Zamani

aut. Kiriku

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    Dio della penna

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    È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie.
    Kofi si ritrovò a pensarlo con insolita puntualità, mentre lasciava i sacchetti della spesa davanti alla porta d’ingresso.
    Era la frase preferita del vecchio che, infatti, anche quella mattina, si attenne al solito copione. Si sedette in veranda sul dondolo cigolante e ci tenne a ribadirlo. «È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie.»
    «Se ciò che dici è vero» Kofi si sedette accanto al vecchio, su una panchina senza schienale, e decise di affrontare l’argomento, invece di aggirarlo come di consueto «perché tu non hai una moglie?»
    «Storia lunga, di quando ero giovane.» Quell’uomo non aveva un nome, tutti lo chiamavano zamani, il vecchio. Di lui si sapeva solo che era italiano e che, in effetti, non era sempre stato vecchio.
    «Di quando vivevi a Milano?» A Kofi piaceva stare ad ascoltarlo. Era un’occasione per perfezionare l’italiano, che ormai parlava quasi come una terza lingua. Inoltre, più tempo avesse trascorso lì in veranda, in cima alla strada sterrata che conduceva alle piantagioni del ranch, nella contea di Baringo, più avrebbe ritardato il momento in cui sarebbe dovuto andare a controllare che gli elefanti non avessero di nuovo distrutto gli alberi appena messi a dimora.
    Il vecchio annuì. «A vedermi adesso non si direbbe» alzò le braccia magre avvolte dalla pelle bianca e rugosa, sotto la quale non era rimasta traccia di muscoli «ma ero un bel ragazzo, anche in forma. Andavo a correre tutte le sere, quando uscivo dalla banca.»
    «Non mi pare di avertelo mai chiesto. Cosa sei venuto a fare in Kenya?»
    «Pole, pole
    «Sì, giusto. Dicevi della moglie?»
    Il vecchio gli raccontò di tre ragazze che suo padre gli aveva presentato, quando viveva a Milano. «Sorriso di pietra era carina, ma non rideva mai. Quando faceva appena una smorfia, sembrava che le si dovesse crepare la faccia da un momento all’altro.» Si alzò, entrò in casa e tornò con una bottiglia di Braulio e con un bicchiere. «Ne vuoi?»
    «No, grazie, signore» declinò Kofi, che aveva già assaggiato quell’amaro e, per poco, non aveva tossito un polmone.
    «Bah.» Il vecchio si riempì il bicchiere. A svuotarlo ci avrebbe messo tutta la mattina e gran parte del pomeriggio.
    Kofi non avrebbe mai capito perché il vecchio continuasse a farsi spedire quella robaccia dall’Italia, che comportava il dover gestire rogne con la dogana. «Dopo sorriso di pietra, chi altro c’era?»
    «Culo di gallina. Indossava sempre gonne attillate e camminava con il culo all’infuori, come una gallina che razzola. Forse pensava che avrei barattato il mio conto in banca col suo culo.» Il vecchio degustò il suo amaro e si concesse un’esclamazione di appagamento. «Pensa che guadagno. Lei a spendere i miei soldi tutta la vita e io a guardare il suo culo farsi sempre più decadente.»
    Kofi rise.
    Si ritrovava spesso a chiedersi se, col passare del tempo, sarebbe diventato sboccato come il vecchio, magari quando fosse andato in Italia, al termine degli studi universitari che il lavoro nel ranch gli permetteva di pagare.
    Ma era probabile che no, non lo sarebbe diventato.
    Peccato, però.
    A Milano avrebbe dovuto trovarsi un altro vecchio con cui divertirsi davanti a un bicchiere di amaro. «E la terza?»
    «La terza era la più normale. Si chiamava Maria, era simpatica, gentile e pure carina.»
    «Detto così, sembra la donna perfetta.»
    «Lo sarebbe stata, se non avesse avuto altri tre fidanzati, oltre a me.» Il vecchio tornò ad appoggiare la schiena al dondolo e sorseggiò un altro po’ di amaro. «Comunque, dopo la rottura del mio fidanzamento con Maria, ho preso i miei soldi, sono venuto qui, ho comprato il ranch, l’ho rimesso a posto e ho avviato la mia attività.»
