La bottega della felicità

aut. Byron RN

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    Dio della penna

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    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive. È sempre stato così, solo che non ce ne siamo mai accorti per davvero, intenti come eravamo a rincorrere sogni troppo grandi da lasciare ad ammuffire dentro un cassetto. Avevamo tutto e non lo sapevamo. Poi arrivarono gli anni del buio e tutto cambiò. Prima i morti per la malattia, poi quelli per la crisi economica: imprese chiuse, licenziamenti, scontri di piazza e in ultimo i suicidi. All'inizio non tantissimi, ma in assenza di aiuti importanti e con la perdita della speranza, per un periodo piuttosto lungo si arrivò a contarne più di cento al giorno. Lo stato e il governo, come al solito, si trincerarono dietro il muro della loro incapacità, ignorando quel malessere e adoperandosi unicamente per arginare la violenza dilagante. Anche la mia città non faceva eccezione. Come tanti avevo perso il lavoro, però preferivo impiegare il mio tempo in maniera utile, piuttosto che macerare lentamente nella disperazione. Così avevo preso ad aiutare Don Fausto, il parroco del mio quartiere, con la gestione della mensa per i poveri e con le consegne a domicilio dei pacchi spesa per i vecchietti più disagiati. Un pomeriggio, mentre stavo apparecchiando con altri volontari i tavoli per la cena, mi si avvicinò. Mi guardava con un'espressione bizzarra, uno strano mix di compiacimento e perplessità. Gli occhi gli brillavano di una luce intensa e un sorrisetto appena accennato gli decorava gli angoli della bocca.
    «Davide, oggi ho parlato con tua madre» mi disse prendendomi sottobraccio e accompagnandomi lentamente nel suo ufficio.
    La cosa non mi sorprendeva visto che mamma era un'assidua frequentatrice della parrocchia. Mio padre era morto da qualche anno e per lei la chiesa
    rappresentava una sorta di svago dai brutti pensieri.
    «Mi ha portato la sua favolosa torta di mele e abbiamo chiacchierato un po' del più e del meno. Ho scoperto che quando eri più giovane hai lavorato come animatore nei villaggi turistici.»
    «Sì, è così» dissi sorridendo e accomodandomi sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Ricordare quel periodo mi metteva di buon umore. «Mi piaceva da matti quel lavoro, anzi, non era neppure un lavoro, ma uno spasso. Far divertire le persone mi faceva sentire così vivo! Poi dopo i trent'anni ho abbandonato tutto per un'occupazione che mi desse maggiore stabilità.» Quell'ultima parola mi strappò una risata cupa, congelando d'un botto la mia allegria.
    «Non devi fartene una colpa, nessuno sa cos'ha in serbo il futuro per ognuno di noi» disse Don Fausto, cercando di rincuorarmi. «Se all'epoca hai scelto così vuol dire che così doveva essere.» Continuava a guardarmi in modo furbesco, sempre con quel mezzo sorriso di chi la sa lunga. «Sai, credo che se anche non hai studiato teologia, tu non sei tanto diverso da un prete.»
    Quella battuta mi fece riappacificare con la gioia. Risi di gusto, cosa che ultimamente accadeva assai di rado. Un prete io? La cosa era esilarante. Mi domandai se Don Fausto avrebbe continuato a pensarla a quel modo anche dopo essere venuto a conoscenza dei miei peccati di gioventù.
    «No, dico davvero» confermò il sacerdote, ridendo con me. «In fondo anche quello che facevi in passato aveva a che fare con la cura dell'anima. Far divertire le persone ti faceva sentire bene, anzi vivo, per usare le tue parole. Non sai quanto sia importante e meritoria questa attività. Soprattutto oggi.»
    Mentre pronunciava quelle parole il suo sguardo si era fatto più intenso.
    «Ti sei accorto che nessuno è più felice? E non parlo della felicità con la effe maiuscola, quella che se sei fortunato ti può capitare di sfiorare poche volte nel corso di un'esistenza. No, parlo della felicità semplice, quella delle piccole cose, dei piccoli miracoli della vita.»
    «Già» risposi con mestizia. Le cose stavano proprio in quei termini. «C'è una gran desolazione. Tutti quei poveretti là fuori sembrano un mucchio di
    anime pronte per il macello. Anche io a volte mi sento così.» Un po' mi vergognavo a dire quelle cose proprio a Don Fausto, ma era la verità.
    «Davide, neppure il vaccino è riuscito a riaccendere la speranza. Sul mondo è calata una cappa scura che impedisce al sole di colorare il cammino degli uomini. Siamo esseri di luce e di energia...Non siamo stati programmati per vivere una vita in bianco e nero troppo a lungo. Il corpo ha bisogno di essere nutrito, ma la stessa cosa vale per lo spirito.»
    Si lasciò scappare un sospiro, poi alzò lo sguardo al soffitto. «Dobbiamo fare qualcosa, dare un segnale, un piccolo esempio. Non possiamo stare fermi e assistere al disastro.»
    Fissai Don Fausto ammutolito: potevamo davvero fare qualcosa? In tutta sincerità credevo di no, poi lui mi spiegò ciò che aveva in mente.

