Rose nere

aut. NovelleVesperiane

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  1. mangal
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    Dio della penna

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    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro,
    ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.

    Sulla tomba solo questo, né nome, né un ritratto. Solo la scritta e una donna in ginocchio sulla gonna merlettata, con il capo chino e il viso madido di lacrime e pioggia. Sulle gambe un bouquet di rose nere, tra le dita un fazzoletto ricamato ed arrossato dalla tosse. Un’anima troppo presto lasciata sola, un bocciolo reciso in quella giornata uggiosa. Non era strano che Anthon l’osservasse.
    Era bello, alto e giulivo. Soprattutto, era perverso. La pestilenza scorreva la sua falce sul Continente e lui la seguiva. Godere gli riusciva difficile ed i suoi sensi pare trovassero gioia soltanto nel consolare un cuore straziato, per il solo gusto di abbandonarla ancora.

    L’uomo sorrise, ripensando ai molti nomi segnati sul suo taccuino.
    «Quale invidia gli Dei devono aver provato, per aver dato a questo viso ragione d’esser così turbato?»
    Gli occhi di lei rotolarono ingenui sull’abito dell’uomo sino al viso cadendo poi nella cupola del parasole con cui la riparava dalla pioggia.
    «Gli Dei non si scomodano per così poco. I Diavoli, al contrario, gioiscono nel privare il mondo dei suoi esemplari migliori.»
    L’uomo sospirò.
    «Siete dunque modesta quanto tormentata. Vi capisco. Anche io sono stato privato di un ‘si fatto esemplare con cui speravo di condividere i miei giorni e la mia fortuna.»
    «Me ne rammarico. Il morbo pare ormai accomuni nella sua tragedia la contea tutta. Non sembrate di queste parti…»
    «Non lo sono. Avevamo in progetto al prossimo equinozio di sfuggire alla piaga tra queste verdi campagne. Ma, ahimè, il morbo m’ha doppiamente preceduto. Avevo trattato per la tenuta Loomcastle un buon prezzo, ma non mi va di vivere solo dove già mi ero immaginato in compagnia. Sono qui per sbrigare le beghe legali.»
    La ragazza annuì: conosceva la tenuta. Del resto, Anthon era procuratore legale per una società che trattava immobili, il che lo rendeva abilissimo nell’accordare le sue fandonie al luogo in cui fosse.

    «Non capisco, però, cosa vi porti al cimitero.»
    Anthon arrossì volgendo lo sguardo altrove.
    Pausa.
    Sospiro.
    «Seguo voi.»
    «Perché mai?»
    Sorriso amareggiato.
    «Mi ricordate la mia povera Sofie: avete di lei lo sguardo tenero e l’incedere aggraziato. Non credevo ai miei occhi! Vi sembrerà sciocco, ma è così.»
    «Lo trovo romantico, invece.»
    La ragazza arrossì stringendo le scapole, poi sollevò il bouquet per annusarne il profumo.
    Anthon si sentì soddisfatto: stava andando bene. Le posò una mano sulla spalla, ma senza lascivia né trasporto.
    Un gesto di conforto, come la carezza di un vecchio amico.

    «Come mai piangete su una tomba senza nome?»
    «È usanza di famiglia riportare soltanto questa frase. Siamo davvero “infelici a modo nostro”. Il patrimonio si va estinguendo e la sfortuna ci perseguita.»
    «Piangete dunque un consanguineo?»
    Lei sorrise aggraziata, poi si rabbuiò.
    «No, mio marito. In vero, non ho potuto godere del suo tepore che per pochi giorni, ma l’ho amato molto. Riservargli questa sepoltura è un modo per sentirlo più vicino»
    «Ma così né il so nome né il suo volto saranno ricordati!»
    «Non importa. Li porterò con me in eterno e tanto basta. Guardate il resto di questi vecchi marmi e ditemi, di uno di loro vi ricorderete? La memoria è un capriccio suscitato dalla brevità della vita e dall’infallibilità della morte. Allungare i nostri giorni nel creato è difficile, così ci accontentiamo del ricordo; ma rispetto al cammino dell’eternità, entrambe quelle strade sono insignificanti e non conducono che a frustrazione, tormento e dannazione. Accettare la finitezza è deludente, ma infinitamente più saggio.»
    Anthon non era solito pensare all’infinito, alla morte, né al tormento o alla dannazione. Adorava i piaceri del presente, lo sperpero dei beni terreni e la carne viva. Eppure, ascoltando quell’ultima frase, un brivido lo aveva scosso. Come se di colpo la morte stessa, con tanto di falce nera, gli avesse mostrato la clessidra su cui era inciso il suo nome. Quanti granelli mancavano?

    Allontanò quelle tetre fantasie prendendo l’astuccio delle radici di liquirizia e, dopo averne offerto alla ragazza, ne strinse una tra le labbra. L’amaro sul palato avrebbe scacciato quello nella testa.
    «Come si chiamava?»
    «Chi?»
    «Suo marito.»
    «Mi scusi, sono ancora sconvolta. Thomas. Ma, vi prego, non siate tanto crudele da farmi parlare di lui.»
    Lei si fermò. Guardò mesta la tomba, ma non le riuscì di piangere. Anthon capì che era il momento. Le cinse la spalla col braccio, abbassò il volto all’ orecchio di lei e sussurrò
    «Come vi chiamate?» «Isolde»
    Pausa. Labbra socchiuse.
    «Isolde, non siamo fatti per piangere in solitudine. Lasciatevi andare.»
    Isolde tremò. Quando si girò, le sue guance erano rosse, i suoi occhi dolcissimi e grandi. Si strinse a lui come la bambina che forse troppo presto aveva smesso di essere.
    Pianse.
    Si sfogò singhiozzando ad occhi bassi sul petto di quel magnanimo gentiluomo che inosservato, pregustando i frutti del suo successo, si concesse un perfido sorriso.

