Scrittori per sempre

Posts written by Esterella

  1. .

    Roccaraldina

    Il mattino dopo, Alfonsina, prese commiato dal luogo che aveva tanto amato. Seduta sulla panca sotto il ciliegio ascoltava la voce del vento che le trasportava in grembo teneri fiori bianchi.
    Non sapeva se avrebbe fatto in tempo a salutare Davide, ogni tanto guardava verso il viottolo, con la speranza di vederlo arrivare, ma invano. Lei lo amava e anche se andava in un altro paese potevano lo stesso sposarsi, avrebbero trovato il modo di poter stare insieme.

    Le suore come uno stormo di rondini si avvicinarono a lei e una dopo l’altra la salutarono commosse, poi in silenzio rimasero tutte ad aspettare la vettura che l’avrebbe accompagnata. Accanto a sé sulla panca un solo bagaglio; conteneva le poche cose che possedeva compresa la bambola Betty, sua amica inseparabile. Era tutto quello che avrebbe portato con sé.

    Dopo aver guardato, per l’ennesima volta il viottolo, Alfonsina capì che il giovane non sarebbe arrivato in tempo. Giunse invece la carrozza, con tende di velluto e sedili imbottiti, non avrebbe avuto problemi di comodità, pensò avviandosi mogia verso il suo destino. Stava per salire sul predellino della vettura quando giunse a tutta velocità Davide col suo calessino. Saltò giù con un balzò e raggiunse Alfonsina prendendola tra le braccia.
    – Ci scriveremo e appena posso verrò a trovarti – le sussurrò d’un fiato. Poi si baciarono al cospetto delle suore che fecero finta di non guardare e al vetturino che aspettava impaziente.
    – Devo andare – sospirò la fanciulla dispiaciuta e prima che le lacrime le rigassero il volto salì in carrozza. Salutò dal finestrino con la mano le religiose vestite di nero che erano state la sua famiglia: suor Placida si asciugava gli occhi col fazzoletto, suor Maria aveva un sorriso stampato sopra una faccia da funerale, e tutte le altre, compresa la Superiora, visibilmente commosse. Davide sembrava un guerriero sconfitto al quale avevano tolto tutto, non staccò un attimo gli occhi dalla carrozza fino a che svoltò nella strada allontanandosi. Una scia di fiori bianchi caduti dal ciliegio, sollevata da vento, seguì la vettura che portava via la fanciulla dal convento.

    Dopo oltre un’ora di viaggio, la carrozza imboccò una strada di montagna. Alfonsina sussultò. Era da sola per la prima volta ad affrontare la vita. Cosa l’aspettava? Avrebbe avuto una casa tutta sua e addirittura avrebbe gestito una bottega, sarebbe stata in grado di farlo? Il dolore per la lontananza dalle sue care suore e dal giovane che le aveva fatto battere il cuore, si alternava alla curiosità per quella vita sconosciuta che accendeva in lei la speranza di poter conoscere i suoi familiari di nobili origini.

    Arrivati al paese la carrozza s’addentrò in una piazza ampia. In un angolo notò una fontana sovrastata da un leone di pietra con l’acqua che sgorgava dalle fauci della belva, più avanti una chiesa imponente, dopo pochi metri la vettura si fermò davanti a un portone dove una donna attendeva.
    Alfonsina aprì lo sportello e scese. L’aria limpida le portò profumi nuovi, che le riempirono la mente con note nuove che sentiva, però, stranamente familiari. La donna le andò incontro con un sorriso: – Benvenuta a Roccaraldina, signorina Alfonsina. Io sono Anselma– furono le sue prime parole, mentre con lo sguardo scrutava con attenzione la giovane donna col viso circondato da riccioli rossicci.

    Con calma le mostrò ogni angolo della casa e quella che sarebbe stata la sua stanza. La casa, sebbene non fosse molto grande e di vecchia costruzione, era pulita e si conservava in buono stato. La bottega che lei avrebbe dovuto gestire era proprio adiacente all’abitazione. Un’insegna laccata di rosso invitava ad entrare: “L’angolo delle meraviglie” si leggeva, la dicitura scelta dalla stessa Anselma era fatta apposta per stimolare i bambini e gli adulti a vedere e scoprire tutte le novità e le attrazioni che contenute lì dentro.
    Appena sistemate le sue cose, Alfonsina volle ispezionare la sua bottega.

    Quando aprì la porta fu investita da un odore di nuovo. Ogni cosa era sistemata con un ordine meticoloso. Gli scaffali di legno erano stati dipinti di recente e odoravano ancora di vernice. Gli oggetti in vendita erano tantissimi e di vario genere e lei volgeva lo sguarda in ogni angolo meravigliata e strabiliata di vedere quanta bellezza, raffinatezza, eleganza ci fossero in quel luogo.
    –Bello, vero? – le chiese la governante che cercava di cogliere le sue emozioni.
    –Sì– rispose lei, lisciando gli scaffali di legno quasi carezzandoli.

    Era rimasta incanta in maniera particolare dalle bambole che avevano un reparto tutto per loro.
    C’erano quelle più pregiate in porcellana, con capelli veri, vestiti eleganti, alcune raffiguranti neonati e altre sedute accanto a tavolini di legno in miniatura con minuscoli servizi da tè. Non mancavano quelle più economiche fatte di cartapesta, con capelli dipinti, di lana o di stoppa. Era uno spettacolo che lasciava senza fiato e pensare che lei aveva conosciuto solo la bambola Betty e quella di pezza della sua amica Ada.
    Esaminò gli scaffali che traboccavano di ninnoli: trottole, birilli, biglie, giochi di abilità, fatti di legno che lei non conosceva.
    — Di questi due dovrai spiegarmi il funzionamento, Anselma.
    — Oh non è difficile il primo è il bilbo. Il gioco consiste nell’agitare la pallina attaccata al filo e farla arrivare in cima al dispositivo dall’altro capo del filo. Questo a forma di clessidra si chiama diabolo e bisogna farlo girare manovrando queste due asticelle attorno alle quali è avvolta la cordicella che avvolge la clessidra stessa.
    Alfonsina che aveva guardato con attenzione volle provare a giocare e mentre vedeva la clessidra roteare rideva come una bambina, quel luogo le sembrava semplicemente magico.complimenti
    Infine, c’era il reparto dedicato al ricamo: erano in bella mostra fazzoletti, centri, centrini, tovaglie, lavori di ottima fattura e abilità.
    Tutta la bottega era come una favola in cui una volta entrati non si aveva più voglia di uscire.
    — Abbiamo collegamenti con laboratori che ci riforniscono di bambole e giocattoli di legno, gli articoli ricamati invece ci arrivano da una scuola di ricamo che è stata fondata qualche anno fa nella contrada di Fontanelle.
    — Sono veramente oggetti preziosi, chi dirige questa scuola.
    — Si tratta di una giovane, credo si chiami Lena Trovati.
    Alfonsina ebbe un sussulto, si trattava proprio dell’amica che anni prima era andata via dal convento.
    Il primo giorno di apertura al pubblico, portò con sé la bambola Betty.
    –È il tuo posto– disse sistemandola sullo scaffale in mezzo alle altre bambole, avendo cura di mettere accanto alla bambola il cartello: “Non in vendita”.

    Davanti alla porta mise una tendina frusciante e una campanella, che avrebbe suonato quando qualcuno attraversava la soglia. Era intenta ad osservare che ogni cosa fosse al suo posto, quando la campanella suonò e la porta si aprì. Un venticello vorticoso fece vibrare la tendina facendo spalancare la porta, quindi la folata raggiunse gli scaffali, sollevò il grembiule della bambola Betty e poi continuò la sua corsa fino a raggiungere Alfonsina. Su di lei si era soffermò scompigliandole i folti capelli ricciuti.
    – Vento dispettoso, vai fuori subito! – intimò.
    Come obbedendo al suo ordine il vento ritirò, facendo richiudere la porta con uno scatto e la campanella vibrò di nuovo.

    La finestra della sua camera affacciava su un panorama di boschi e rilievi montuosi.
    In lontananza si vedeva una cima dalla strana forma. Quando lo aveva indicato incuriosita ad Anselma, la donna l’aveva guardata seria e aveva detto: “Quello è il picco del diavolo”, un luogo maledetto, chiunque si è avventurato da quelle parti non è più tornato indietro. Le raccontò la storia di Febo, scomparso nel nulla su quei monti venti anni prima, e tante altre storie misteriose conosciute in paese che facevano riferimento a quel picco di montagna dove dimorava il diavolo.