    La bottega della felicità, così la chiamammo, un luogo dove gli abitanti del quartiere potevano dimenticare la disperazione nutrendosi di vita. Don Fausto si ispirò alle antiche botteghe rinascimentali, luoghi di salvezza dell'anima, rifugi in cui era possibile imparare un'arte o una professione e sviluppare le proprie inclinazioni. “Il corpo ha bisogno di essere nutrito, ma la stessa cosa vale per lo spirito”, aveva detto la volta in cui mi aveva esposto il progetto. Così iniziammo a scandagliare il territorio locale in cerca di musicisti, pittori, ballerini, disegnatori, attori, scrittori e poeti, artisti e uomini di mestiere, gente disposta a insegnare e condividere con gli altri un po' della propria arte e del proprio sapere. Imparare un accordo di chitarra, il passo di un ballo, l'uso sapiente dei colori, la costruzione di una rima, recitare un passo dell'Amleto, forse erano piccole cose, tuttavia col tempo mi accorsi che contribuivano a far stare meglio le persone. In un paese senza lavoro, dove i sussidi statali erano sempre inferiori ai bisogni reali e dove le mense per i poveri aumentavano giorno dopo giorno, erano come delicate carezze per l'anima.
    In tutto questo io davo il mio contributo: consolavo, consigliavo, ascoltavo. Sì, soprattutto ascoltavo, perché era la cosa di cui la gente aveva più bisogno. Misi mano anche a parte del repertorio che utilizzavo nella mia vita
    passata da animatore: in fondo è anche per quello che Don Fausto mi aveva coinvolto nel suo progetto visionario. Organizzavo giochi, mettevo della musica, insomma, cercavo di tenere su il morale nei limiti del possibile. Una cosa mi riuscì meglio delle altre. Ogni venerdì pomeriggio, prima di chiudere, mettevo su Hymn for the weekend dei Coldplay. Ci radunavamo tutti nel piazzale antistante la bottega e iniziavamo a ballare come nel video. Al posto delle polveri colorate lanciavamo in aria fiori di carta di ogni colore, realizzati nel corso dei nostri laboratori creativi. Col tempo divenne qualcosa di unico: ballavamo tutti senza vergogna e senza pudori, ridendo o piangendo, così come ci andava, in una sorta di comunione atta a esorcizzare il male. Sì, quello era il nostro manifesto alla resilienza, in attesa di giorni migliori.

