni anni più tardi, nel 1957 a suggello della grande ripresa economica avviata dopo la fine della guerra. Non solo, il vecchio progetto fu ambiziosamente rivisto e ampliato: si sarebbe realizzata la diga più alta del mondo: ben 266 metri di altezza in grado di contenere 115 milioni di metri cubi di acqua.
Il Ministero dei Lavori Pubblici, in considerazione dell’ampliamento previsto rispetto al progetto originale, prima di rilasciare l’autorizzazione all’avvio dei lavori, ordinò una doverosa revisione della vecchia perizia al fine di rivalutare la sicurezza del luogo dal punto di vista geologico, tenuto conto del tempo trascorso. Per ottenere rapidamente e senza intoppi i timbri ministeriali necessari, questa venne però commis-sionata allo stesso geologo, ormai ottantacinquenne, che l’aveva eseguita molti anni prima e che confermò il giudizio di idoneità, praticamente “sotto dettatura”. Del resto non si potevano rischiare interruzioni dei lavori, tenuto conto dei forti capitali già investiti. Inoltre, per beneficiare di tutti i possibili contributi statali, era di vitale importanza per la SADE agire in fretta in modo da riuscire a collaudare l’impianto prima che la distribuzione dell’energia elettrica venisse nazionalizzata nel 1962. La diga del Vajont fu così orgogliosamente ultimata: era un vero gioiello dell’ingegneria italiana.
Dopo la nazionalizzazione della distribuzione dell’energia elettrica, la gestione di tutte le proble-matiche divennero appannaggio del nuovo proprietario, l’Enel, che si trovò a gestire una vera e propria “patata bollente”. Nell’ambiente dei tecnici era ormai chiaro che il verificarsi di una frana che avrebbe causato una pericolosa onda anomala, era solo questione di tempo: una inquietante spaccatura a forma di “M”, era comparsa da settimane sulla parete del monte.
Nane, aveva notato quella “ferita” nella montagna ed era veramente preoccupato. Così si sentì in dovere di allertare il suo caposquadra:
«Luigi, la vedi quella spaccatura là?» disse indicando la fenditura «Sembra che stia per staccarsi un pezzo di parete. Sarebbe un disastro se finisse dentro al lago... dobbiamo fare subito qualcosa!»
«Stai tranquillo Nane, e non farti vedere così agitato dagli altri! Non c’è motivo di preoccuparsi, è tutto sotto controllo.»
«Non voglio mettere in dubbio che sappiate quello che c’è da fare. Io non ho studiato come voi, ma conosco il Toc e ho paura. Bisognerebbe almeno avvisare la gente giù in paese»
«Nane, dammi ascolto, ti prego! Queste preoccupazioni tienile per te se hai caro questo lavoro. Ai padroni non piacciono quelli che creano problemi. Se metti in allarme i tuoi compagni diffondendo notizie che possono generare il panico, rischi di essere licenziato e io ci tengo troppo a te. Sai come è andata a finire con Gino... Amico mio, fidati, quelli hanno pensato a tutto, nessuno correrà dei ri-schi.»
Gino era stato “sbattuto fuori” per molto meno. Il caposquadra lo aveva sorpreso mentre sobillava i suoi compagni a chiedere un aumento. Gli operai facevano un lavoro pericoloso, sottopagato e avrebbero potuto creare problemi in cantiere. Così fu deciso di stroncare sul nascere qualsiasi forma di ribellione, punendola in modo esemplare.
Nane in quell’occasione non fu ascoltato, anzi gli fu intimato di tenere la bocca chiusa: erano troppi gli interessi in gioco.
Il piano di sicurezza predisposto dagli esperti della SADE, non prevedeva l’evacuazione degli abi-tanti. Presso l’Università di Padova era stato realizzato un modellino in scala della diga per poter eseguire delle simulazioni risparmiando molto sui costi. I tecnici erano arrivati alla conclusione che, nel caso si fosse verificata una frana di grandi dimensioni, sarebbe stato sufficiente agire sul livello dell’acqua dell’invaso, per evitare che l’ondata superasse l’altezza della diga e tracimasse a valle. La bontà di quella soluzione studiata a tavolino fu anche sperimentata con successo “sul campo” in occasione di alcune frane di modesta entità che si erano verificate. Dunque non c’era niente da temere.