    Alfonsina aveva sentito un brivido di paura nel sentirle, ma non aveva osato chiedere altro. Durante la notte il pensiero di quel rilievo, che pareva avere un ghigno satanico non la fece dormire. Un temporale fragoroso arrivò ad alimentare le sue paure. I lampi si accendevano illuminando il cielo e i vetri tremavano per il frastuono dei tuoni. Il vento sibilò tutta la notte, insinuandosi tra le fessure dei vecchi infissi, logorati dal tempo, e le arrivava sul viso freddo e insistente. Insieme al vento le arrivarono i profumi misteriosi del mondo che la circondava e lei lì aspirò a pieni polmoni: era la natura che le parlava di quei boschi in cui era nata e lei accolse quei messaggi insoliti e scacciò via ogni timore. Non doveva avere paura, non era più una bambina.

    La sua bottega era un faro per i bambini del luogo. Le mamme spesso erano costrette a fermarsi per accontentare i propri figli con giocattoli non molto costosi che la bella Alfonsina presentava ai piccoli con una dose fantasiosa di magia. La governante era molto affettuosa con lei, le insegnava cose che lei non sapeva fare come marmellate e manicaretti propri del luogo e a sera accanto al camino le insegnava anche a lavorare all’uncinetto. Alfonsina cominciò ad affezionarsi a lei, spesso le chiedeva di sua nonna, la contessa Ortensia, e di suo padre, ma la donna era sempre molto vaga e rispondeva senza mai guardarla in viso.

    Un giorno mentre erano entrambe nella bottega e Anselma stava mettendo a posto delle cuffiette per neonati con tanta cura e amore che Alfonsina le chiese: — Ma tu non sei sposata, non hai figli?
    — Mio marito è morto da tempo e i miei figli si sono sposati e hanno lasciato il paese. Ho tre nipotini che vedo solo una volta l’anno, sono sola ormai — disse sospirando.
    — Adesso però sei con me, Anselma, anzi puoi darmi del tu se vuoi.
    La donna la guardò commossa e ricambiò l’abbraccio della fanciulla alla quale non poteva rivelare tutta la verità sui conti De Fontana e del ruolo che lei stessa aveva avuto sul suo destino. Scoppiò in singhiozzi e andò a rifugiarsi in casa. Alfonsina tentò di raggiungerla, ma una cliente entrò nella bottega e dovette rimandare.
    Quando a sera chiese spiegazioni alla governante, la donna fu molto evasiva.
    — Perdonami Alfonsina, Tu sei molto buona con me. Vorrei dirti di più di più non posso, temo soprattutto per te.
    — Stai tranquilla Anselma, lo sai che mi fido di te. Proprio per questo vorrei chiederti un favore. Ho visto che a volte usi il calesse quando ti allontani dal paese, potresti insegnarmi a guidarlo?
    — Ma mia cara, tu hai a disposizione una carrozza se vuoi viaggiare nei dintorni.
    — Quella messa a disposizione dalla mia amata nonna? No, grazie, ne faccio volentieri a meno, a questo almeno posso rinunciare disse rabbuiandosi. Poi aggiunse: —Prometti che m’insegnerai?
    — Va bene prometto.

    Anselma mantenne la promessa e le insegnò come condurre il calesse tirando le redini oppure allentandole per favorire l’andatura del cavallo e come maneggiarle per svoltare a destra o sinistra. Alfonsina ricordò il tragitto con suor Maria con l’asino e capì che in fondo era la stessa cosa, così dopo alcune lezioni disse alla governante di voler avventurarsi da sola.
    — Dove vuoi andare, mia cara? — le chiese Anselma vedendola emozionata.
    — A Fontefredda, alla scuola di ricamo, conosco la direttrice.
    Raccontò alla donna della sua amicizia con Lena e del suo desiderio di rivederla visto che col calesse bastavano solo quindici minuti per raggiungerla.
    Anselma ne fu contenta. Alfonsina aveva bisogno della compagnia di persone giovani e chi meglio di un’amica che già conosceva poteva allietarla e distoglierla dai pensieri cupi che ogni tanto la rattristavano.

    Seguendo le indicazioni ricevute Alfonsina giunse alla scuola di ricamo di Fontefredda.
    Quando le chiesero chi cercasse rispose: —La direttrice.
    Dopo un minuto alla porta apparve Lena ormai donna che la fissò con i suoi occhi azzurri come fosse una visione.
    —Alfonsina.
    Si gettarono una della braccia dell’altra ridendo, poi Lena la prese per mano.
    — Come ai tempi del convento— le sussurrò e la condusse a visitare la scuola.
    Alfonsina ammirò il lavoro magnifico che le ragazze tutte molto giovani eseguivano sotto la guida attenta di lena.
    —Vieni sediamoci, così parliamo di noi.
    Rimasero molto tempo insieme e la cosa strana fu che Lena che era sempre stata avara di parole fu un fiume in piena. Le disse che era felice con la sua scuola, non pensava a sposarsi, ma soltanto a formare le giovani in modo che quando lei sarebbe stata anziana la scuola di ricamo continuasse a esistere.
    Alfonsina le disse della sua bottega e del suo innamorato Davide che sperava di vedere arrivare presto, gli aveva scritto una lettera, ma non aveva ancora avuto risposta.
    Si lasciarono con il proposito di rivedersi ora che si erano ritrovate.


    Tutto sembrava andare in maniera eccellente per Alfonsina, l’unica cosa che non riusciva a capire
    era quel silenzio da parte di Davide e delle suore del convento che a volte la facevano diventare triste, possibile che le sue lettere non fossero ancora arrivate?
    Intanto da alcuni giorni aveva cominciato ad accusare alcuni malesseri: aveva spesso nausee e capogiri. La governante l’accompagnò dal dottore, che dopo una breve visita chiamò in disparte Anselma e le disse sottovoce: – Niente di grave... la fanciulla è incinta. –
    Si avviarono verso casa e solo quando furono sole, la donna tempestata dalle domande della giovane che preoccupata le chiese: –Sto male? Dimmi la verità, è grave? – rimase impassibile.
    – Chi è stato a fare questo guaio? –
    Alfonsina la guardò stranita: –Chi è stato a fare cosa?
    – Figlia mia, sei incinta!
    – Non può essere– rispose d’impeto, poi ripensò alle sere vicino al ciliegio con Davide, non credeva che un figlio, una cosa così importante per la vita di una donna, potesse essersi rifugiato dentro di lei con tale semplicità.

    Vedendola assorta Anselma disse: –Povera cara, sicuramente qualcuno si è approfittato di te.
    Sei una brava ragazza, cresciuta in convento, ma un uomo ci deve essere stato per forza.
    Allora la fanciulla le confidò dei suoi incontri con il suo innamorato.
    – Ah, lo vedi. Almeno sappiamo che c’è un padre. –
    – Già, anzi sarà bene che lo avverta di questa novità.

    Scrisse di nuovo una lettera al giovane e l’affidò al vetturino postale con mille raccomandazioni perché la portasse a Fontefredda. Passò del tempo, Alfonsina continuò con la sua abilità a gestire la bottega con energia e dedizione, ma la voce della sua gravidanza si sparse. Le donne la guardavano male, chiedendosi chi fosse l’uomo misterioso che si era unito con lei. Davide non rispondeva alle sue lettere, possibile che l’avesse dimenticata?
    Quella notte fece uno strano sogno.
    Si era messa in testa di conoscere la famiglia di nobili che l’aveva abbandonata.
    – Voglio proprio vedere chi sono questi conti che hanno deciso della mia vita– aveva detto ad Anselma, ma la donna aveva scosso il capo in segno di dissenso.
    Lei testarda però aveva noleggiato una carrozza come quella che era venuta a prelevarla al convento.
    Era notte e la vettura avanzava lentamente alla luce di una lanterna agganciata accanto al sedile del cocchiere. Era quasi arrivata a destinazione, ma prima che avvistasse la villa De Fontana, una persona in mezzo al viottolo aveva impedito alla carrozza di proseguire, si era sporta dal finestrino e aveva visto che si trattava della madre superiora.

    – Non andare, Alfonsina. Ricordati che quella è gente potente e molto pericolosa.