    Nella mia via abitava un uomo di circa settant'anni che era rimasto vedovo da poco. Lo vedevo spesso camminare per strada, ingobbito, lo sguardo basso. Non parlava con nessuno, rintanato com'era nel suo guscio di dolore. Era come se avesse arrotolato la sua anima, come si fa con un vecchio tappeto abbandonato in soffitta. Mi dispiaceva vederlo in quello stato, così un giorno lo avvicinai per invitarlo alla bottega della felicità. Non mi prestò molta attenzione, anzi, non mi rivolse neppure la parola, perciò quando qualche tempo dopo lo vidi venirmi incontro alla bottega restai sorpreso.
    «Cos'è che fate di preciso, qua?» mi chiese Giuseppe, grattandosi la testa.
    «Un po' di tutto» risposi con un sorriso ebete sulla faccia. «Pittura, chitarra, recitazione e tante altre cose. A lei cosa piace fare?»
    «Di sicuro non mi piace suonare. E neppure dipingere o recitare. Per caso avete un orto?»
    «Un orto?»
    «Sì, quei piccoli pezzi di terra dove puoi coltivare ogni genere di ortaggi.»
    «So cos'è un orto» risposi sorridendo e scuotendo la testa «però no, non ce l'abbiamo.»
    «Oh!» esclamò rattristandosi, «è un vero peccato. Mia moglie aveva sempre
    desiderato che coltivassi un piccolo orticello, ma la mia pigrizia ha sempre avuto il sopravvento. Non ci ho mai provato, e ora... Insomma, credevo che ora avrei potuto esaudire quel suo desiderio, anche se con qualche anno di ritardo.» Giuseppe guardava un punto indefinito alle mie spalle: aveva gli occhi lucidi. Alzò la mano per salutarmi, poi si girò, ma io lo fermai. Non volevo che se ne andasse così; d'altra parte quella era o no la bottega della felicità? Dietro la chiesa, al confine col campetto da calcio, c'era una striscia di terreno dove erano accatastate un po' di cianfrusaglie: vecchie panche, una lavatrice rotta, carcasse di biciclette. Pensai che magari potevamo sfruttare quello spazio in un altro modo e fu così che l'orto si aggiunse all'elenco di tutte le nostre attività ricreative. Tra me e Giuseppe si instaurò un bel rapporto, di profondo affetto, e appena mi era possibile lo aiutavo. Lui era di poche parole, ma ricordo con piacere una chiacchierata che facemmo sul finire di agosto, mentre eravamo impegnati a seminare zucchine, lattuga e carote.
    «Sai Davide, sono contento di averti conosciuto» mi disse mentre trafficava col terreno. «La mia adorata moglie, pace all'anima sua, mi ha regalato quattro belle figlie, ma io avrei tanto voluto un maschio. Mi sarebbe piaciuto portarlo a vedere la partita, oppure al parco per tirare quattro calci a un pallone, ma non ce la siamo sentita di fare un altro tentativo. È buffo, ma quando siamo insieme faccio finta che tu sia quel figlio che ho sempre desiderato.»
    «Anche io faccio finta che tu sia un po' il mio papà» risposi d'istinto. Mio padre era morto all'età di cinquantasei anni e non me l'ero goduto appieno. Forse quella confessione non era poi così lontana dalla verità.
    «Sono contento» rispose lui, regalandomi uno dei suoi rari sorrisi. «Spesso bisogna giocare a ingannare la realtà. Dobbiamo godere delle piccole cose e imparare ad apprezzare il momento.»
    Quella sera, quando ritornai all'appartamento che dividevo con mia madre, vidi mio fratello e mia nipote sulla bici, davanti al cancello, pronti per andare via. Venivano spesso a trovarci. Udendo la mia voce, Gaia si girò nel seggiolino posteriore, gratificandomi con un sorriso colmo di sorpresa e di gioia. Corsi verso di lei e l'abbracciai. Mentre la stringevo pensavo che il momento perfetto esiste: sarei potuto rincasare cinque minuti dopo e non trovarla, oppure cinque minuti prima e salutarla dentro casa, ma l'effetto non
    sarebbe stato lo stesso. Quando mi salutò con la manina e si allontanò col suo papà, un groviglio di emozioni mi strinse le viscere. Pensavo a Gaia, alle parole di Giuseppe, alle persone della bottega della felicità, al mondo che galleggiava nel caos e soprattutto a quelli che non facevano nulla per migliorare quella situazione. Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva ancora pompare: “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”
     
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    Caro Byron,

    bella idea questa bottega della felicità. Il tuo racconto risente evidentemente del periodo buio in cui stiamo vivendo, per cui vuoi trasmettere un messaggio positivo. Certo, spero che non si arriverà mai a una situazione come quella che ci hai ben descritto, poiché significherebbe aver toccato il fondo da cui sarebbe quasi impossibile risalire. Ciò che inquieta, aldilà della felicità che tutti bene o male meritiamo, è la profonda verosimiglianza della tua storia, ovvero qualcosa che potrebbe accadere veramente, una debole luce in mezzo a un mare di tenebre.