Quando fu evidente che una grande frana stava per staccarsi dal monte, il piano di emergenza fu quindi attivato adottando la più totale “discrezione”, senza avvisare alcun abitante della vallata circa l’imminente pericolo. Nel più grande riserbo, fu fatta defluire una abbondante quantità d’acqua dal bacino in modo da abbassarne di molto il livello. Ma, quella volta, qualcosa non funzionò come previsto. Abbassare il livello dell’acqua si rivelò un errore fatale, la peggior decisione che potesse essere presa.
Giovanni non era rientrato a casa quella sera. Era rimasto con i suoi compagni al bar a vedere la te-levisione: quella sera trasmettevano in Eurovisione la partita di calcio Real Madrid contro Glasgow, e non se la sarebbe assolutamente persa. Forse un giorno avrebbe avuto anche lui i soldi per comprarla una televisione, forse quel lavoro che era stato obbligato ad accettare, non era poi così male. I suoi abiti non sapevano più di fumo e le sue le mani non erano più annerite dal carbone. Forse suo figlio Mauro avrebbe avuto un futuro migliore del suo, forse aveva ragione Luigi, quelli della SADE sapevano davvero il fatto loro.
Era stata una bella giornata di sole quel 9 ottobre, una di quelle splendide giornate autunnali che a volte capitano in montagna. La serata prometteva bene: una buona grappa da condividere con gli amici e lo sport che li avrebbe visti scommettere e discutere per ore nei giorni successivi. La partita iniziò alle 21,30, ma alle 22,39 saltò la luce e, preceduto da un fragore assordante, il buio improvvisamente inghiottì la valle.
Dal Toc, il monte marcio, si era distaccata una parete che era rovinata giù verso la diga provocando onde anomale alte oltre duecentocinquanta metri che tracimando violentemente a valle, trascinarono con sé alberi, strade, e case e ogni essere vivente. Nel giro di soli quattro minuti, colpiti prima dalla potente onda d’urto e successivamente sepolti da una montagna di fango e detriti, i paesi della valle e oltre l’ottanta percento dei loro abitanti, furono praticamente cancellati.
Giovanni, nonostante la sua stazza, fu risucchiato in aria come una foglia al vento e sbattuto poi a terra diversi metri più avanti. Miracolosamente illeso, si trovò praticamente nudo, sommerso dal fango e dai detriti. Nelle sue orecchie risuonava ancora l’eco del tremendo boato; realizzò di non poter aprire la bocca tanto era impastata dalla melma. La sua mano destra sanguinava a causa delle ferite provocategli dal bicchiere che stringeva tra le mani al momento dell’impatto e che si era fran-tumato. Non riusciva a vedere e a sentire nulla: intorno a lui solo buio e silenzio, odore di marciume e di morte. Nel rialzarsi aveva percepito sotto i suoi piedi la presenza di un corpo. Il pensiero corse veloce verso la sua Enrica, verso suo figlio. Col terrore nel cuore aveva capito: il Toc, si era ripreso tutto quanto. Camminò stordito tra corpi nudi ai quali i vestiti erano stati strappati via dal vento generatosi con l’onda d’urto, calpestando pezzi di arti che emergevano macabramente qua e là dalla fanghiglia. Non riusciva a riconoscere nessuno. Deglutì il fango e appena riuscì ad articolare dei suoni, cercò di chiamare i suoi compagni, ma non ottenne risposte. I pochi sopravvissuti, coperti di fango, camminavano barcollando, sperduti; con gli sguardi attoniti, increduli, asciutti di lacrime; i loro corpi emanavano un fetore di paura che ammorbava l’aria.
Se fosse stata eseguita una ricognizione seria del terreno si sarebbe rilevata la presenza di argilla nei sotto strati del Toc e non si sarebbe mai potuto dare il via ai lavori. L’argilla, aveva fatto sì che l’acqua dell’invaso, unita all’acqua piovana che era permeata in pro-fondità, restasse imprigionata nelle rocce. Il sottile equilibrio veniva mantenuto solo dal peso della grande massa d’acqua presente nel lago che, facendo pressione sulla parete della montagna, con-trobilanciava la spinta dell’acqua intrappolata all’interno, sotto lo strato di terreno argilloso.