    Si svegliò di soprassalto. C’entrava sua nonna in tutta questa storia? La contessa era crudele e non aveva voluto nemmeno vederla.
    –No! Non era possibile non poteva essere cattiva fino al punto di impedire che lei si ricongiungesse al padre di suo figlio.
    Quando per l’ennesima volta rispose a chi le chiedeva notizie del fidanzato che sarebbe arrivato presto, Anselma la prese in disparte e le disse: –Ascolta Alfonsina. Lui non si è ancora fatto vivo, non vorrei che le lettere fossero state intercettate da qualcuno, scrivigli un’altra lettera, ma questa volta dovrai fare come ti dico.
    Lei scrisse, col cuore in mano, una lettera fatta di pagine fitte di amore e commozione che avrebbero scosso anche le pietre.
    Stavolta invece di affidarla al postale, consegnò la lettera al parroco don Achille affinché la recapitasse a don Crescenzio il prete che l’aveva battezzata, di modo che a sua volta la consegnasse direttamente nelle mani di Davide. Non sapeva che anche il prete era in combutta con la contessa Ortensia e che la lettera non sarebbe mai arrivata a destinazione.

    Quando fu chiaro che il fantomatico padre del nascituro non sarebbe mai arrivato, i paesani cominciarono a consigliarle di sbarazzarsi del bambino.
    “Perché mi dicono queste cose, io sono felice di avere questo bambino, anche se suo padre non verrà.” Pensava Alfonsina.
    Aveva una casa, una bottega e non aveva nessuna intenzione di disfarsi quella creatura nata dal suo amore con Davide, certamente c’era un motivo per questo suo strano comportamento. E poi non poteva proprio lei che era stata abbandonata, fare lo stesso col sangue del suo sangue.

    Un giorno Anselma si ammalò. La febbre alta la faceva straparlare e nel delirio raccontò, con frasi smozzicate, ad Alfonsina la sua storia nei minimi particolari. Le disse che le aveva fatto da balia, era stata lei stessa sotto minaccia della contessa a portarla al convento, mentre con tutto il cuore avrebbe voluto tenerla con sé e adesso si sentiva inutile e incapace di difenderla. Aggiunse che era stata proprio la contessa Ortensia a imporle di farle da governante e di starle vicino e lei aveva accettato perché le voleva bene, gliene aveva voluto fin da quando l’allattava e cercava di proteggerla dalle grida del conte che non voleva sentirla piangere.
    Quando la febbre diminuì, Anselma guardando la giovane che le stava accanto e l’accudiva le disse: – Hai tutte le ragioni per essere arrabbiata con me. Scusami, per non essere riuscita a proteggerti come avrei voluto.
    – Ti voglio bene Anselma– guarisci presto, dovrai aiutarmi a crescere questo bimbo.
    –Resterò sempre al tuo fianco. Puoi contare su di me.

    Da quel giorno Anselma cominciò a cucire camiciole, cuffiette, a ricamare lenzuolini, a fare copertine di lana, realizzando con amore i capi del corredo per il bambino che sarebbe nato.
    La sua amica Lena veniva spesso a trovarla e le portava regali per il bambino che doveva nascere.
    — Questo bambino sarà molto amato— diceva Lena, mentre cercava di insegnare a Alfonsina le basi del ricamo.
    —E non sarà mai lasciato solo— replicava l’amica. Entrambe ripensavano al freddo stanzone del convento che nemmeno la bontà delle suore riusciva a riscaldare.

    Un giorno una donna elegante scese da una carrozza con uno stemma nobiliare, un’aquila, e si fermò davanti casa di Alfonsina, Entrò e s’intrattenne a parlare con Anselma che sembrava conoscere molto bene.
    Alfonsina che era rientrata in casa per prendere delle matassine di cotone che aveva lasciato in camera sua, sentì che Anselma parlava con qualcuno. Era una voce femminile cupa e stridente. Stupita si mise in ascolto dietro l’uscio per non essere vista.
    – Cosa crede questa fanciulla che solo perché ha una bottega e una casa può fare quel che vuole? Non ha voluto abortire! Ma cosa pretende, crede forse che io la faccia sposare con quel debosciato di un fruttivendolo. Ah, ma a quello ci ho già pensato io. Se lo può scordare!
    – Contessa la prego, la lasci in pace, è una brava figlia.
    – Alfonsina è stata la nostra sciagura da quando è nata, per fortuna suo padre non sa che lei è qui e della sua condizione, morirebbe dal dispiacere povero Attilio.

    Quella megera che minacciava lei e Davide era sua nonna… era ancora più tremenda di quanto non avesse mai immaginato e adesso doveva anche stare attenta che avrebbe potuto fare del male al bimbo che portava in grembo. Aveva detto che suo padre, Attilio, sapeva dei raggiri della madre? Forse sì, ed era come lei o addirittura peggio.

    Doveva raggiungere Fontefredda per scoprire tutta la verità. Una sera pagò una carrozza e facendosi accompagnare da Lena si fece portare al convento, bussarono alla porta e venne ad aprire suor Maria. La suora emise un gridò di gioia abbracciò le due giovani, suor Placida che era andata a letto si presentò in camicia da notte e quando le vide quasi svenne per l’emozione.
    – Non svegliamo tutto il convento, venite! – disse suor Maria e raggiunsero la sala cucito che era nella parte più isolata dell’istituto. Sedettero vicine.

    — Lena che bello vederti abbiamo ricevuto la tua lettera due giorni fa. —disse suor Placida
    –E tu perché non ci hai mai scritto. Tutto bene? – chiese suor Maria ad Alfonsina.
    – Io vi ho scritto, ma qualcuno non vi ha fatto ricevere le notizie che volevo condividere con voi.
    – Oh, figliola e chi può essere così cattivo? – intervenne suor Placida.
    – La contessa, mia nonna.
    Raccontò alle sorelle quanto era accaduto, della sua gravidanza e chiese notizie di Davide. Fu suor Maria a parlare, mentre suor Placida piangeva in silenzio.
    – Un giorno è arrivato un uomo a chiedere tasse sempre più alte sulle granaglie, e sulla frutta che proveniva dai poderi dei conti De Fontana. Poi è venuto fuori un documento che dichiarava che la casa non apparteneva a Grazia e che lei era solo un’affittuaria e doveva pagare la pigione, quei due poveretti erano disperati. Poi è intervenuto don Crescenzio che ha combinato il matrimonio di Davide con una ragazza benestante del paese, non ha potuto rifiutare.
    Alfonsina sgranò gli occhi. Lui non aveva mai ricevuto le sue lettere e si era sposato. Con la sua crudeltà la contessa aveva minacciato Davide e sua madre ricattandoli ed era ricorsa a subdole manovre per far in modo che non la cercasse più. Ricordò le parole della Superiora: —È gente potente e pericolosa.
    – Ma come farai col bambino? Le chiese suor Placida.
    – Questo bambino è solo mio, adesso. Suo padre gli è stato tolto con l’inganno, ma sua madre ci sarà sempre.
    — Andiamo via! —disse Lena che non ne poteva più di sentire cose che facevano male. Sorreggendo l’amica troppo sconvolta dalle notizie che aveva ricevuto, abbracciarono le sorelle sapendo che le vedevano per l’ultima volta e si rimisero in viaggio verso Roccaraldina.
    Alfonsina sulla vettura si accucciò piangendo sulla spalla di Lena che cercava di confortarla.
    — Io ti sarò vicina, non temere, per me sei la sorella che non ho mai avuto— le disse, stringendole la mano.

    Quando arrivò a casa Anselma le andò incontro. – Mi hai fatto stare in pensiero, per fortuna eri con Lena.
    Alfonsina fece un timido sorriso; non era sola c’erano persone che si preoccupavano per lei che le volevano bene, doveva farcela a tutti i costi.
    Alla bottega la fida Anselma la aiutava in tutti i modi possibili, Lena veniva a trovarla spesso e a volte si fermava a cenare con loro due, era come se si fosse formata una famiglia tutta al femminile. Una sera accanto al fuoco l’amica disse sorridendo: — Quando nascerà voglio fargli da madrina, sono sicura che sarà una femmina—
    — Anch’io penso che sarà femmina, la pancia è bella rotonda e tu sei bellissima— aggiunse Anselma.
    Alfonsina si accarezzò il pancione, si sentiva coccolata, sarebbe andato tutto bene.
    In primavera nacque una bambina che chiamò: Paolina.

    Un fiocco rosa fuori la bottega ne annunciò la nascita e i bambini che andavano nel negozio si fermavano incantati a guardare la neonata che vestita come una principessa stava quieta in una culla in angolo o tra le braccia della mamma. La piccola fu battezzata nella chiesa della Madonna del Carmine da don Achille e Lena le fece da madrina, Anselma commossa come se fosse stata sua nipote si asciugava gli occhi e tutto il vicinato partecipò festeggiando la nuova arrivata dimenticando i pettegolezzi del passato.