    Anthon si destò nel cuore della notte. Le rosse lenzuola in cui era disteso erano intrise dl soave profumo della donna che vi aveva posseduto, ma lei non c’era. Si sentiva leggermente confuso, ma il sentore di Gin sulla lingua testimoniava come tutto fosse andato per il meglio.
    La stanza aveva uno stile barocco, ma non ricordava se si trattasse della casa di Isolde o di un albergo. In tal caso, la spesa sarebbe stata onerosa, ma non importava. Poche gocce dalla vecchia fiala e la ragazza si sarebbe svegliata a mattino inoltrato, quando lui sarebbe stato ben lontano.

    Era il momento perfetto per concedersi la raffinatezza che da sempre lo eccitava. Al lume di candela segnò in bella calligrafia sul taccuino
    “ Isolde, sposa disperata che perse il suo Thomas. Chiara di pelle, scura di crine, profumo dolce, bocca freschissima. Buono il seno, perfette le natiche. La migliore dall’ultimo solstizio. Penserò ad un modo per far ritorno.”

    Cercò sul cuscino un capello corvino, prese la candela e con poche gocce lo fissò alla pagina appena vergata. Soffiò sulla cera per farla rapprendere, poi ripose il tutto nel bagaglio. Soddisfatto, guardò fuori. Oltre i vetri della finestra a goccia, una pioggia fredda bagnava la notte. Una luna pallida appena s’intuiva tra i nembi sfilacciati del temporale. In basso, i rami dei roseti si intrecciavano, rendendo il giardino un nero rostro di spine. Non aveva memoria di esservi stato, ma aveva il vago ricordo di essersi punto.

    La porta cigolò ed Isolde, avvolta in una vestaglia scarlatta, gli venne incontro. Il suo sguardo disinibito non lasciava dubbi sulla sua condotta.
    «Che ospite terribile l’alcol: conduce per strade meravigliose ma non lascia ricordi.» le disse.
    «Se lo credete, altrettanto terribile vi parrà la vita»
    Lei sorrise serrando le labbra, ma ad Anthon quel paragone non piacque affatto.
    «…non saprei. Ma è un peccato che nulla mi rimarrà dei nostri giochi nel roseto.»
    Così dicendo, mostrò il palmo della mano punto e graffiato in più punti.

    Isolde posò i suoi splendidi occhi nei suoi, poi di scatto si girò. Con un gesto teatrale la veste volò via. Accompagnata soltanto dalla sua voce suadente, ai incamminò al letto mostrando la schiena.
    «Un crudele destino, a cui so porre rimedio.»
    Raccolse il bouquet dal materasso e con un gesto sinuoso ne sfilò una rosa nera. Anthon sorrise. Aveva già recitato altre volte quel copione. Sbottonò la camicia e si distese al suo fianco offrendo il torace. Cercò il suo viso, ma lei, dispettosa come solo l’eros sa essere, lo nascose nel bouquet concedendogli appena la maliziosità del suo sguardo. Tanto bastò ed avvampando le si consegnò. Quando lei scorse su di lui lo stelo spinato, non si oppose, assaporando ogni istante di quel dolce supplizio.
    Più volte la cerimonia si ripeté, spingendosi via via in luoghi più audaci; senza che mai lei gli concesse il volto che lui tanto bramava. Ad un tratto, vinta dalla foga crescente, la mano di Anthon scattò versò il bouquet. Isolde, repentina, si ritrasse ridacchiando. Lui fece per alzarsi, ma lei, con un unico tocco all’apparenza leggerissimo lo rimise disteso. Deluso e sorpreso la fissò. Lei, scuotendo le lunghissime ciglia, disse
    «Se di questo gioco sei stanco, ne conosco uno nuovo»
    «Si, ti prego. Uno che mi conceda ai tuoi baci»
    «Allora, chiudi gli occhi e resta immobile. Farò a te quel che già piacque tanto al mio Thomas.»
    Atnhon sussultò.
    Obbedì.
    Nulla.
    Poi, il tocco di Isolde, gelato dalla notte, raggiunse i suoi piedi. Le dita scorsero sin alle caviglie, mentre il corpo passava nel solco da quelle tracciato. Le morbide forme, arrampicandosi lungo le lenzuola, lo percorsero. Quando fu su di lui del tutto distesa, gli cinse i polsi in una salda morsa. Ciuffi corvini gli coprirono il viso. Tra la spalla e l’orecchio le labbra morbide si posarono.
    «Anthon, sappiate che adoro il vostro collezionismo.»
    Lui storse le labbra. Cosa voleva dire? Istintivamente provò a sollevarsi, ma fu inutile. Quel delicato, sensuale corpo si rivelò dotato di una forza insormontabile.
    Sensuale lei rise, poi in un sussurro aggiunse.
    «…annoterete sul vostro libricino il bacio della Contessina Loomcastle.»

    Anthon trasalì.
    Gli ultimi nobili erano stati giustiziati secoli fa.
    Era impossibile!

    Impossibile come le zanne che gli trafissero il collo; come il fatto che ricordasse di colpo quante tombe in quel cimitero avessero il medesimo epitaffio; come il cuore che si svuotava mentre il cervello restava vigile.
    Impossibile come il fatto che ammirando quell’incantevole figlia delle Tenebre nutrirsi del suo sangue, provasse finalmente quell’appagamento che da sempre gli era mancato.

    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    “Nel complesso”, rifletté, “sarebbero potute andare decisamente peggio”.
     
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