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È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie. Come c’era arrivato Michele a quel pensiero? Il suicidio di suo padre per debiti (un’ingiustificabile sciocchezza) e la morte di sua madre per crepacuore (un’eccezionale casualità) l’avevano catapultato con violenza nel mondo degli obblighi. Non si era lasciato sconvolgere e, una volta laureatosi in Economia aziendale con specializzazione in Scienza della finanza, aveva dedicato tutto il suo tempo alla ricerca della solidità economica e ora, raggiunto il suo obiettivo, si sarebbe potuto permettere di vivere di rendita per sempre, creandosi pure una famiglia, con la quale accomodarsi in quella che senz’altro sarebbe stata una vita più che agiata. Non che durante le sua corsa all’oro (in effetti era carbone) fosse stato un misogino. Ne aveva avute di avventure con il gentil sesso ma per certo, a causa dei suoi continui viaggi di lavoro per il mondo, il tempo che aveva loro dedicato non era mai stato considerato sufficiente e la rottura era arrivata con sempre la stessa scusante seppure in varie lingue: “Non ci sei mai!” “You’ll never here!” “T’est jamais ici!” “No estas nunca” “Вы никогда не там” e “你从未在那里”. Quest’ultime per lui altamente incomprensibili ma senz’altro dello stesso tenore. Il suo non era un lavoro comune. Doveva scovare, in qualsiasi parte del mondo, una qualche società inquinante che avesse bisogno di ripulirsi la coscienza acquistando dei Carbon Credits Certificates, emessi da altre società che invece li avevano ottenuti proprio perché erano state brave (o almeno apparivano come tali) a eliminare o ridurre le proprie emissioni di carbonio. A transazione avvenuta c’era una bella commissione per lui. I cinque zeri (a volte sei), subito dopo il primo digit erano abbastanza comuni e suoi conti s’ingrossavano allegramente. Dopo una dozzina d’anni di duro lavoro (si dice sempre così) la sua ricchezza era diventata più che cospicua e ora era lì, alla ricerca di una fanciulla che fosse disponibile ad amarlo senza mire sul suo patrimonio. Ne aveva scartate parecchie (e scartare non era un eufemismo ma un sinonimico di svestire) prima di lasciarsi conquistare dalla bellezza e ingenuità di Federica che, dopo un suo breve ma intenso corteggiamento (lungo e slavato, mai?) aveva acconsentito a diventare sua moglie. Il primo parto era terminato con l’aborto di due gemelli. Federica, dopo un paio d’anni, non si era ancora ripresa dalla depressione quando a Michele era arrivato un avviso di garanzia che l’informava dell’apertura d’indagini sul suo conto per una truffa internazionale legata ai Carbon Credits Certificates. Truffa di miliardi di dollari compiuta in vari paesi del mondo, tra i quali un paio, Nigeria e Tanzania, ricondotti a lui. I Certificates dovevano essere autentificati in un apposito registro nazionale e tutte le compagnie interessate lo facevano. La parte truffaldina era che alcune compagnie avevano registrato i propri Certificates nei registri di diversi Paesi, creando così delle duplicazioni. Al momento della transazione, la verifica veniva effettuata solo per il Paese soggetto e non c’era alcuna ragione di controllare i registri, che inoltre tra di loro non avevano nessun legame, di altri Paesi. Ciò permetteva la vendita multipla di uno stesso Certificate. Una gola profonda aveva svelato il sistema e c’era stata una caccia planetaria ai truffatori. Caccia che però si era svolta in maniera piuttosto silenziosa per non apportare scosse al mercato finanziario globale. Michele aveva immediatamente dichiarato la sua estraneità e la non conoscenza del sistema truffaldino ma il Pubblico Ministero non l’aveva creduto e aveva richiesto ed ottenuto, la misura cautelare dell’incarcerazione, adducendo la possibilità di reiterazione del reato e quella di fuga. L’avevano portato a Rebibbia, al G9, il braccio ove transitavano i detenuti in attesa di giudizio. Ora si trovava in una cella con tre sconosciuti dalla faccia patibolare (l’hanno sempre anche se poi, nel trenta per cento dei casi, saranno dichiarati innocenti), ciascuno nel proprio angolo con un letto dalla rete metallica sfondata, un sottile materasso rivestito, così come l’unico cuscino, di una plastica verdognola, lenzuola di un cotone grossolano estremamente ruvido e una pesante coperta in stile militare di una rozza lana marroncina. A loro disposizione un armadietto a forma di cubo 30*30*30. In compartecipazione, un tavolino con quattro sedie, una tv ben incastrata in una parete, un angolo bagno con wc senza l’asse di seduta, un lavandino con la sola acqua fredda, con sopra uno specchio di un metallo stile acciaio graffiato. La doccia era in comune, all’esterno e una volta alla settimana. Durante la sua permanenza a Rebibbia, tramite rogatoria internazionale gli avevano sequestrato i suoi conti in Svizzera e in Austria, riducendolo in stato di povertà assoluta. I suoi compagni di cella, aveva capito fossero degli spacciatori, stavano meglio di lui ricevendo un pacco di viveri una volta al mese, altrimenti facevano spesa alla “Commissaria”. Una specie di catalogo sul quale si poteva mettere una croce sul prodotto che si volesse o potesse comprare. Michele non poteva permettersi nulla di ciò. Mangiava quello schifo (solo agli inizi, poi la fame gli aveva modificato il gusto) che passava il carcere e fortuna che non fumava! Il suo avvocato d’ufficio (lo stesso suo di fiducia che aveva rinunciato al compenso) aveva inoltrato un’istanza di scarcerazione per l’assegnazione ai domiciliari. Nei tempi lunghi della Giustizia era comunque stata rigettata in quanto