La diga sul porto

aut Giancarlo Gravili

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    Dio della penna

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    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Di queste felicità mi nutrivo in ogni perdizione della vita stessa in cui sprofondavo nei miei giorni cupi di odio per me stesso e nei quali raggruppavo i pensieri distrutti da un orologio fasullo spennellandoli con argute argomentazioni sulla bellezza imprescindibile e unica del momento che istantaneamente vivevo.
    Ero dotato di un inferiore io e guardavo con disprezzo il super e tutto ciò che lo raffigurava, persino i supereroi dei fumetti, ai quali il loro creatore aveva concesso poteri soprannaturali che invece io non possedevo per una distrazione fortuita del mio autore o creatore se la parola vi piace di più.

    Ecco questo era il mio pensare e agire sino al giorno in cui incontrai Marilena, i suoi occhi, in un fortuito istante durante lo struscio serale per negozi, incrociarono i miei e tutti e quattro più quattro lenti, due astigmatiche e due miopi, s’incrociarono tra loro in uno strabismo di venere per me e in un non so cosa per lei…
    Figlio degli anni sessanta in quegli ottanta mi districavo tra Le Corbusier e il più classico Sallustio
    cercando di non finire nelle grinfie di quel tavolo da biliardo che ospitava alcune mattinate in cui la mia preparazione architettonica e latina era alquanto scarsa e vi confesso che in quella bettola del porto, al piano interrato, spesso ci si poteva incontrare il professore di matematica e mi sa che la sua impreparazione era nei riguardi degli alunni...
    Tra una bettola e un richiamo ufficiale della preside, alla quale puntualmente promettevo mari, monti e pure colline per un proseguimento d’anno scolastico motivato e seriamente disposto al sacrificio, fui catapultato fuori dalla mia botte di legno proprio dagli occhi cristallini di Marilena.
    E qui partì lo struscio serale del sabato sera vestito da “febbre del sabato” sera con l’aggiunta d’un cappotto di montone rovesciato che indossato ai primi d’ottobre faceva l’effetto d’una stufa a pellet infilata nelle mutande, ma tant’è mi faceva figo e diversamente imbecille dagli altri amici.
    L’argomento occhi cominciava a stufarmi e avrei voluto passare immediatamente a quello delle labbra o delle tette, ma prima dovevo superare il cristallino e pure la cornea di Marilena che pareva interessata al mio sguardo come un lampadario di swarovski che mostra i suoi diamanti nel luccichio delle lampadine.
    Bah… che paragone stupido, vero però come il folle sentimento che cominciava ad annidarsi nella mia mente e quel sentire pulsare le vene aumentava ogni giorno in maniera esponenziale all’incrociarsi delle mie timidezze con la sua esuberanza spontanea.
    Consumai due stivali da cowboy a punta, ricamati a mano da un artigiano che faceva selle per cavalli, ma al termine del rodeo degli strabici riuscì ad attirare l’attenzione di quella ragazza che strusciava il sabato sera per la via centrale e per negozi esattamente come me.
    Cavolo! Allora reciprocamente stavamo cazzeggiando alla stessa maniera e pensare che sarebbe bastato fermarla molto tempo prima di dover acquistare un paio di “Timberland” indistruttibili al posto di quei ridicoli stivali.
    Il dado era tratto e, rendendo giustizia agli studi classici con questa citazione, la minestra stava per divenire un dolcissimo brodo di giuggiole da assaggiare a garganella.
    Fermata obbligatoria durante lo struscio, finto spintone e scambio dei nomi, tutto iniziò così.
    Inutile dire che gli studi andarono a farsi friggere, compresa la preside, e il mio tempo divenne
    solo tempo di felice appagamento totale del momento, e di tutto ciò che un essere umano può godere insieme al mieloso amoreggiamento dei sensi e del corpo e ammetto che ne godeva più l’unità composta di carbonio che l’elevato e puro spirito ultraterreno.
    Furono mesi di languide “slinguazzate” in ogni luogo lecito e illecito e senza rendercene conto quel sentimento che pareva appartenere solo ai poeti e agli scrivani dei baci perugina s’andava consolidando in un terreno fertile che nel divenire futuro pareva proprio foriero di frutti, bacche e baccanali.
    In fondo avevo un po’ barato con con me stesso, perché quel sentimento era bello che radicato sin dall’inizio.
    Passammo un Natale illuminati a festa, tra tombolate e smazzate di poker, cullati dagli anni giovani e da quell’Edonismo Reaganiano che era preludio dell’insostenibile leggerezza dell’essere, e cosa vi poteva essere di più elevato per noi se non quella leggera carezza dell’amore e delle sue tentazioni corporali?
    S’arrivò a marzo e la nostra relazione continuò a filare come un treno e io avevo completamente abbandonato ogni velleità di studio, tanto che mi avevano rinchiuso in un barattolo di vetro e depositato in uno scaffale del laboratorio di scienze biologiche in attesa che finisse l’effetto narcotizzante della stagione dell’amore prima della totale bocciatura scolastica.
    L’apoteosi della fine di quello stato ipnotico amoroso non tardo però ad arrivare.
    «Erano cime tempestose e buie...»
    No, rimanete pure tranquilli, non citerò elevati esempi romanzeschi e romanzati…
    Semplicemente fu una passeggiata su una diga di sbarramento al porto che sancì l’apoteosi dell’amore e la sua mesta e tremenda fine.
    Il mare pareva divorare le enormi pietre che costituivano il perimetro della diga, mentre al suo interno le barche ondeggiavano ritmicamente seguendo le folate impetuose del grecale, gli spruzzi d’acqua salivano sin sulla strada e il freddo tagliava labbra e viso donando un aspetto rossiccio e screpolato…
    Le nostre mani erano unite e i nostri occhi non riuscivano a scrollarsi e nemmeno a vedersi chiusi per la passione e per la sabbia mista al sale marino che ci inondava, lì fermi su quella diga.
    Pensavo, credevo nell’amore eterno, nei pupazzi di peluche, negli sguardi profondi, nella vita, nelle conchiglie di mare, nelle clessidre che rivoltano solo momenti felici.
    Ecco cosa pensavo.
    E sbagliavo tutto, ogni cosa che era certezza divenne tempesta e acqua gelida.