    Paolina cresceva bene, aveva pochi mesi e sua madre la teneva accanto a sé nella bottega in una culla per poterla allattare quando aveva fame, sotto gli occhi attenti della governante. Un giorno una domestica dei conti De Fontana si fermò a chiacchierare con Anselma, quando andò via raggiunse Alfonsina e le disse quello che la donna le aveva riferito. La contessa Ortensia era morta.
    Si era ammalata gravemente e in punto di morte aveva cercato di pentirsi dei suoi peccati e delle sue malefatte rivelando ad Attilio che sua figlia viveva in paese poco distante dalla loro casa.

    I funerali della nobildonna coinvolsero tutto il paese. Fuori la chiesa della Madonna del Carmine era un brulicare di gente e di carrozze, quella donna aveva intimorito tutte le famiglie povere del paese e ora la sua anima faceva i conti con il giudice supremo. Alfonsina affidata la piccola ad Anselma salì i gradini della chiesa e si fermò sul fondo.
    –– Dinanzi alla morte siamo tutti uguali—predicò il sacerdote.
    I contadini che avevano visto la carrozza a sei cavalli e la bara di mogano dubitavano fortemente che fosse così e scossero il capo. Alzandosi sulle punte la giovane cercò di individuare suo padre tra la folla accanto all’altare, ma la calca si fece pressante e non riuscì a scorgerlo.

    Il conte Attilio dopo la morte della madre e le rivelazioni che aveva ricevuto stava vivendo un incredibile travaglio interiore. La maturità aveva reso più assennato non riusciva a capacitarsi. Sua madre con la sua smania di onnipotenza aveva disposto non solo la sua vita, ma anche quella di Alfonsina.
    Sua figlia aveva mostrato carattere e nonostante avesse un figlio maschio con Emma, il pensiero di quella figlia che aveva ignorato, lasciandola in balia di sua madre non gli dava pace. Era stato un vigliacco. Doveva vederla, parlarle.

    Un giorno si presentò alla bottega dove Alfonsina stava in compagnia della bambina e della governante. Gli scaffali erano pieni di manufatti, giocattoli artigianali, bambole di pezza. Anselma ricamava in un angolo un lenzuolo bianco con fili colorati.
    –Anselma, come stai? Quanto tempo…
    –Signor conte– sussurrò la donna.
    Poi si rivolse alla giovane con la bimba in braccio.
    – È lei è la bimba che piangeva e io ti dicevi di portarla via? – disse Attilio e la donna annuì.
    – Ora ti chiederei, per favore Anselma, puoi riportarmi la mia bambina.

    Si avvicinò a sua figlia e con aria sincera le disse prendendole le mani: – Perdonami, Alfonsina la morte di tua madre è stata devastante e tu mi ricordavi lei, non volevo vederti, ma ora sono a tua disposizione per aiutarti a crescere la tua bimba. … È bella come te e come tua madre Ester.
    L’uomo aveva le lacrime agli occhi, ma la fanciulla non s’intenerì–Troppo tardi signor padre, la cara contessa, Ortensia, ha fatto di tutto per togliermi l’uomo che amavo e c’è riuscita, ma per fortuna ho ancora la mia piccola e non ho bisogno di nient’altro. Non vi rinnego, ma il negozio va bene e possono provvedere a lei e a me e anche Anselma mi è d’aiuto benché anziana. Voi e la vostra famiglia avete fatto anche troppo, è meglio che mi lasciate in pace.
    Attilio addolorato andò via con l’intento di fare qualcosa per riconquistare l’affetto di sua figlia, ma era necessario che lei si sentisse libera di vivere come voleva e non si presentò più alla bottega.

    Paolina crebbe amata in maniera totale dalla madre e senza un padre, di lui sentì solo raccontare strane storie legate a un convento di cui riuscì a capire molto poco. Coccolata da Anselma, volle seguire ogni giorno sua madre al negozio. Lì faceva i compiti in compagnia della bambola Betty, che aveva tolto dallo scaffale dicendo con sicurezza: – È mia!
    Un giorno mentre la bambina era con la governante vide che la governante con un colpo di tosse aveva arrossato di sangue il fazzoletto. Spaventata chiamò sua madre.
    — Da quando ti succede, Anselma.
    — Da un po’, ma non volevo spaventarvi.
    Il medico confermò i sospetti di Alfonsina, si trattava di tisi. Una brutta sera l’anziana donna che ancora faceva lavori di ricamo, senza un grido, né una parola chiuse gli occhi per sempre lasciando scivolare a terra la tovaglia alla quale stava lavorando.

    Intanto Paolina cresceva e somigliava sempre più a sua madre, aveva un carattere molto gioviale ed espansivo. Cominciò a frequentare la scuola di ricamo diretta dalla sua madrina, ma come Alfonsina non si dimostrò molto portata per quest’arte con dispiacere di Lena che si dedicava a lei con entusiasmo.

    Un giorno Paolina tornò dalla chiesa dove era stata insieme alle altre ragazzine. Si celebrava un matrimonio ed erano andate per vedere la sposa. Arrivò di corsa da sua madre tutta contenta.
    –Mamma, mamma ecco i confetti e poi ho incontrato un signore su un cavallo e mi regalato questo.
    Porse un pacchetto a sua madre e dentro c’era un cuore d’oro.
    – Non devi parlare con chi non conosci questo lo tengo io– disse.
    – Ma è mio… l’ha regalato a me.
    – Glielo andrò a restituire, lui… lui non può fare questo.

    Salì sul calesse e si diresse alla villa del conte Attilio. La duchessa Emma era in casa e disse che suo marito non c’era. Allora Alfonsina si avviò verso le terre dove il conte andava ogni giorno. Il conte è andato via da poco dissero i suoi lavoranti. Tornò indietro e nel passare davanti alla villa vide uno strano trambusto e il parroco del paese che stava entrando dal portone accorrendo spedito.
    – Che succede? – chiese ad alcuni curiosi che erano lì presenti.
    – Il conte Attilio è morto.
    Alfonsina ebbe un sussulto. Suo padre era morto e lei sentì un dolore profondo, capì in quel momento che l’aveva perdonato e non avrebbe più potuto dirglielo.
    Tornata a casa prese dall’astuccio l’oggetto d’oro e lo mise al collo di sua figlia.
    – È tuo! Puoi portarlo è il dono di qualcuno che ti voleva bene— disse con le lacrime agli occhi, quando sarebbe diventata grande le avrebbe spiegato.

    Quell’autunno sembrò che il freddo avesse aggredito Roccaraldina prima del tempo. Un vento gelido imperversava nel paese. Ovunque l’aria era grigia, di nebbia e di fumo che fuorusciva dal camino. Durante la notte la finestra della camera di Alfonsina parve scricchiolare ancora un poco. “Non cedere proprio adesso” pensava la donna, mentre cercava di usare stracci vecchi per tappare le fessure e supporti di legno per sostenere le imposte.

    Improvviso un fragore: la finestra si era spalancò, un vento gelido si fece largo, lei si alzò per richiudere la finestra. Era arrivata proprio vicino e stava per essere investita da un gelo mortale quando rimase immobile e non riuscì più a fare un passo, avvertiva davanti a sé un muro invisibile le impediva di raggiungere la finestra. Sentiva il vento sibilare attorno a sé, ma non un refolo d’aria riusciva a raggiungerla, un groviglio grigio filamentoso aveva formato una rete che la teneva imbrigliata, come se volesse proteggerla. Poi il vento s’acquietò la finestra si rinchiuse e lei rimase esausta, cercò comunque ancora di rinforzare gli infissi e tornò a letto. Aveva davvero vissuto quella strana cosa o aveva sognato?

    Un’ombra scura si alzò piano nel cielo, svanendo come un filo di fumo. La voce fioca di donna sussurrò nel buio: –Riposa, Alfonsina, avrai ancora tanti inverni e tante primavere da passare ancora con la tua bambina.
    Il vento parve rispondere a quella voce con strane parole.
    — Questa volta hai vinto tu, madre. Ma la mia maledizione continuerà.
    Poi ogni nube si dileguò e il cielo tornò limpido.