    «Perché proprio in Kenya?» Chiese Kofi.
    «Per i leoni» rispose il vecchio. «Su un libro, quando ero bambino, avevo visto la foto di un leone e avevo deciso che, diventato grande, sarei venuto in Africa per vederli.» Gli raccontò di essere giunto in Kenya da turista, senza alcuna intenzione di restare, solo per smaltire la delusione amorosa provocatagli da Maria. Poi, dopo aver preso parte a un safari nel Masai Mara e aver soggiornato per tre giorni in una capanna masai, era tornato in Italia. «Niente è più stato come prima. Ero a Milano ma nella mia testa vedevo il Kenya, la savana, i leoni che seguivano le mandrie di gnu e io mi immaginavo in mongolfiera, a osservare i rossi tramonti africani che mi erano rimasti nel cuore.»
    Kofi non poteva capire la meraviglia di un italiano nell’assistere ai tramonti africani o alla grande migrazione degli gnu. In Kenya ci era nato e cresciuto, non aveva mai visto altro. Tutto ciò che conosceva dell’Italia e del resto del mondo lo aveva appreso dal vecchio e da internet. Magari, quando si fosse trovato a Milano, avrebbe provato nostalgia della sua casa e sarebbe tornato indietro.
    Il vecchio chiamava Mal d’Africa quel distaccamento doloroso dal Kenya che aveva sperimentato dopo il suo primo viaggio in Africa.
    «Sono vecchio, faccio fatica a camminare, mi manca poco a crepare.»
    «Non dire così.»
    «Andiamo, ragazzo. Se così non fosse, la mia spesa potrei farmela da solo.» Il vecchio sfilò il portafogli dalla tasca dei pantaloni e gli allungò ottomila scellini, la paga per il lavoro dell’intera giornata. «Però sarebbe bello se, prima di crepare, potessi dormire ancora in una capanna masai.»
    Kofi mise i soldi nel borsello. «Potresti provarci. Ci sono alcuni operatori turistici locali che-»
    «Non dare speranze a un povero vecchio. Ho problemi alle gambe, ma non sono demente» sbottò il vecchio. «Ora alza quel culo nero dalla mia panchina e vai a controllare il ranch.»
    «Sì signore.» Kofi si alzò, salutò con un sorriso e si allontanò. Si divertiva a parlare col vecchio, gli sarebbe piaciuto accontentarlo e farlo alloggiare, almeno per una notte, in una capanna masai ma, in effetti, ogni volta in cui lo aiutava a salire i due gradini che conducevano in veranda, si rendeva conto di quanto quell’ipotesi fosse impraticabile.
    Mentre scendeva verso la nuova piantagione, però, ebbe un’idea.
    Al termine della giornata lavorativa, dopo aver ripristinato le piante abbattute dagli elefanti, chiamò alcuni suoi amici che lavoravano a Nairobi come muratori.
    Tra di essi, ce n’erano sei che si trovavano nella contea di Baringo.
    Specificò che non avrebbe potuto pagarli, ma che gli serviva un lavoro urgente, da svolgersi in una notte, per un amico che gli aveva insegnato l’italiano e che, un po’ alla volta, lo stava aiutando a studiare e a mettere da parte i soldi per raggiungere l’Italia.
    Tutti e sei si presentarono al ranch in due ore al massimo, con tutto l’occorrente per realizzare una capanna masai a poca distanza dall’abitazione principale del vecchio.
    Lavorarono tutta la notte, alla luce dei fari installati per tenere lontani gli animali.
    Con paglia e fango, dopo aver predisposto un’infrastruttura cilindrica in legno, costruirono le pareti e posarono il tetto conico di paglia.
    All’interno, con assi di legno e fasci di paglia, realizzarono un letto di fortuna sufficientemente alto affinché il vecchio non facesse fatica a sedervisi.
    Terminarono all’alba, quando la porta che dava sulla veranda si aprì.
    Il vecchio venne avanti in pigiama. Con gli occhi lucidi e la bocca spalancata, in cui ancora non aveva infilato la dentiera, rimase a guardare la capanna masai che aveva tanto sognato.