    «Sai, ho riflettuto molto sul nostro rapporto e penso che da oggi in poi noi resteremo buoni amici»

    Marilena lasciò scivolare la sua mano, come se il vento la sospingesse via, si girò verso la terra e io rimasi, con lo sguardo abbassato, immobile come le pietre della diga, poi d’improvviso il vento si calmò: l’occhio del ciclone era su di me...
    Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.
     
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    Non riesci a essere serio nemmeno quando racconti una storia vera, perché questa è una storia vera, si sente.
    Il tuo umorismo è l'arma che hai scelto per sdrammatizzare e non ti si può rimproverare nulla. Sei maledettamente bravo a usarlo.
    Tra i miei preferiti.
     
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    Leggere questo racconto è stato un piacere, a partire dalla ricercatezza lessicale.
    Ho apprezzato molto l'ironia nel descrivere l'amore giovanile e tutte le sue conseguenze sul rendimento scolastico (neanche troppo gravi, a giudicare dall'erudizione della voce narrante), fino alla fatidica frase "resteremo buoni amici", una decisione unilaterale espressa però con una prima persona plurale...
    Ti segnalo solo un refuso "riuscì ad attirare l’attenzione" invece di "riuscii ad attirare l’attenzione".
    A parte questo, tutto perfetto.
    Ottimo lavoro e complimenti all'integrazione dell'incipit e (soprattutto) dell'excipit.
     
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    Gradevolissima lettura, a tratti divertente, la facilità dell'uso della parola è la tua seconda pelle.
    Quando una storia finisce e resta l'amicizia, significa che è stata una decisione ponderata e giusta, ottimo racconto!
    Quello strusciare per entrambi i protagonisti è stata sicuramente una piacevole esperienza, specialmente cercando di non scontrarsi con l'incrociar degli sguardi tra miopia
    e strabismo seppur di Venere. Nella vita niente è certezza, il tuo racconto mi ha fatto di certo sorridere!