    Alfonsina vedeva crescere sua figlia e la seguiva in ogni cosa col cuore gonfio di orgoglio. La fanciulla amava molto stare nella bottega. “L’angolo delle meraviglie” era il suo mondo, dove fantasticava, dove aveva accanto sua madre e non avrebbe rinunciato a quella magia per nulla al mondo. Era ormai adolescente, e spesso restava da sola nella bottega. Le bambole in bella mostra sullo scaffale erano sempre più belle e più alla moda, ma tra di esse la bambola Betty col suo abito tradizionale e il cartello “non in vendita” aveva qualcosa di eterno, racchiudeva la storia della loro vita.
    Quell’anno “la festa della primavera” fu stupenda. Paolina indossò per la prima visto l’abito per il ballo attorno al falò che le aveva cucito e ricamato personalmente la madrina.
    — Sembri la bambola Betty, ma molto più bella le disse sua madre contenta.
    Era stata organizzata una festa in grande e sarebbero venuti persino dei pittori per riprendere scorsi di paesaggi. Il quadro più bello sarebbe stato premiato e venduto al miglio offerente, il ricavato veniva offerto in beneficenza alla chiesa della Madonna del Carmine e don Achille l’avrebbe distribuito ai poveri.
    Paolina ballò col gruppo attorno al falò, si distingueva per i riccioli rossi che le cadevano sulle spalle la madre e Lena la covavano con gli occhi tra la folla di gente che si accalcava in mezzo alle bancarelle.
    — Voglio comprare un quadro disse Lena ad Alfonsina vieni con me.
    Sul sagrato della chiesa c’erano quadri di ogni tipo che ritraevano la chiesa, scorci del paese, la fontana col leone, il picco del diavolo, erano tutti molto belli, ma Lena volle comprare un disegno a carboncino di un luogo da sogno che raffigurava una cascata.
    — Deve essere un posto bellissimo e io lo troverò.

    Edited by Esterella - 18/12/2020, 21:52
  2. .
    brava, complimenti :mazzate.gif: :mazzate.gif: :mazzate.gif: :noviolence.gif:
  3. .
    Grazie Petunia e resdei, un abbraccio. :noviolence.gif:
  4. .
    CITAZIONE (mangal @ 14/12/2020, 20:11) 
    CITAZIONE (Esterella @ 14/12/2020, 18:13) 
    Ciao a tutti!
    Nel link che allego trovate la votazione pubblica del concorso letterario Guido Zucchi. Tra le poesie selezionate c'è anche la mia, il mio nome e cognome Liliana Tuozzo. Se qualcuno vuole può leggere la poesia e votare.
    Grazie.

    www.succedesoloabologna.it/eventi/...vIClIUoSHep29Sc

    bella, lily
    votata

    Grazie Fausto.
  5. .
    Ciao a tutti!
    Nel link che allego trovate la votazione pubblica del concorso letterario Guido Zucchi. Tra le poesie selezionate c'è anche la mia, il mio nome e cognome Liliana Tuozzo. Se qualcuno vuole può leggere la poesia e votare.
    Grazie.

    https://www.succedesoloabologna.it/eventi/...vIClIUoSHep29Sc
  6. .
    Paluca66 grazie per il commento . Riguardo all'anona che in realtà è una variante del mango avevo letto che c'era anche in sud Africa, ma non avendone la certezza credo che lo toglierò dal racconto.
    TomaSgaia grazie per i suggerimenti, tutti giusti, però preferisco che la decisione della scuola la prenda il ragazzo.
    Molli Redigano molli sono lusingata dal tuo commento. le tue osservazioni sul testo sono molto oculate e giuste.
    Il racconto è ambientato in Tanzania e oltre al mais viene coltivato anche il riso specie nella stagione delle piogge. Chiesto conferma anche a mio figlio che è stato lì alcuni mesi.Grazie.
    G.LerouxGrazie di cuore. Carissimo è la prima volta che qualcuno riesce a cogliere il senso profondo di un mio racconto.
    ho scelto i nomi dei personaggi andando a cercarne il significato, ho fatto tesoro delle telefonate con il mio figliolo che mi parlava dei colori di quel luogo, di quei sorrisi che illuminavano i volti. Sono rimasta delusa da tutte le imprecisioni e gli errori con cui ho imbastito il mio racconto se riuscirò a migliorarlo sarà grazie a voi e ai commenti degli altri partecipanti al concorso.
    un abbraccio. :emoticons-saluti-6.gif?w=593: :pazzo.gif:
  7. .
    L'ho trovato molto interessante. L'inquisitore è un personaggio inquietante capace di atrocità e con una ferrea convinzione di essere nel giusto al punto che riserva anche a se stesso la punizione dal presunto peccato. hai descritto molto bene la parte finale di quello che ha scatenato la punizione, il limite di questo racconto è la brevità, dovresti approfondire il tema , l'antefatto che ha scatenato tutto e il finale che appare troppo sommario, invece di dire il resto lo fece la setticemia facci vedere invece come le piaghe degenerano e in pochi giorni massimo una settimana lo portano alla morte.
    Hai notevoli capacità descrittive ed è stato un piacere leggerti. :emoticons-saluti-6.gif?w=593:
  8. .
    mezzomatto grazie del commento. Sì sono riflessioni nate in periodo di pandemia nella primavera dell'anno scorso quando cantavamo sui balconi chiusi in casa e cercavamo di vivere in maniera essenziale tra paura e speranza non sapendo cosa ci fosse oltre. Poi l'estate la fortuna di abitare a pochi chilometri dal mare e di poter raggiungere una spiaggia pressoché isolata , lasciarsi cullare in un mondo liquido come un grembo materno, che rassicura.

    Con l'autunno è tornato di nuovo l'incubo del covid, la speranza si è affievolita, tutto questo ha spento qualcosa dentro, ha cambiato il nostro modo di essere,ora siamo persone che non si abbracciano più, ognuno, l'altro può essere l'untore. Torneremo come prima? Ci vorrà tempo, ma io voglio sperare di sì.

    Ho scritto questo brano come prosa poetica ed è per questo che hai giustamente rivelato che ha caratteristiche poetiche. In realtà la poesia è il mio primo amore ed è anche la forma in cui riesco meglio anche se poi caparbiamente ci riprovo con la prosa.
    grazie infinite per il commento.
  9. .
    Sì, l'ho letto. Deve avermi in qualche modo influenzato.
  10. .
    Troppo buona Petunia .questo capitolo mi ha dato del filo da torcere per riuscire a inquadradare tutte le situazioni. Sì le sorprese non mancheranno e ogni uno o due capitoli sarà un piccolo romanzo, la discendenza di Ester avrà altri volti di donna coi capelli rossi.
  11. .
    CITAZIONE (mangal @ 10/12/2020, 10:05) 
    storia dolcissima, pur nella sua tristezza.
    tristezza dovuta alla situazione in cui versano i protagonisti, non per altro.
    il racconto trasmette belle sensazioni, emozioni palpabili, e i personaggi sono ben ccaratterizzati, soprattutto Nyah.
    molto bello il titolo e azzeccati incipit ed excipit.
    però vi sono tanti refusi e parecchie ripetizioni, quindi una bella revisione sarebbe utile per far diventare un gioiellino questa storiella.
    brava, Lily.

    Grazie Fausto. Farò tesoro di tutte le indicazioni che mi sono state date. :noviolence.gif:
  12. .
    VI
    Al convento

    Era ottobre. Un vento stizzoso scuoteva le chiome dei faggi e i rami delle querce nella foresta.
    Una carrozza con un cocchiere, imbacuccato in un mantello, procedeva sobbalzando lungo i viottoli fangosi che costeggiando il faggeto portavano al convento. Si fermò nei pressi del vialetto antistante, un’ombra scura scese furtiva dal veicolo stringendo qualcosa tra le braccia e si diresse verso il vecchio portone, illuminato dalla luna piena.
    Suor Maria, sorella guardiana, sentì bussare e si fermò stupita. Chi poteva essere a quell’ora? Non erano ancora suonate le sei del mattino. Aprì con cautela e sbirciò all’esterno: non c’era nessuno.
    Per terra accostato all’uscio c’era un cesto coperto.

    La suora incuriosita lo prese e richiuso il portone lo portò dentro. Dopo pochi passi qualcosa si mosse nel cesto, spaventata e tremante, allora, poggiò il cesto per terra, sollevò il panno che lo copriva e guardò dentro. Si ritrovò a contemplare gli occhi chiari di un neonato. Una peluria rossiccia spuntava da una cuffietta bianca finemente ricamata.