    Kofi gli sorrise «un omaggio da parte mia e dei miei amici.» Era distrutto, aveva le mani, i capelli e gli abiti pieni di fango e avrebbe solo voluto andare a dormire, ma l’espressione sorpresa e commossa del vecchio valeva ogni minuto di lavoro notturno.
    «Voi avete davvero fatto tutto questo?» Chiese il vecchio in swahili, passandosi la manica del pigiama a quadri sugli occhi chiari.
    «Kofi ha detto che aiutate con italiano» disse Chaga, in un italiano stentato, mentre caricava gli attrezzi da lavoro sul pick-up. «Amico di Kofi è amico nostro.»
    «Volete entrare a fare colazione?»
    «No, grazie, zamani» rispose Chaga a nome di tutti, mentre gli altri salivano a bordo del pick-up, seduti sul piano di carico. «Dobbiamo andare a lavorare» continuò in swahili.
    «Aspettate almeno che vada a prendere il portafogli, per ringraziarvi.»
    «A posto così.» Chaga salì sul pick-up, abbassò il finestrino, salutò e mise in moto. «Mi raccomando, passate una buona giornata, nella vostra nuova capanna.»
    «Lo farò di sicuro» rispose il vecchio, entrò in casa e fece ritorno con una busta bianca tra le mani. Si diresse verso la capanna, si soffermò ad accarezzare le pareti di terra irregolari e si sedette sul letto di legno e paglia. «Vieni qui, ragazzo.»
    Kofi, che l’osservava fermo sulla soglia, entrò e si sedette accanto a lui.
    Il vecchio gli porse la busta bianca. «Qui dentro c’è un assegno, intestato a te, con gran parte di ciò che si trova sul mio conto bancario.»
    «Signore, io-»
    «Fammi finire» lo interruppe il vecchio. «Non ho eredi e, alla mia morte, ho disposto che anche questo ranch diventi tuo. Ho tenuto per me quanto mi basta per campare bene ancora vent’anni e, ammesso che io viva così a lungo, sono certo che ne avanzerebbero a sufficienza per altri dieci anni.» Gli mise la busta tra le mani. «Sono molti soldi. Puoi usarli per studiare, per andare in Italia, per dare qualcosa ai tuoi amici che ti hanno aiutato a costruire questa capanna o per fare quello che preferisci ma, prima di lasciare il Kenya, ricordati sempre che sai quello che lasci ma non sai quello che trovi.» Il vecchio sollevò le gambe, si stese sul letto e fissò il soffitto. «Non ho deciso di lasciarti questo ranch per obbligarti a restare. Puoi venderlo e ricavarne altri soldi, ma penso sempre che sia bello quando un ragazzo giovane decide di restare nella sua terra, per costruire qualcosa, invece di portare le sue competenze altrove.»
    «Ci rifletterò, signore.» Kofi mise la busta nel borsello. Quella sera sarebbe passato dalla banca a incassare l’assegno e ci avrebbe riflettuto davvero. Magari, sarebbe andato in Italia da turista, come il vecchio aveva fatto tanti anni prima, e poi, al ritorno in Kenya, avrebbe deciso cosa fare. Se restare o partire per sempre.
    «Bravo ragazzo. Ora, se vuoi, vai a dormire e lascia perdere il ranch. Sarai stanco.»
    Kofi scosse il capo e si alzò. Era stanco, ma nessuno gli aveva chiesto di passare la notte in bianco per costruire una capanna masai. «Non sono malato, signore. Vado a controllare la piantagione.»
    «Come preferisci.» Il vecchio si girò su un fianco e poi si stese prono. «Io penso che resterò qui per un po’. Quando viene ora di pranzo, passa da me, che mangiamo insieme.» Chiuse gli occhi e, in pochi secondi, iniziò a russare.
    «Lo farò, signore.»
    Il vecchio aprì gli occhi. «E fai silenzio, quando una persona dorme.»
    «Va bene, va bene.» Kofi ridacchiò e lasciò la capanna.
    Prima di raggiungere le piantagioni, si assicurò di aver chiuso la porta di casa e passò ancora una volta dalla capanna masai
    Strinse tra le mani il borsello in cui c’era la busta che gli avrebbe cambiato la vita e si sedette su un angolo del letto.
    In cima alla strada, nella capanna, il vecchio si era riaddormentato. Dormiva ancora bocconi e il ragazzo gli sedeva accanto e lo guardava.
    Il vecchio sognava i leoni.
     