Quando venne fatta defluire l’acqua dal bacino, portandola al livello minimo possibile, quel precario equilibrio venne repentinamente compromesso. La fragile parete, privata di quel naturale sostegno, cedette alla pressione interna dell’acqua, “esplodendo” con la violenza di una bomba atomica causando, analogamente, una immane tragedia.
Giovanni perse tutto quella sera, tutto tranne la propria vita. Sorretto dalla speranza di poter riabbracciare un giorno sua moglie e suo figlio, continuò instanca-bilmente per settimane a scavare nel fango, aiutando i soccorritori a liberare dalle macerie un numero indefinito di corpi. Provò una gioia incontenibile quando dopo alcuni giorni aiutò ad estrarre, ancora vivo, dai detriti il piccolo Pietro, figlio di un suo compagno di lavoro che era insieme a lui a guardare la partita quella maledetta sera e che non era sopravvissuto. Fortunatamente anche la madre si era salvata e quindi non sarebbe rimasto orfano. Ma questi, purtroppo, si rivelarono veri e propri miracoli.
Nane, il gigante buono, non riuscì a ritrovare i corpi dei suoi familiari. Furono dichiarati “dispersi” sotto la montagna di fango e detriti insieme ad altre centinaia di persone di cui non si avrebbero mai più avute notizie.
Per questo decise di rimanere per sempre lì, insieme a loro, nella sua montagna. Quella terra che ora custodiva i resti della sua famiglia, era l’unico luogo in cui avrebbe potuto con-tinuare a vivere e sperare e dunque non l’avrebbe mai abbandonata.
Accanto alla piccola baita che riuscì a costruire con caparbietà contro il parere di tutti, piantò due alberi: uno per Enrica, sua moglie e uno per Mauro, suo figlio. Nel suo cuore coltivava speranza di vederli tornare un giorno, vivi, da lui. Quegli alberi divennero la sua famiglia. Parlava con loro, a loro confidava i suoi dolori e le sue spe-ranze. Quelli del paese lo soprannominarono, affettuosamente, “Nane del Toc”, per sottolineare la sua to-tale appartenenza alla montagna.
Nane trascorse il resto dei suoi anni in quella vana attesa vivendo come un eremita, parlando più con suoi amati alberi che con gli uomini. Per guadagnarsi da vivere intagliava con maestria mestoli e ciotole di legno che, giù in paese, venivano venduti ai turisti della valle del Vajont.
Quando morì, fu deciso di piantare un albero in più accanto alla quella piccola baita. Oggi i tre alberi Enrica, Mauro e Nane sono testimoni viventi di quella triste vicenda.
Molti anni di silenzio seguirono quel terribile giorno; nessuno voleva più parlare di quella tragedia come se, non parlandone, non fosse mai successa. Troppi gli errori commessi, pochi i colpevoli per migliaia di vittime innocenti. Fa orrore leggere il testo del cablogramma che l’ing. Biadene, direttore dei lavori della diga, mandò il 10 ottobre all’ing. Pancini, suo collaboratore, in ferie negli Stati Uniti:
“IMPROVVISO CROLLO ENORME FRANA HA PROVOCATO TRACIMAZIONE DIGA VAIONT CON GRAVI DANNI LONGARONE STOP DIGA HA RESISTITO BENE STOP BIADENE”
Oggi sappiamo che il sito individuato per la realizzazione della più grande opera d’ingegneria idraulica mai realizzata, era assolutamente inadeguato allo scopo: un terreno friabile, incoerente, pa-lesemente inadatto alla realizzazione di quel progetto.
La superficialità nella esecuzione delle perizie geologiche eseguite, fu del tutto incoerente con la necessità di salvaguardare la sicurezza degli abitanti della vallata.
Eppure il Ministero era stato chiaro:
« E’ però necessario completarle [le indagini geologiche] nei riguardi della sicurezza degli abitanti e delle opere pubbliche, che verranno a trovarsi in prossimità del massimo invaso».
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