    –Oh, Santo cielo! – gridò la suora e si affrettò a raggiungere la Madre Superiora che era già in preghiera nella cappella poco distante. Mentre avanzava nel corridoio le consorelle che si apprestavano a recitare le lodi mattutine, circondarono suor Maria che emozionata e confusa mostrò il contenuto del cesto: –Guardate, sorelle, guardate. Era fuori, accanto al portone, qualcuno ha bussato e poi è scappato via.
    Le suore osservavano quel piccolo esserino con gli occhietti vispi e sorridenti che sembrava l’immagine della serenità e agitava le manine davanti a sé, senza emettere neanche un vagito.

    La Madre Superiora, dalla quale le religiose arrivarono facendo una gran confusione, guardò con aria preoccupata quel fagottino, lo sollevò dal cesto e si ritrovò tra le braccia una bambina con un vestitino rosa, anch’esso come la cuffia, di ottima fattura.

    – Vediamo se c’è qualcosa, lì dentro, che possa dirci da dove viene questa creatura– disse la Superiora, indicando il cesto alle suore. Oltre a pochi panni le sorelle trovarono due lettere e una bellissima bambola che indossava i costumi tradizionali del luogo.

    –Occupatevi della bambina. Io cercherò di capire chi l’ha lasciata a noi – disse la Superiora e affidò la piccina in braccio a suor Maria.

    La Madre andò nel suo studio e si sedette alla vecchia scrivania. Osservò con attenzione le due lettere rinvenute nel cesto; una di esse era gonfia e come aveva intuito si trattava di danaro. Infatti, l’aprì per prima e ne tirò fuori una bella somma, nell’altra busta c’era una lettera che portava in alto uno stemma nobiliare: un’aquila. Incuriosita incominciò a leggere.

    Alla Reverendissima Madre Superiora dell’istituto “Caritas et amor”
    Località Fontefredda. Ottobre 1805

    Reverenda Madre,
    la donna che ha partorito questa creatura è morta nel darla alla luce, suo padre è quasi impazzito dal dolore e non ha voluto nemmeno vedere la neonata. Siamo una famiglia molto religiosa e credo che affidare questa bambina nelle vostre mani sia la cosa giusta. Saprete crescerla secondo retti insegnamenti e avrete cura della sua istruzione e della sua anima. Per le necessità materiali non dovete preoccuparvi: ogni mese riceverete una somma per le spese che dovrete sostenere. Vi prego pertanto di occuparvi di lei fino alla maggiore età. Desidero che le venga dato il nome di Alfonsina quando verrà battezzata. Le mie volontà sono state depositate presso un notaio. Tramite lui riceverete la retta mensile. Le istruzioni riguardo al futuro della bambina le riceverete a tempo debito.
    N.D: Ortensia D.F.

    La Superiora restò perplessa con la lettera tra le mani.
    Dirigeva una scuola per bambine che negli ultimi tempi aveva poche iscritte. Delle ragazze più grandi alcune erano tornate alle loro famiglie per sposarsi, altre avevano intrapreso il noviziato, le più piccole erano una dozzina, si trattava di trovatelle o di orfane, solo poche provenivano da famiglie benestanti che pagavano la retta. Perché questa nobildonna aveva scelto proprio il suo istituto? Voleva far leva sullo spirito di carità che lo animava oppure era a conoscenza delle condizioni economiche precarie in cui versava il convento? Aveva chiesto aiuto alla Curia numerose volte, ma erano tempi difficili e le sovvenzioni si facevano attendere.

    Era rosa da mille dubbi. Certamente non poteva prendere decisioni avventate, doveva assolutamente consultare il vescovo. Passeggiando nel suo studio avanti e indietro si avvicinò alla finestra e guardò fuori. La struttura diventava sempre più fatiscente: il tetto era da rifare, la grondaia cadeva a pezzi, insomma, quei soldi erano una manna dal cielo… riceverne ogni mese avrebbe potuto risolvere tanti problemi.

    “Oh, signore, come mi vengono in mente queste cose? Dammi un segno che io possa sapere cosa fare…”

    Tornò dalle suore che coccolavano a turno la piccola. Suor Placida faceva le facce buffe per far ridere la piccola: – Lo sa, Madre, io credo le volessero bene, le hanno messo persino una bambola col vestito che si usa nei balli di montagna. Chissà perché l’avranno abbandonata.

    – Com’è quieta madre… possiamo tenerla, vero? – aggiunse suor Maria, che guardava la bimba con dolcezza.

    – Voglio riflettere con calma.

    La superiora mandò suor Maria, col carretto trainato da un vecchio asino, in paese per chiamare il vetturino a cui affidare il compito di accompagnarla in città, al Vescovado, per parlare con Monsignor Giellini dell’urgenza della situazione e anche della bambina che era come caduta dal cielo.
    Suor Maria arrivò al villaggio e, dopo aver contattato il cocchiere, si fermò nella bottega di Grazia. Ogni settimana vi si recava per le spese del convento. Là trovava di generi per ogni necessità; Il marito della donna andava nei poderi vicini con un carro a rimorchio per prelevare nelle fattorie i prodotti da vendere: granaglie, semi, frutta verdure e tanti altri articoli di vario tipo.

    Quando insieme alle solite cose la suora chiese con aria tranquilla: latte, semolino, panni di lino per le facce. Grazia, sbarrò gli occhi dalla meraviglia: – Oh bontà divina, mica per caso qualche suora ha partorito?

    La suora sussultò: – Ma cosa dite, Grazia? Sapeste cosa è accaduto al convento… - e con la sua semplicità raccontò alla donna del ritrovamento della piccola, chiedendo di non farne parola con nessuno. Però, prima ancora che la Madre Superiora parlasse col vescovo tutto il villaggio sapeva dell’esistenza della piccola. Cominciò una processione di gente che arrivava al convento per donare tutto l’occorrente per una neonata di pochi mesi, ma soprattutto per vedere che volto avesse. Quando la superiora fece ritorno al convento trovò nel vialetto una fila di carri e calessi, mezzo villaggio sembrava essersi trasferito presso l’istituto.

    – Che succede? – disse irritata a Suor Maria e suor Placida, che le erano corse incontro.

    Suor Maria arrossì: –Hanno saputo–farfugliò.

    –Vieni subito nel mio ufficio– le intimò. –E voi tornatevene alle vostre case, subito! – esclamò con voce autorevole.

    Suor Maria, ancora più rossa in volto, cercava di nascondere l’imbarazzo dietro un mezzo sorriso.

    – Mi perdoni, Madre. Non volevo, ma mi facevano tante domande…

    La superiora la guardava in silenzio e con occhi di ghiaccio.

    – E poi adesso abbiamo anche una balia, che ha promesso di venire ad allattare la bambina – azzardò.

    La Madre continuava a guardarla e a tamburellare con le dita sulla scrivania.

    – Tutti hanno donato qualcosa appartenuta ai loro figli, la gente del villaggio ha proprio un gran cuore – continuò la suora tormentandosi le mani.

    Finalmente risuonò, tranquilla, la voce della Superiora.

    – Bene! Adesso vedi se sono andati tutti via e va a chiudere il portone.

    – E quale la sarà mia punizione, Madre?

    – Dovrai occuparti della bambina per tutto il giorno e senza trascurare quelli che sono i tuoi compiti e doveri abituali.

    Suor Maria si illuminò e corse a dare alle consorelle la buona notizia.

    Le allieve dell’istituto, saputo dell’evento accorsero e circondarono suor Placida con la bambina tra le braccia.
    Lena la più piccola, di soli quattro anni, guardava stranita la neonata con ciuffo rosso e vestita con eleganza. Dopo averla scrutata a lungo le toccò con un dito una guancia e subito lo ritrasse quasi temesse di farle male.
    —Non avere paura! È una bambina, proprio come te— disse la suora.
    La piccola annuì e fece un mezzo sorriso poco convinta e fece spazio alle altre che curiose volevano vedere la nuova arrivata.
    Lena aveva problemi di linguaggio e parlava poco o niente e nessuno sapeva quello che lei provava tranne provava a leggere nei suoi occhioni azzurri. Nel letto posto accanto alla finestra non riusciva a prendere sonno, pensava che la strana bambina col ciuffo rosso somigliante a una bambola fosse una principessa, ne immaginava un futuro da fiaba fantasticando. Il freddo della notte intenso aggrediva il suo piccolo corpo infilato sotto le coperte e sembrò scaldarsi al calore delle sue fantasticherie fino a quando il sonno la vinse.