Federica, visto che la casa dove vivevano era stata messa sotto sequestro, era ritornata a vivere dai suoi genitori e, sotto suggerimento del padre, un ex magistrato in pensione, aveva iniziato il carteggio per il divorzio. Era stata la comunicazione del rigetto della scarcerazione, causa la forzata mancanza di un domicilio, che l’aveva messo al corrente di entrambe le cose: senzatetto e senza moglie! Chiuse le indagini preliminari durate sei mesi, era stata fissata la data del processo di primo grado che era stato celebrato dopo altri tre mesi circa. Malgrado l’arringa ben strutturata del suo avvocato, l’avevano condannato a quattro anni e sei mesi. Sarebbero andati in appello gli comunicò il suo difensore prima che lo riportassero nuovamente nella sua cella. Una sera gli avevano comunicato che l’indomani l’avrebbero trasferito in un altro carcere per scontare la sua condanna. Alle sei e mezza l’avevano svegliato per condurlo in un cella completamente spoglia, dove aveva aspettato quattro ore prima che qualcuno lo venisse a cercare per ammanettarlo, scortarlo fino a un cellulare della Polizia penitenziaria e rinchiuderlo al suo interno, in una specie d’armadietto metallico largo un metro. Ce ne erano cinque su ogni lato di un corridoio centrale. Il suo era, chissà perché, proprio nel mezzo. Due guardie erano sedute sui sedili anteriori. Una conduceva e lui era l’unico detenuto. Gli avevano tolto le odiose manette, mettendogli tra le mani una bottiglietta d’acqua e un sacchetto con una mela e un panino con dentro una fetta apparentemente di prosciutto cotto. Erano partiti. Da una specie di finestrella traforata gli era parso avessero preso l’autostrada verso est. Il cellulare correva a una velocità elevata e, trovandosi sballottato, si era puntellato con le mani alle pareti chiedendosi che cosa sarebbe successo in caso d’incidente. E se ci fosse stato un incendio? Come avrebbe potuto uscire da quel buco metallico? Per togliersi un poco d’ansia aveva cominciato a rosicchiare il suo panino e… era successo: in una curva troppo stretta la camionetta, dopo una paio di sbandamenti, si era ribaltata sulla parete sinistra andando a strisciare con grande frastuono sul selciato. Aveva sbattuto con violenza contro la porta e era finito in ginocchio sotto il sedile metallico, con del sangue che gli colava dalla testa e il braccio sinistro, forse rotto, che gli faceva un male terribile. Le due guardie gridavano bestemmie. Loro vedevano cosa stava succedendo. Lui no! All’improvviso un gran colpo, il rumore di vetri che andavano a pezzi poi… un silenzio incredibile. Il furgone aveva terminato la sua corsa contro qualcosa di solido. Sentì le guardie che, chiamandosi per nome, si chiedevano reciprocamente se avessero riportato danni. A nessuna di loro fregava nulla di lui. Una di loro aprì la porta per uscire dal furgone coricato. Li udì raccomandarsi di portare con sé le armi. Ne sentì una dire che andava a fermare le auto che sopravvenivano. Non sembrava esserci molto traffico poi ne udì una frenare e altre a mettersi in coda. Sentì le domande della gente che s’informava sulla salute dei due. A lui non ci pensava nessuno e allora si decise a gridare. Nel silenzio risultante ascoltò le guardie che parlottavano vicino al furgone. Sembrava non sapessero cosa fare di lui. Se l’avessero liberato non avrebbero saputo come controllarlo. Una suggerì di allontanare i curiosi e di mettere il triangolo di segnalazione dell’incidente. Senti una guardia che per telefono avvisava la Centrale dell’accaduto. Lui aveva tentato di muoversi ma si era reso conto di trovarsi appoggiato alla porta che gli faceva da pavimento e aveva rinunciato. Cominciò di nuovo a gridare aiuto. Qualcuno gli rispose ordinandogli prima di non urlare (senz’altro una guardia) e poi che problemi avesse. Lui lo mise al corrente del suo braccio rotto (o forse no ma non lo disse), del sangue che colava dalla testa (si era ormai raggrumato ma non lo disse) e della sua scomodissima posizione. Lo avrebbero liberato a breve. Non fu così breve. Dovette attendere che arrivasse un’ambulanza da chissà quale paese vicino. Lo liberarono a fatica da quello sgabuzzino, un medico gli bloccò il braccio e ripulì la ferita al capo poi, scortato da una delle guardie, lo accompagnarono all’ospedale Pertini di Roma, dove lo misero in una camera singola con un agente della Penitenziaria alla porta a controllarlo 24 ore su 24. Gli ricucirono il taglio alla testa, ingessarono il braccio e lo sottoposero a un sacco d’esami. Ci rimase un paio di settimane. Fu il suo avvocato a venirlo a prendere. Era stato affidato agli arresti domiciliari presso di lui che si era portato garante, mettendogli a disposizione il proprio vecchio studio in Viale Mazzini. Durante il giorno sarebbe potuto uscire quattro ore per sbrigare i propri affari personali, purché non si allontanasse dal Municipio I, Prati. Lo avrebbero controllato i carabinieri, soprattutto in serata o mattina presto. Bastava attendere il processo d’appello. L’avvocato era sicuro che l’avrebbero avuta vinta (plurale sempre ottimistico). I Governi nigeriano e tanzaniano, si erano ritirati dal processo e così, senza nessuna denuncia da parte loro, la truffa sarebbe decaduta. Probabilmente sarebbe tornato in possesso di tutti i suoi averi (ecco perché della generosità del suo avvocato) anche se avrebbe (singolare sempre pessimista) dovuto pagare una grossa multa per evasione fiscale non avendo mai dichiarato nulla. Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano. "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
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