    Tra le righe colgo, mi correggerai se sbaglio, qualcosa di autobiografico, soprattutto riguardo al passato. Hai fatto l'animatore in gioventù?

    Mi sono piaciuti i tuoi personaggi: il protagonista, Davide, è una sorta di sacerdote del divertimento, un dottore del sorriso. Anche lui travolto da una situazione tragica, riesce comunque a trasmettere positività, a se stesso e agli altri. Don Fausto (mi è venuto subito in mente Mangal XD ) è il prete che tutti vorremmo avere, uno che sta simpatico a tutti i costi, anche ai miscredenti come me. Ma esistono ancora certi preti?

    Giuseppe, ancorché personaggio secondario (attenzione: non in ombra, ma di contorno e complemento alla "bottega"), è ben caratterizzato. Tra le varie attività proposte, l'orto ci mancava ed è stata una bella sorpresa. Quanto ai figli maschi che Giuseppe non ha mai avuto, beh, hai toccato un tasto dolente.

    La scrittura è corretta, la lettura risulta facile e scorrevole. Ti segnalo due stupidaggini sulla punteggiatura precisando che sono a mio gusto, non per forza errori:

    CITAZIONE
    Prima i morti per la malattia, poi quelli per la crisi economica: imprese chiuse, licenziamenti, scontri di piazza e in ultimo i suicidi.

    Dopo "ultimo" avrei messo una ,

    CITAZIONE
    Poi dopo i trent'anni ho abbandonato tutto per un'occupazione che mi desse maggiore stabilità.

    "dopo i trent'anni" l'avrei messo tra due ,

    CITAZIONE
    Lui era di poche parole, ma ricordo con piacere una chiacchierata che facemmo sul finire di agosto, mentre eravamo impegnati a seminare zucchine, lattuga e carote.

    Una pignoleria. Fine agosto, strano periodo per la semina.

    Insomma, semplici e ben cucinati 'sti spaghetti va.
     
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    Con i suicidi hai toccato un tasto dolente. Ho letto da qualche parte che, sebbene alla cosa non venga dato risalto mediatico per tanti motivi (anche per il timore dell’emulazione), sembra che quella dei suicidi sia una vera emergenza, negli ultimi anni.
    Quando l’ho letto, ho fatto mente locale e mi sono resa conto che, negli ultimi anni, cinque persone che conoscevo (a diversi gradi di vicinanza) si sono suicidate. Non è poco.
    Davvero bella, l’idea della bottega dell’anima.
    Credo che questo sia un po’ un racconto che mette in scena il tuo mondo interiore: la tristezza, il senso di morte, poi il riprendersi, nel fare emergere una funzione psichica (don Fausto) che mette in luce l’importanza di riattivare le parti creative e vitali della psiche.
    Penso anche che nel racconto siano finiti tanti elementi autobiografici.
    Scritto bene. Mi sembra che, dopo anni di ondeggiamento, la tua scrittura abbia raggiunto una sua stabilità, per quanto riguarda correttezza, fluidità, coesione e coerenza.
    Avrei giusto aggiunto qualche virgola, ma niente di fondamentale ai fini della leggibilità.
    Incipit ed excipit sono ben integrati.
    Davvero un buon lavoro.
     
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    Ciao Byron,

    commento il tuo racconto utilizzando un mio schema. Eccolo:

    _Scrittura: la lettura scorre piacevole. I dialoghi sono ben scritti: ti prendono. Pochi elementi di descrizione riescono a ben caratterizzare il singolo personaggio. Anche i discorsi lunghi -come quello di Giuseppe- sono tenuti, non si perdono. L'unica cosa sono nella parte centrale quelle sequenze di nomi, di attività ricercate dal protagonista che al mio orecchio creano una distrazione, fanno perdere il ritmo, forse potrebbero essere accorciate.
    _Contenuto: la storia ha un punto di inizio già visto, purtroppo conosciuto e vissuto da ognuno. Però mi è piaciuto incontrare un personaggio -Davide- che non
    si lascia andare, che vuole comunque dare senso alle sue giornate. E il punto di svolta mi appare ben raccontato:
    "Mi guardava con un'espressione bizzarra, uno strano mix di compiacimento e perplessità. Gli occhi gli brillavano di una luce intensa e un sorrisetto appena accennato gli decorava gli angoli della bocca.
    «Davide, oggi ho parlato con tua madre» mi disse prendendomi sottobraccio e accompagnandomi lentamente nel suo ufficio."