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    Non male questo racconto. E' scritto correttamente, si legge bene. Incipit ed excipit calzano perfettamente, la trama è ben congeniata e costruita a pennello. Uno scapolo ricco fuggito dall'Italia perché innamorato del Kenya, della sua natura incontaminata e dei leoni. I personaggi sono ben caratterizzati e funzionali al racconto. Kofi appare come il giusto interlocutore per Zamani. Non solo, sembra quasi essere il figlio che non ha mai avuto. Tant'è che Zamani gli lascia in eredità la sua fortuna, aldilà del fatto che lo aiuta a realizzare il suo sogno di dormire ancora una volta in una capanna Masai.

    E' una storia che non t'aspetti, almeno per me, e questo aggiunge valore a un lavoro nel complesso più che positivo.

    Che botta di culo però 'sto Kofi XD !
     
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    Magari sbaglio, ma in questo racconto mi arriva forte l'amore dell'autore/autrice per l'Africa. Il pezzo è scritto davvero bene, senza errori, si percepisce nitidamente la grande cura che è stata messa per scriverlo. La lettura è piacevole, lineare, tutto scorre alla perfezione, senza intoppi. L'unica critica che ti posso fare è che per i miei gusti manca un guizzo, uno scossone che mi faccia sbalordire prendendomi in contropiede.
    In ogni concorso c'è quasi sempre un racconto che mi porta alla mente le immagini di un film. Il tuo mi ha ricordato per le atmosfere(e non per la chiave comica presente nel film) un film a episodi con Villaggio dal titolo Sì buana. Grazie a questo tuo racconto ho scoperto che il film rilegge in chiave comica un racconto di Hemingway, quindi forse la mia sensazione alla fine non è poi così campata per aria.
    Concludendo un racconto che reputo davvero buono, soprattutto(mi piace sottolinearlo) per la grande cura che è stata messa nella sua realizzazione.
     
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    Grazie mille ai primi commentatori di questo racconto.
    E sì, soffro di Mal d'Africa da un po' di tempo.
    Recupererò il film di Villaggio.
    Non lo conosco, ammetto che è una fortuita coincidenza che interpreti in chiave comica un racconto di Hemingway (:
     
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    Ciao Kiriku, il racconto in questione è La breve vita felice di Francis Macomber, primo de I quarantanove racconti di Hemingway. Almeno così dice wiki =)
     
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    Grazie!
     
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    Un lavoro scritto davvero bene e che intrattiene. Kofi sarà fortunello, ma non è il massimo del carisma... Il vecchio l'ho adorato da subito. Sembra uscito da una sceneggiatura di Clint Eastwood, azzarderei Gran Torino (ci tengo a precisare, è un complimento). Tutta la vicenda si incastra benissimo nella cornice che hai selezionato senza forzature né salti logici: in perfetto rispetto delle regole del concorso.
    L'Africa, merito delle buone descirzioni, si sente tutta.
    Davvero ben fatto!
     
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    Una migrazione al contrario.
    Un desiderio.
    Chi lo realizza.
    Sembra dire poco questo racconto.
    Poi, alla seconda lettura non riesci a staccartene...
    Anche se
    avrei identificato meglio le figure femminili, per un giusto rispetto. Ma questo è un problema mio, non riesco a parlare di qualcuno senza scavarci dentro.
    Il racconto scorre che è una bellezza, comunque.
    La generosità esagerata dell'anziano risulta credibile.
    Un po' meno credibile che uno così benestante non abbia uno straccio di compagna. Ma pure questi, sono affari suoi.

    Edited by tommasino2 - 30/11/2020, 05:59
     
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  9. Viviana Monroy
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    C e' qualche refuso e la punteggiatura è da rivedere. Non vi ho capito molto. Kogi che deve scegliere moglie come se fosse in Zimbabwe, e non a Milano. Non un bel messaggio.Non mi è piaciuto se uno scappa da un posto come me può avere nostalgia?
     
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    Grazie mille a tutti per i commenti :]

    CITAZIONE
    Anche se
    avrei identificato meglio le figure femminili, per un giusto rispetto. Ma questo è un problema mio, non riesco a parlare di qualcuno senza scavarci dentro.