    Edited by genoveffa frau 1 - 29/11/2020, 20:27
     
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    Ciao e grazie ai primi commentatori, una piccola precisazione sulle giuste note rilevate. La frase «Resteremo amici» è inserita nei caporali bassi proprio per una sorta di immunità grammaticale nel riportare locuzione verbale tal quale pronunciata e che messa così dà tutta l'ironia della situazione in cui risulta ovvio che la decisione non è certo bilaterale nonostante il parlare risulta affermativo come se fosse una conferma a un accordo già preso tra parti.
     
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    messa così dà tutta l'ironia della situazione in cui risulta ovvio che la decisione non è certo bilaterale nonostante il parlare risulta affermativo come se fosse una conferma a un accordo già preso tra parti.

    L'ironia era chiarissima, mi spiace nel caso non si fosse scorta ironia anche nel mio commento di vittima passata di una decisione unilaterale fatta passare come scelta condivisa con un abile "noi" XD
     
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    No, anzi ti ringrazio per il tuo commento che è giustissimo, ne ho approfittato per delineare il concetto anche per gli altri autori, la forza di sps sta proprio in questo scambio di annotazioni che aiutano enormemente a migliorare il proprio modo di esprimersi e soprattutto a comprendere se ciò che si scrive è percepito secondo i canoni da noi desiderati. L'esegesi è fondamentale proprio per questi motivi, grazie ancora.
     
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    gradevolissimo racconto dal lessico ben curato.
    Ho apprezzato questo tuo modo di raccontare leggero, ironico, spensierato, ma in cui si nasconde tutta la malinconia tipica della crescita.
    Purtroppo, non vissuto gli anni di cui parli, ma il ricordo è reso davvero bene.
    Ben scritto davvero!
     
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    Soldato semplice

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    Giancarlo il tuo racconto è piacevolissimo. Lo struscio in quegli anni era per gli adolescenti l'apertura verso quell'universo così lontano e affascinante che era l'altro sesso. Ricordo lunghi mesi di sguardi e di occhiate furtive per vedere se guardava ancora... gli stivali ricamati a punta e il montone rovesciato , insomma non manca nulla. Hai del talento nel narrare con un umorismo che ti è proprio e che cattura il tuo narrare appassionato fatto di lunghissime frasi. l'ironia è palpabile e si fa strada nelle illusioni disincantate dell'adolescenza e in quelle delusioni che lasciano quel senso di amarezza che poi per fortuna svanisce presto, ma si ricorda per sempre. Sei riuscito ad abbinare in maniera eccellente incipit ed excipit, il primo tra quelli che ho letto finora. Bravo. :mazzate.gif: :noviolence.gif:
     
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    Ciao Giancarlo,

    trovo il tuo racconto davvero riuscito, una buona sintesi della tua anima poetica e della spinta ironica che ti pervade. Si ritrova qui il tuo piacere di giocare con le parole, divertirti con loro, ma in maniera meno plateale, in modo da poter amalgamare tutto coi sentimenti, con l'attesa, col desiderio, con l'abbandono. Insomma, tutto molto equilibrato. Sì, con la memoria mi hai riportato agli spensierati anni 80, con la loro leggerezza, le Timberland o i Camperos ai piedi, le cinture e i giubbini vari.
    Mi è piaciuto molto il riferimento al rodeo degli strabici e soprattutto questo passaggioPensavo, credevo nell’amore eterno, nei pupazzi di peluche, negli sguardi profondi, nella vita, nelle conchiglie di mare, nelle clessidre che rivoltano solo momenti felici.
    La cosa che rivedrei è la parte iniziale, dove mancano un pò di virgole e ci si ritrova a leggere facendo la finale dei 100 metri. Non so, magari poi è una scelta ben precisa e voluta.
     