    Un sorriso, un abbraccio ti cambiano il mondo!
    _Bicipit: Incipit e excipit vestono il tuo racconto come un abito sartoriale. Complimenti.
     
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    Penna furiosa

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    Ciao.

    Anzitutto qualche sciocchezza:
    In questa frase avrei cambiato il tempo verbale: "«Se all'epoca hai scelto così vuol dire che così doveva" avrei sostituito 'hai' con 'avevi'.
    Nella frase " Un prete io?" avrei messo una virgola dopo prete, per dare maggior enfasi.
    Ehm... anche io ho avuto un orto.. ma " sul finire di agosto, mentre eravamo impegnati a seminare zucchine, lattuga e carote." se semini una zucchina a fine agosto, vai poco lontano, caro mio ;) :D

    Per quanto mi riguarda hai proprio toccato un tasto dolente perchè il periodo che hai descritto rispecchia perfettamente quello in cui ci troviamo, cupezza inclusa, e anch'io è da un po' che mi sento avvolta da questa cappa scura di cui vorrei disfarmi.
    LA storia mi è piaciuta molto incluso il parroco "fuori dagli schemi" che ha avuto l'idea geniale di sollevare lo spirito non con le preghiere (o, almeno, non solo con quelle)
    ma con una sferzata di vita data dall'arte.
    Ben scritta, lineare e pulita, è riuscita a illuminare il buio di quel (questo mondo).
    Incipit ed Excpit molto ben inseriti nella storia.
    Un'ottima prova.
     
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    Grazie agli amici scrittori per i commenti e le belle parole. Mi fanno davvero piacere.

    CITAZIONE (Stefia @ 1/12/2020, 12:18) 
    Ciao.


    Ehm... anche io ho avuto un orto.. ma " sul finire di agosto, mentre eravamo impegnati a seminare zucchine, lattuga e carote." se semini una zucchina a fine agosto, vai poco lontano, caro mio ;) :D

    Stefia, non ne so mezza di orti e ortaggi. Mi sono fidato di internet, mi aveva messo anche le zucchine XD
     
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    Ciao Byron

    bella, bella storia. Sei rimasto nel tema della semplicità dall’inizio alla fine, senza mai cedere alla tentazione di osare un linguaggio più ricercato. Apprezzo molto questo stile scarno, ma pulito.
    La storia ci porta un passo avanti nel futuro e, purtroppo, lo scenario è più che plausibile.
    Molto bella la figura del sacerdote che riesce a riattivare la positività di Davide facendolo attingere al ricordo delle sue esperienze migliori. Altrettanto bella la figura di Davide che sposa in pieno l’idea della bottega e fa di tutto per realizzarla. Anche il vedovo è una figura ben caratterizzata con quel dolore palpabile per la perdita della compagna (cosa che hai reso benissimo).
    Integrati perfettamente incipit ed excipit. Un finale che lascia intravedere una bella luce in fondo al tunnel.
    Mi è proprio piaciuto tanto.
     
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    [QUOTE=Molli Redigano,29/11/2020, 17:09 ?t=78087201&st=0#entry645550845]


    Tra le righe colgo, mi correggerai se sbaglio, qualcosa di autobiografico, soprattutto riguardo al passato. Hai fatto l'animatore in gioventù?

    Qualcosa di autobiografico c'è, non tantissimo ma qualcosa sì. In quanto all'animatore, no Molli, non l'ho mai fatto. Qualche tempo fa facevo il pagliaccio con gli amici, ma ora ho smesso pure di fare quello nella mia progressiva trasformazione in orso brontolone =)
     
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    I commenti sopra hanno già detto molto, se non tutto.