    In effetti, c'era un paragrafo in più dedicato a Maria, l'unica che il vecchio abbia davvero frequentato, ma è saltato per riservare i caratteri alla storia principale (:

    CITAZIONE
    Kogi che deve scegliere moglie come se fosse in Zimbabwe, e non a Milano. Non un bel messaggio.

    A dover scegliere una moglie, quando ancora era giovane, era Zamani.
    Non viene esplicitato ma, dal momento che Zamani è ormai vecchio, si può ipotizzare che all'epoca della scelta della moglie vivesse nella Milano degli anni '50, periodo in cui era ancora comune che i padri benestanti facessero incontrare i loro figli con signorine dell'alta società, nella speranza che si sposassero, per conservare intatto il patrimonio (nello specifico, Maria e la ragazza che Zamani chiama "Sorriso di pietra").
    Inoltre, proprio perché si trattava di famiglie benestanti, era praticamente d'obbligo che il figlio maschio si sposasse e avesse dei figli che ereditassero la fortuna di famiglia, il che si riallaccia all'incipit che ho scelto.
    Delle tre donne, l'unica a fare eccezione è quella che Zamani chiama "culo di gallina". Anche qui, non viene esplicitato ma, dal momento che Zamani parla di lei come una ragazza interessata al patrimonio, si può ipotizzare che fosse una scalatrice sociale e che non appartenesse alla cosiddetta "Milano bene".
    Poi ogni lettore può farsi l'opinione che desidera a proposito dei commenti di Zamani sulle tre pretendenti.
    Essendo commenti espressi per mezzo di un discorso diretto, saranno sempre un punto di vista parziale e sono certa che le tre donne avrebbero da esporre la loro versione ;-)

    CITAZIONE
    Non mi è piaciuto se uno scappa da un posto come me può avere nostalgia?

    Certo che può avere nostalgia.
    Zamani non ne ha, perché lui non è scappato dall'Italia, anzi, ha scelto l'Africa proprio perché sentiva nostalgia del Kenya.
    Kofi, invece, non ha ancora lasciato la sua terra. Se e quando arriverà in Italia, proverà nostalgia, oppure no. Ma questa è un'altra storia ;-)

    Edited by _kiriku_ - 30/11/2020, 11:43
     
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    Dio della penna

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    "Avevo una capanna in africa" ed elefanti e leoni e il cuore pulsava nei tramonti rossi e nelle distese... Un racconto che ci parla direttamente al cuore col cuore della scrittrice e di quello che è fissato nei suoi sogni. La storia fila e la trama appare articolata in un canone scorrevole ed equilibrato. La figura del vecchio sul dondolo dà molto l'immagine precisa di ciò che si vuol raccontare al di là del senso stesso del racconto: "la realizzazione dei sogni". Il resto dei personaggi e delle azioni deve necessariamente ruotare intorno a questo concetto e non serviva a tal scopo la caratterizzazione delle figure femminili oltre un certo standard descrittivo. Ottima capacità di dipingere le figure umane e in fondo l'occasionalità della vita s'evince nel modus operandi della scrittrice. Trama che si collega perfettamente con incipit ed excipit e quel senso di giusto finale per il vecchio migrante al contrario e per i sogni di Kofi appaga il lettore nel finale.
    Scrittura omogenea e lineare nelle proposizioni che seguono un andamento corretto, un ottimo lavoro in definitiva.
     
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    Grazie mille, Giancarlo! :)
     
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    Questo racconto mi è piaciuto molto. Personalmente cerco sempre di scrivere delle storie profonde e spesso finisco per risutare solo pretenzioso. Questo racconto d'altro lato è leggero. Leggero non come può esserlo un cartone animato ma come lo è il tramonto. Il mal d'Africa, il vecchio e il giovane, l'excipit (chiaramente riconducibile al vecchio al mare e quindi al buon vecchio Hemingway) non mancano d'attirare sul tuo racconto tutta la mia simpatia. Ottimo lavoro.
     