    La neonata venne sistemata in camera con suor Placida, la suora più anziana, che per tutta la notte controllò il suo respiro, i suoi movimenti, allertandosi a ogni minimo gesto che le sembrava insolito. Non era abituata a prendersi cura di una bambina così piccola e quella presenza la colmava di responsabilità, ma anche di un’immensa tenerezza aprendole il cuore.

    Al convento la vita scorreva rigida tra le varie funzioni e le incombenze delle sorelle. Bisognava alzarsi alle sei per le lodi, e poi c’erano le messe, ma con la bambina tutto cambiò: ci si alzava anche prima dell’orario prefissato e la sera dopo le nove, mentre prima il convento era avvolto in assoluto silenzio, si sentivano fino a tardi i vagiti della piccola e le ninna nanne cantate dalle sorelle per cullarla e farla addormentare.
    Nel trambusto anche le lezioni avevano assunto un andamento irregolare, ma alle allieve non dispiaceva affatto che le rigide regole del convento subissero quel cambiamento.

    La Superiora stabilì di non aspettare per il battesimo e mandò a chiamare il parroco del paese, don Crescenzio, affinché le somministrasse il sacramento. Ma chi di loro sarebbe stata la madrina?
    Per evitare che ci fossero discussioni e malumori si decise che sarebbe stata la sorte a decidere.
    La prescelta fu suor Placida che quando lo seppe fece salti di gioia, poi vedendo le consorelle dispiaciute, disse, con quell’ aria angelica che non l’abbandonava mai: –Sarete tutte vicino a me, non io da sola, ma ognuna di noi sarà la madrina. Con una breve cerimonia a cui parteciparono le suore, il prete e il sagrestano, la bambina fu battezzata col nome di Alfonsina Innocenti.

    Alfonsina era una bimba adorabile e tutte le suore si prodigavano per lei. Suor Maria le preparava dolci prelibati, suor Placida la coccolava e le raccontava favole, suor Bettina le cuciva i vestitini utilizzando quello che aveva a disposizione, in genere si trattava di abiti scuri o grigi che facevano risaltare con la chioma rossa della bambina fatta di riccioli morbidi.
    Come divenne abbastanza grande da poter dormire da sola le venne assegnato un letto nel dormitorio insieme alle altre bambine. La sua vicina di letto era la piccola Lena.
    Alfonsina aveva ricevuto in dono tanti giocattoli dalla gente del villaggio, ma a lei era cara soprattutto la sua bambola, quella che le era stata messa nel cesto quando era stata trovata. La volle chiamare Betty, perché somigliava a suor Bettina con le sue guance bianche e rosee e non si separava mai da lei neanche quando dormiva.
    Fin dalla prima sera Alfonsina si mostrò vivace e chiacchierò a lungo con Lena delle passeggiate che faceva con la sua madrina e vedendola interessata le chiese: — Domani vuoi venire anche tu?
    Lena non rispose, ma i suoi occhi azzurri dissero di sì.
    Quando andavano a mensa Alfonsina chiedeva a Lena di darle la mano per aiutarla a scendere le scale e con una mano in quella dell’amica e l’altra stretta alla sua bambola entravano nel refettorio.
    Una sera nel letto Alfonsina raccontava aneddoti alla sua amica e mentre parlava lisciava la bambola che aveva accanto. La sua voce giungeva serena a Lena e pareva cullarla, però d’un tratto attratta dal calore che pareva emanare la bambina con la bambola scese dal letto e si fermò davanti a quello accanto. Una testa rossa emerse dalle coperte: — Vuoi dormire con me? —
    Lena scosse la testa e ritornò nel suo letto.
    La mattina Alfonsina si svegliò e non trovò la bambola accanto a sé cominciò a piangere disperata fino a che Lena scese dal letto abbracciata alla bambola e gliela porse.

    Passò il tempo e Alfonsina cominciò a frequentare la scuola. Le lezioni si tenevano in un’aula esposta al sole ma col freddo l’inchiostro gelava nei calamai e suor Maria accendeva una candela per farlo sciogliere col calore del fuoco.
    Le bambine nei loro abiti grigi con grosse tasche sembravano fiori scoloriti che non riescono a sbocciare. Attente seguivano le lezioni di italiano, storia, geografia, e i corsi di cucito e ricamo, nonché le lezioni di cucina.
    Lena si mostrò molto brava nel ricamo era un’arte che non richiedeva parole e molto adatta a lei, Alfonsina si appassionò allo studio delle erbe di cui suor Placida era esperta e un giorno sapendo che andava a raccogliere valeriana e camomilla, volle seguirla. Mentre la suora era intenta a selezionare le erbe, la bambina attratta da una farfalla si allontanò, improvviso un tornado come dal nulla si avvicinò e sollevando Alfonsina come un fuscello la spinse sull’orlo di un burrone. La suora esterrefatta accorse e assistette a uno strano fenomeno. Una nuvola grigio scuro si fiondò sul tornado respingendolo sul fondo del burrone, pareva fatta fumo ma doveva essere abbastanza consistente perché sollevò la bambina come portandola in braccio e la depose ai suoi piedi dissolvendosi.

    —Alfonsina, stai bene?
    La bambina annuì sorridendo. Suor Placida gettò via le erbe, l’afferrò per un braccio e insieme si avviarono verso il convento.
    “Un miracolo? Possibile?” Pensava la religiosa.
    Raccontò lo strano evento a suor Maria che la sconsigliò di parlarne con altri specie con la superiora.
    — Direbbero che hai le visione e poi ci sarebbe un gran clamore attorno a questa fanciulla. Se c’è stato un intervento divino pregheremo insieme per la nostra Alfonsina e ringrazieremo per la grazia ricevuta.
    Lena ormai sedicenne ricevette la richiesta da una nobildonna che amava l’arte del ricamo e voleva fondare una scuola per ricamatrici di cui la giovane sarebbe stata maestra.
    Alfonsina cominciò a sentirsi sola. Lei era la più piccola, aveva solo dodici anni, le suore al convento erano tutte troppo grandi e delle ragazze che frequentavano la scuola nessuna pareva interessarsi a lei.
    Quando vedeva uscire il carro allontanarsi per andare al villaggio diventava triste, un giorno suor Maria la vide seduta sulla panca sotto il ciliegio nei pressi del portone del convento che piangeva stringendo a sé la bambola Betty.
    — Vuoi venire al villaggio? — Le disse fermando il carretto.
    Alfonsina la raggiunse e le ritornò il sorriso. Sedette sull’asse di legno che fungeva da sedile accanto alla suora, l’aria fresca le ravvivò le guance e il profumo del bosco era un balsamo. L’asino procedeva piano tra le buche dei viottoli, facendo dondolare il carretto di qua e di là. Alfonsina ogni volta che rischiava di cadere rideva contenta, abbracciata alla sua bambola.
    Alla bottega c’era anche la figlioletta di Grazia, Ada coetanea di Alfonsina.
    Appena vide la bambina arrivare con la suora s’i interessò subito a lei, un po’ per il suo aspetto, ma in particolare per la bambola che aveva con sé, non ne aveva mai visto una così, la sua era fatta di stracci e vestita come una mendicante, questa invece era bella, con la gonna elegante, la camicia di pizzo e il fazzoletto in testa ricamato. Senza nemmeno chiederle il nome le disse: — Vuoi giocare?
    Alfonsina accettò con entusiasmo e mentre suor Maria snocciolava la lunga lista delle cose da comprare le due bambine entrarono nel retrobottega e nella foga del gioco gironzolavano attorno a un tavolo dove un ragazzino era impegnato a scrivere. Era Davide il fratello di Ada.
    Distratto dalle bambine il ragazzino arrabbiato cominciò ad appallottolare fogli e a tirarglieli addosso, inveendo contro la sorella.

    — Ma pure la piccola monaca, ci mancava adesso.
    Alfonsina si bloccò. Guardò negli occhi quel moretto riccioluto con l’aria spavalda.

    — Io non sono una monaca! — disse con un groppo alla gola.

    — Ma sì, non vedi come sei vestita?
    La ragazzina guardò i suoi abiti grigi che le suore le avevano confezionato con tanto amore, poi recuperò la bambola Betty e scappò via.
    Tornata al convento chiese espressamente a suor Bettina di farle un vestito colorato da poter indossare quando andava al villaggio.

    — E quando pensi di andare al villaggio— chiese meravigliata la suora.

    — Oh, appena il vestito sarà pronto, andrò anch’io ogni settimana con suor Maria alla bottega di Grazia a giocare con Ada.
    Bettina sorrise sotto i baffi e recuperato un taglio di stoffa azzurro fece alla piccola un magnifico abito che impreziosì con perline bianche.