    Un racconto figlio di questi strambi momenti che ci tocca vivere. Pensavo fosse uno di quei racconti mesti e senza luce all' inizio...
    Ma mi sbagliavo. É luminoso. Vuole riaccendere quella voglia di vivere che stiamo perdendo e lo fa partendo dalle cose semplici.

    Mi é piaciuto leggerlo, mette di buon umore
     
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    Dovremmo avere tutti a disposizione in ogni angolo del mondo una bottega della felicità ove scacciare tutte le preoccupazioni e malinconie che purtroppo in questo particolare momento stiamo attraversando.
    Mi è piaciuta tutta la semplicità nell'esposizione del racconto e mi ha commosso la parte finale, avvertire quell'istintivo affetto come tra padre e figlio.
    Incipt ed exicipt calzanti a pennello. Ottima prova!
     
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    Un racconto bello efficace che ti entra dentro, figlio dei nostri giorni. Cercare quelle piccole felicità che fanno star bene quando tutto intorno va a rotoli è essenziale. Certo è bello pensare che esistano persone come il prete e il tuo protagonista che diventano supereroi che nutrono l'anima . ben tratteggiativi protagonisti, mi è piaciuto anche l' inserimento dell' orto come cura della malinconia. Racconto ben inserito tra incipit ed excipit . complimenti.
     
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    Non ti credo quando dici che non è autobiografico. Quel valore aggiunto io ce lo vedo. Specialmente quando accenni a tuo padre.
    Racconto robusto, ricco di problemi reali.
    La figura di Giuseppe mi ha molto colpito. Timido, schivo, chiede di poter coltivare un orto.
    Pure tu, autore, chiedi poco.
    Ma tutti ti sono intorno, l'ho letto nei commenti.
    E tutti ti vogliono bene.
    Come a un figlio.
     
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    Una storia colma di oscurità in cui brilla una luce di speranza, la bottega della felicità, in cui chiunque può trovare riparo.
    Non so quanto una realtà di questo tipo possa prevenire una decisione di suicidio già presa. L'argomento mi tocca da vicino e penso che, una volta che l'idea ha preso forma e consistenza, ci sia poco che si possa fare.
    Ma la bottega della felicità potrebbe sicuramente prevenire, evitare che l'idea di morire prenda forma e si tramuti in qualcosa di più concreto di un'idea.
    La bottega della felicità può impedire che l'idea del suicidio diventi progetto e poi realtà.
    Le attività ricreative impegnano la mente e appagano. L'ortoterapia, ad esempio, che per Giuseppe è la realizzazione di un desiderio della moglie, a oggi è molto utilizzata per il trattamento della depressione e sembra che dia risultati soddisfacenti.
    Un bel racconto, scritto bene, che non nasconde problemi reali e sempre più diffusi.
    Bravo.
     
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    La bellezza salverà il mondo, come disse quel tale. E io credo che anche l'allegria, e la solidarietà lo potranno fare. Bella storia Byron, realistica e convincente. E scritta molto bene. Bye. :)
     
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    Un racconto di formazione che ha più di un pregio: i buoni sentimenti innanzi tutto, il tono, nello stesso tempo serio e sereno, che mi ha ricordato quello che avevo respirato al circolo giovanile cattolico del mio paese, infine la bella scrittura, scorrevole e chiara.
    Ho però un paio di appunti. "...e per lei la chiesa
    rappresentava una sorta di svago dai brutti pensieri." Le parole 'una sorta di svago' mi sembrano stonate, mi sembra meglio 'distrazione' o 'allontanamento' o 'conforto' dai brutti pensieri.
    "...quando eri più giovane hai lavorato..." 'hai' è giustamente colloquiale, ma a me sembra che la mimesi dovrebbe arrestarsi se non serve a caratterizzare il personaggio (don Fausto). Qui potrebbe andar meglio il più grammaticalmente corretto 'avevi'.
    "Don Fausto si ispirò alle antiche botteghe..." invece di 'ispirò' è ,eglio 'si era ispirato' (IMHO, of course).
    Per quanto riguarda il collegamento con l'excipit ho un piccolo appunto. L'esclamazione “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!” dovrebbe essere preparata da un chiara definizione di chi siano i bastardi. Così com'è non è per nulla chiaro.
     
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