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    Prima di commentare, una domanda: il tuo nick viene dal lungometraggio “Kiriku e la strega Karabà”?
    Il che sarebbe in sintonia con il racconto ambientato in Africa.
    Racconto molto piacevole che, pur nel suo procedere in modo piano e senza scossoni, mi ha preso e mi ha fatto arrivare bene in fondo: in particolare, mi piace come hai realizzato il rapporto tra il vecchio e il ragazzo.
    Bene integrati incipit ed excipit, anche se decisamente preferisco il modo in cui è saltato fuori l’excipit.
    Scrivi bene, con padronanza e naturalezza.
    Hai un ondeggiamento in alcuni punti nella chiusura del discorso diretto; alcune volte hai usato l’ortografia corretta, che richiede la minuscola se la parola che viene dopo il segno di dialogo chiuso è un termine come dire, affermare, chiedere, esclamare e tutta la variegata casistica affine; due volte, invece, ti è scappata la maiuscola:
    “Kenya?» Chiese Kofi”= chiese
    “questo?» Chiese”= chiese
    Invece, non ho mai trovato in alcun libro pubblicato l’uso del trattino finale al posto dei tre puntini di sospensione, che mi sembrano più corretti:
    “turistici locali che-»”= che…
    “Signore, io-»”= io…
    Ti è scappata la punteggiatura del discorso diretto anche qui:
    “gli sorrise «un omaggio”= gli sorrise: «Un omaggio
    Comunque, ribadisco che mi piace come scrivi.
    Ottimo lavoro.
     
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    Questo racconto mi è piaciuto molto. Personalmente cerco sempre di scrivere delle storie profonde e spesso finisco per risutare solo pretenzioso. Questo racconto d'altro lato è leggero. Leggero non come può esserlo un cartone animato ma come lo è il tramonto. Il mal d'Africa, il vecchio e il giovane, l'excipit (chiaramente riconducibile al vecchio al mare e quindi al buon vecchio Hemingway) non mancano d'attirare sul tuo racconto tutta la mia simpatia. Ottimo lavoro.

    Grazie mille, Conrad! :)

    CITAZIONE
    Prima di commentare, una domanda: il tuo nick viene dal lungometraggio “Kiriku e la strega Karabà”?

    Sì, deriva proprio dalla fiaba africana da cui è tratto il lungometraggio :)

    CITAZIONE
    due volte, invece, ti è scappata la maiuscola:
    “Kenya?» Chiese Kofi”= chiese
    “questo?» Chiese”= chiese

    In questo caso non mi è scappato. Ho scritto questo racconto mentre stavo editando un manoscritto in lettura presso un editore che mi ha chiesto, nel caso di discorsi diretti conclusi con un punto, un punto esclamativo o un punto di domanda, di riprendere il discorso indiretto con la maiuscola.
    La settimana dopo, un altro editore mi ha chiesto di mandare lo stesso file ma con le minuscole, allegandomi un file con le varie formattazioni in uso tra le maggiori case editrici (ovviamente, tutte diverse tra loro XD )
    Non esiste un vero e proprio standard. Tendenzialmente, comunque, preferisco la minuscola, come hai suggerito tu.

    CITAZIONE
    Invece, non ho mai trovato in alcun libro pubblicato l’uso del trattino finale al posto dei tre puntini di sospensione, che mi sembrano più corretti:
    “turistici locali che-»”= che…
    “Signore, io-»”= io…

    Il trattino ha un significato di brusca interruzione data dall'esterno, mentre i puntini di sospensione sono un'interruzione volontaria o comunque meno brusca del discorso. L'ho sempre visto nei testi teatrali e mi sono abituata a usarlo, ma non ci ho mai fatto caso se nei libri venga effettivamente usato o se sia considerato un errore.
    Ho trovato alcuni articoli in rete in cui viene presentato come segno di interpunzione ammesso in narrativa nella stessa accezione in uso sui testi teatrali ma non ci sono fonti autorevoli che ne parlano.
    Nel dubbio, in futuro, ricorrerò ai soli puntini di sospensione ;)

    CITAZIONE
    Ti è scappata la punteggiatura del discorso diretto anche qui:
    “gli sorrise «un omaggio”= gli sorrise: «Un omaggio

    Questo sì, decisamente un refuso XD
    Grazie mille di tutte le segnalazioni! Gentilissima :)

    Edited by _kiriku_ - 1/12/2020, 09:14
     
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