| Ginevra è una ragazza prodigio della mia stessa età, del mio stesso banco, della mia stessa ultima fila. Lo specifico perché la classe, dietro, sembra un’altra classe, ognuno cura le sue attività, i suoi interessi , le sue letture. La capacità di gestione di Ginevra mi intimidisce tanto quanto le sue belle ginocchia scoperte, anche se per lei sono soprattutto un ventilatore a pale che mantiene fresco il suo umore. Nulla scalfisce la sua sostanza. Non lo so spiegare bene, e chiedo perdono a Dio se sembra una bestemmia: io credo che lei sia un’anima sovrapposta alla mia, una decalcomania che riesce a cristallizzare pensieri e parole e a guidarli. Con lei interpreto ogni forma di compagno di banco, e quando divento troppo espressivo mi bacchetta dicendo: Ci stai provando? Il massimo della mia capacità attoriale lo sfoderai il giorno che il professore di italiano dopo aver battuto con forza il pugno destro sulla cattedra, urlò: Chi mormora? Una voce sottile e lontana che sembrava non appartenermi e invece mi apparteneva rispose: Il Piave. Ero sempre capace di regalare a Ginevra qualcosa di personale e di imprevisto nonostante la mia timidezza. Lei conquistata dalla velocità e originalità della mia battuta rise a squarciagola come tutti gli altri, e diventai il suo eroe. Ora, trenta anni dopo quella esibizione umoristica, mentre le piattaforme di ghiaccio si sgretolano, comincio a pensare che il caos caloroso di schiamazzi che seguì in quella piccola e fondamentale aula di scuola di periferia potesse essere stato l’inizio dello scioglimento delle calotte polari o almeno in piccola parte aver contribuito alle mutazioni climatiche. Io e Ginevra cominciammo a frequentarci con più continuità e accanimento, anche fuori della scuola, questo è sicuro. I miei amici mi invidiavano, lei era di una bellezza unica. Ufficializzata la coppia in famiglia, e terminata la scuola, avevamo affittato un minuscolo e fatiscente monolocale proprio sopra un supermercato. Lei, all’inizio, si vergognava perfino di fare la pipì perché i muri erano di cartongesso e qualsiasi rumore non veniva placcato. C’era un lungo balcone ricco di fiori affacciato sopra la malinconica sequenza dei posteggi vuoti e male illuminati, dopo ogni sigaretta fumata ritornavamo dentro contenti di lasciare alle spalle lo squallore di quella semioscurità penitenziaria , ma con i calzoni sporchi di foglie e di insetti uccisi. Non so perché io e Ginevra ci allontanammo, all’improvviso. Forse il nostro rapporto smise di funzionare proprio perché funzionava troppo, o perché pur essendo felice di trovarmi in sua presenza avevo cominciato a sentire il bisogno di altra gente, di altri mondi, e pure per lei, credo, accadeva la stessa cosa. Cercai di conservare una mappa per ritrovarla, un minimo contatto. Pur essendo non di rado afflitto da problematiche economiche non le feci mai mancare gli auguri per ogni tipo di festa, accompagnati da un piccolo omaggio: delle rose bianche. Erano le rose bianche i fiori più disciplinati che conoscessi e a quel non colore si poteva affidare ogni sfumatura di sentimento, ogni interpretazione personale. Confesso che da parte sua non arrivò mai un ringraziamento. L’elemento più sorprendentemente moderno di questa storia fu una specie di ravvedimento facilitato da Intuizioni mediatiche, che si trasformò ben presto in stravagante riappacificazione pura tra noi due. Senza manipolazioni, molto spontaneamente decidemmo di rivederci. Lei aveva mantenuto il suo attraente pallore, sembrava un vero giglio della sabbia. Io sulla faccia avevo il riassunto di tutte le mie debolezze, oltre a una esordiente barba grigia poco curata. A lei, comunque, continuavo a piacere. Disse, sorridendo imbarazzata, che ero diventato come un muro del centro, scrostato nella parte bassa, ma ancora robusto. Poi mi baciò storcendo le labbra a destra e a sinistra, senza sfiorarmi, una smorfia brutta come uno sbadiglio di sonno. -Se mi devi baciare baciami davvero, i baci finti lasciamoli ai finti di questo mondo, - dissi. - Ma si usa così, - disse. Esserci riavvicinati poteva essere la via d’accesso a una serena vecchiaia, anche se ogni tanto la vita in comune somigliava alle scaramucce di due insetti infilati in una bottiglia di vetro, dove hanno poca aria e poca via di uscita. Tutte le volte che cercavo nella sua borsa un paio di occhiali da lettura provavo a tastare