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    Ciao Giancarlo.
    Grazie per averci regalato questa “sferzata” di gioventù. Ricordo perfettamente quegli anni ottanta e la magia travolgente del primo innamoramento. Con la tua abilità sei riuscito a riprodurre quelle emozioni e a farmele rivivere. Compresa la prima grande delusione che ha sancito l’ingresso nel mondo degli adulti.
    CITAZIONE
    Il mare pareva divorare le enormi pietre che costituivano il perimetro della diga, mentre al suo interno le barche ondeggiavano ritmicamente seguendo le folate impetuose del grecale, gli spruzzi d’acqua salivano sin sulla strada e il freddo tagliava labbra e viso donando un aspetto rossiccio e screpolato…
    Le nostre mani erano unite e i nostri occhi non riuscivano a scrollarsi e nemmeno a vedersi chiusi per la passione e per la sabbia mista al sale marino che ci inondava, lì fermi su quella diga.
    Pensavo, credevo nell’amore eterno, nei pupazzi di peluche, negli sguardi profondi, nella vita, nelle conchiglie di mare, nelle clessidre che rivoltano solo momenti felici.

    Tutto questo passaggio è pura poesia.
    Non mi deludi mai Gian.
     
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    Penna stilografica

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    Interessante il trasformarsi del linguaggio man mano che procede la narrazione. Solenne, ricercato, aulico all'inizio, quando il narrante è solo. Fa da contrappunto all'amara ironia con cui descrive la sua vita, tutto sommato vuota.
    Poi, col procedere dal flirt con Marilena, il linguaggio si asciuga, passa a un lessico più usuale, più ricco di immagini (favolosa quella del barattolo di vetro sullo scaffale del laboratorio!), nessuna ironia negli accenni alle attività amorose, e si conclude con la secchiata di acqua gelida che spegne ogni fuoco. "penso che da oggi in poi noi resteremo buoni amici". Il narratore non l'ha detto, ma sono certo che lei si è allontanata proprio nell'istante in cui un immenso maroso si arrampicava sui massi frangiflutti e trasformava lui in un pulcino bagnato.
    Però in complesso ho avuto la sensazione che la costruzione dell'inizio fosse un po' troppo, come dire, artificiale, letteraria, non profondamente sentita, oppure rimossa (allora sì, maledetto Freud, ancora uan volta hai ragione tu).
    Lo testimoniano alcune contorsioni di pensiero, nella frase per esempio "Di queste felicità mi nutrivo in ogni perdizione ..." eccetera. e altre di lettura un po' faticosa. Quì, qualche punto fermo in più non avrebbe fatto male.
     
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    mi è piaciuto, gian, e pure parecchio.
    davvero, non vincerà il premio Bancarella, m a è carico di sarcasmo e ironia misti ad amore che è difficile trovare.
    c'è qualche refuso, ma è roba da poco.
    le descrizioni sono buone e mostrano bene quanto accade.
    ke sensazioni arrivano e, nonostante il sarcasmo, anche le emozioni.
    bella prova.
     
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    Stile inconfondibile, pirotecnico e sempre tendente al paradosso... secondo il mio gusto personale un po' eccessivo: ne basterebbe anche un po' meno. Racconto gradevole, stile personale, un po' ridondante per i miei gusti. Bye. :)
     
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    Nella parte iniziale alcune frasi sono veramente ostiche.
    Quella citata da Mezzomatto, ovvero "Di queste felicità mi nutrivo in ogni perdizione.." l'ho riletta un paio di volte poi sono tornata sul titolo del racconto per rileggere il nome dell'autore:
    "Ma scusa, non è di Giancarlo... eh sì è proprio lui... accipicchia. Mi aspettavo di fare quattro ghignate come nello step Western di Ink e invece... fammi un po' rileggere un attimo 'sta frase."
    Ecco. Questo è quello che mi è passato per la mente quando l'ho letta.
    Eppure si sorride anche in questo racconto: si sorride di noi, di come eravamo e di come le generazioni passino e non cambi mai veramente niente.
    Storia dolce, tenera e comprensiva di crudele secchiata finale come nelle migliori storie.
    Incipit ed Excipit perfettamente integrati.
    Ancora una volta hai dimostrato quanto ti piaccia giocare con le parole.
     
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