velocemente qualche indizio, un ‘suggerimento’, che mi facesse capire quei trenta anni di distanza. Sarebbe stato più facile chiedere, ma non si gioca con il tempo e poteva costarmi caro. E poi il piacere con cui mi osservava mentre cucinavo qualcosa, o lavavo i piatti , o dipingevo i miei sgorbi, l’aveva del tutto riabilitata ai miei occhi. Finché un giorno qualunque,vagamente depressa e consapevole della propria sgradevolezza, mi urlò a distanza dentistica: Non abbiamo un soldo neppure per il funerale. Non avevamo mai dato importanza al denaro, e io rimasi di stucco, ferocemente mortificato. - Se ci prende un colpo qualcuno ci seppellirà, - risposi. - Mannaggia a te e alle tue maledette mani bucate. - Abbiamo comprato l’automobile da poco e in contanti, - risposi. - Due anni fa, l’abbiamo comprata, due anni fa. - Senti, forse è meglio stare per un po’ lontani, ti sento stufa. - Questo lo dicono le coppie che si separano, ma tranquillo ho il ‘risultato’, tra un po’ ti saluto e me ne vado all’altro mondo. La sua finta serenità sommata al suo cinismo mi fece paura. - Non scherzare, che ‘risultato’? - Chiesi con tono mansueto. - E chi scherza, chi scherza, ciccio mio.- Rispose. Lacrime enormi, indimenticabili, sbatterono sui suoi zigomi, presero velocità e atterrarono sul pavimento con il fragore di una fontana del centro storico. - Be’ i tuoi amici almeno smetteranno di invidiarti adesso che sono vecchia, grassa, e pure malata. - Non smetteranno. Che poi di amici ne avevamo davvero pochi, perché il ‘mucchio’ fa sembrare la merce scadente e noi non siamo scadenti, diceva. - Mi abbracci?- Non così forte, mi fai male. - Hai tenuto tutto nascosto, perché? - Non volevo essere straziante, non ho voluto mai essere straziante. - Tu sei matta, amore mio. - Sì, sono matta, fammi ridere un po’, dai! - Fammi la faccia del mostro che mi fai sempre in ascensore, anche quando non siamo soli. - Non mi viene. - E questa cos’è? Con amarezza ride. Rido. - Ce la faremo, Ginevra. - Ce? Farai la chemio pure tu per solidarietà? - No, meglio di no. - Ma che risposta. -Ti sei offeso? - mi fa molto piacere quel ‘ce’ collettivo. - Giuro, - mi fa tanto piacere. - Il mondo va così. - All’improvviso tutto si rovescia e tutto appare come una stupida perdita di tempo. - La prevenzione, la prevenzione. -Tutti gli anni ho fatto la mammografia ed è servito a nulla, come è servito a nulla correre quella stupida gara che non sta immunizzando te dal dolore e me dalla malattia. - Tu correvi per cinque chilometri mentre il mio corpo veniva fatto a pezzi dalla malattia, farcito di mine antidonna, da metastasi.- Ma ti pare giusto? - Mi piazzavo sempre all’arrivo per vedere le magliette rosa che tagliavano il traguardo sorridenti, mano nella mano, osservando con gratitudine il pubblico che applaudiva, il cielo che esisteva ancora, le nuvole che esistevano ancora. - Gli uccellacci che volavano sopra le nostre teste sembravano rondini . - Non erano rondini! - E ora chi aiuta me? - che non so dove sbattere la testa? - che non so dove guardare? - Mi mettevo vicino alle bottiglie di minerale e le passavo, le passavo a tutti: a uomini giovani, a uomini vecchi, a bambini, a donne operate, a donne non operate.- Mi mettevo lì per avere l’arrivo più vicino. - Ora l’arrivo ce l’ho dentro, a portata di mano, a portata di mano, a portata, di, mano. - Amore mio. - Piantala di chiamarmi amore, stavi per lasciarmi, disgraziato. - Ma quando? - Quindici minuti fa. - Non lo dire nemmeno per scherzo, e se ti succede qualcosa, io ti vengo dietro, giuro. - Come ai bei tempi? come ai tempi di scuola? - Non posso svignarmela, ma tu non ti azzardare nemmeno a pensarlo o ti uccido con le mie mani, o pensi di averla solo tu la forza? - ce l’ho pure io, anche se non vado in palestra. -Ti uccido Perdio, se solo la pensi quella cosa!
Ho mantenuto l’auto grande, e guido piano, come se avessi tanta gente da trasportare, un trucco per sentirmi meno solo. Ginevra non c’è più, è morta da qualche mese. Il sogno si ripete quasi tutte le notti: Da un braccio della croce penzola una piccola altalena. Dondola, leggera, spinta dal vento. Un fiore bianco è sbocciato ai suoi piedi, si nutre del mio amore. Mi sono sbagliato. La croce non l’hanno piantata nel mio cervello, ma dritta nel mio cuore.
Edited by mangal - 11/11/2019, 11:25 |
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