    Il giorno che tornò da Ada le lasciò tutto il tempo la bambola Betty mentre lei passava davanti al tavolo dove era seduto Davide che studiava fingendo di ignorarla.

    — Oh, adesso ti sei vestita da bambola— disse lui sarcastico, stanco di vederla girare lì intorno.

    — Non sono una bambola — sbuffò Alfonsina.
    Lui rise senza darle importanza. Da allora le bambine non entrarono più nel retrobottega e quando si incontravano rimanevano a giocare in bottega o nei pressi del carretto per espressa volontà di Alfonsina.
    Poi un giorno suor Maria le disse che era successa una cosa molto triste, il marito di Grazia era volato in cielo. Quando andarono alla bottega trovarono Grazia e Ada vestite di nero e Davide non più a studiare, ma a sistemare la merce nel negozio.

    – Eh! – aveva sospirato sua madre, — povero figliolo, dopo la morte del padre ha dovuto interrompere gli studi per aiutarmi.
    Alfonsina e Ada si abbracciarono, non c’era più quella magica complicità del gioco da condividere, ma un dolore che faceva stringere lo stomaco in una morsa.
    Quando andava al villaggio adesso trovava Ada e sua madre tra le scansie della bottega, Davide era sempre in giro a procurare merci nuove come faceva suo padre.
    Quei pochi minuti che trascorreva insieme alla sua amica erano preziosi, si raccontavano i loro sogni, le loro speranze di fanciulle; s’intendevano a meraviglia solo con uno sguardo.
    Poi un giorno Alfonsina notò qualcosa di diverso nella fanciulla. Come la vide entrare nella bottega la prese per mano, la portò in un angolo appartato e disse: — Ho deciso, mi sposo!
    Alfonsina cadde dalle nuvole non sapeva di nessun eventuale fidanzato. — E con chi?
    —Un mercante, mi ha vista e ha chiesto la mia mano.
    —Ma se neanche lo conosci.
    —Lo conoscerò amica mia, non voglio restare in questo villaggio sperduto, viaggerò e sarò una signora.
    Alfonsina sapeva che le parole sarebbero state inutili. L’abbracciò, mentre le lacrime di entrambe si confondevano.

    Dopo il matrimonio non andò più alla bottega del paese, la cara amicizia di Ada le mancava molto. Ogni fanciulla alla quale si affezionava spariva dalla sua vita e lei ritornava ad essere sola come era sempre stata. Quando non studiava si fermava spesso sulla panca di pietra, all’ombra del vecchio ciliegio, il suo sguardo era triste e spento. Un giorno suor Maria che si apprestava ad andare in paese la vide e ricordò quando l’aveva portata con sé la prima volta al villaggio.

    – Dai monta su, un po’ di svago ogni tanto ci vuole.

    Fu così che Alfonsina rivide Davide. Fu come se lo vedesse per la prima volta: nella bottega si trovò davanti un giovane bruno, tutto muscoli, i riccioli neri era sempre quello, ma lo sguardo adesso era tenero e triste, e quando Alfonsina guardò le sorrise dolcemente.
    Rimasta affascinata dalla forza, dal sorriso e dai modi estremamente gentili di quel giovanotto, si ritrovò a pensare a lui e a desiderare di rivederlo. Per cui aspettava col cuore in gola che suor Maria andasse al villaggio per chiederle di poter andare con lei.
    Davide aiutava a caricare la loro spesa sul carretto, e si offriva anche di recapitarla personalmente se avessero avuto difficoltà. Attratto dalla bellezza di Alfonsina, si perdeva nei quegli occhi vellutati e sognava i suoi riccioli rossi come strani magici fili che lo tenevano legavano a lei fin da un tempo lontano.

    Grazia che si era accorta dell’interesse del figlio per la fanciulla disse alla suora – È cresciuta, Alfonsina, ed è proprio una bella ragazza, ma chissà se stando in convento non abbia deciso di diventare pure lei monaca.
    – Ma no, lei sta studiando per diventare istitutrice.

    Mentre la suora e sua madre chiacchieravano, Davide aiutò Alfonsina a salire sul carretto e le strinse la mano: – Posso venire a salutarti al convento? – chiese timidamente.
    Lei divenne rossa e annuì.

    Si recò al convento quello stesso giorno. Alfonsina era seduta sulla panchina sotto il ciliegio, assorta nella lettura, cullata da una brezza che non mancava di soffiare spesso in quella regione tra i monti; accanto a lei la bambola che portava ancora con sé. Lo sguardo fisso sulle pagine pareva essere rapita in un mondo tutto suo. Al ragazzo parve misteriosa, sfuggente e nello stesso tempo bellissima, sentiva che anche il suo cuore era d’accordo, perché batteva come un matto. Stava per avvicinarsi a lei, quando una voce dall’interno intanto la chiamò: Alfonsina è l’ora dei vespri- annunciò suor Maria.
    Lui impacciato la salutò.

    –Devo andare adesso, magari ci vediamo un’altra volta– lo congedò lei, con un risolino insolente.

    Il giovane se ne andò corrucciato, un vento leggero tornò a giocare con i riccioli rossi della giovane. Infilandosi tra i bottoni della sua camicetta e sotto il suo vestito leggero, ma lei non se ne curò e rientrò, lieta come sempre, al convento.

    Intanto il tempo passava e la ragazza terminò i suoi studi. Organizzarono una grande festa nel cortile del convento con lunghe tavolate imbandite. Tutto l’istituto fu addobbato con festoni. La superiora a capo tavola aveva gli occhi lucidi, ringraziò tutti e fece un discorso dove aprì il suo cuore. La gente applaudì commossa. Alfonsina che era frastornata dai complimenti di tutti. Notò che c’erano anche Davide e sua madre in fondo alla tavolata, il giovane le fece un cenno di saluto, poi facendosi largo tra gli invitati riuscì finalmente ad avvicinarsi e farle i complimenti.

    – Andrai a lavorare lontano da qui?

    – Non lo so ancora, però non posso rimanere qui in convento.

    Lui parve deluso di quella risposta e dopo un poco abbandonò la festa insieme a sua madre.

    Il giorno dopo mentre Alfonsina sedeva al solito posto sotto il ciliegio, Cesare tornò al convento.
    Un poco impacciato si avvicinò: – Volevo parlarti da sola. Io credo che se tu vuoi non sarai costretta ad andartene, potrai insegnare anche qui. E poi metti di avere un fidanzato che ti vuole bene, credi che ti lascerebbe andar via?

    Lei lo guardò… le stava forse dicendo di amarla?

    Era così vicino e la guardava teneramente, poi andò più vicino e le labbra si sfiorarono.
    Lei turbata disse: –Davide– e non riuscì a dire altro. Si diedero appuntamento per il giorno dopo.
    La sera seguente Alfonsina aspettò che le suore dormissero e si recò all’appuntamento con Cesare. Sotto il ciliegio l’aspettava impaziente e lei volò letteralmente tra le sue braccia, il ciliegio fu testimone immobile e muto del loro amore.
    Quasi ogni sera Alfonsina approfittando del sonno profondo delle sorelle, scendeva le scale, attraversava di corsa il cortile e andava a raggiungere il suo innamorato che l’aspettava lì fuori, nascosti dal silenzio e dalla notte vivevano la loro storia facendo progetti per il futuro. Davide pensava di ampliare il negozio e anche la casa dei suoi, e di vivere insieme a Grazia. Pensando alla loro vita insieme, e la ragazza si sentiva protetta e felice.

    Un giorno una carrozza con lo stemma nobiliare raffigurante un’aquila, giunse al convento, ne scese una signora vestita di broccato blu con l’aria arcigna che chiese di parlare con la Superiora. La Madre l’accolse cortese, sapeva chi era, anche se non aveva detto il suo nome.

    –Mi perdoni, Madre, ma visto che la Alfonsina dovrà lasciare il convento volevo consegnarle di persona questa lettera coi documenti necessari. Ho stabilito tutto per il suo futuro: avrà una bottega d’artigianato e una casa tutta sua e vivrà nel paese della sua povera madre. Per ringraziarla, di quanto ha fatto lei e le sorelle, c’è qui un contributo che le permetterà di portare avanti il convento senza problemi.

    La donna parlava e la religiosa ascoltava. Aveva pensato a tutto la contessa, ma di sua nipote non aveva chiesto. – Scusate, contessa, ma veramente noi pensavamo che adesso potesse fare l’istitutrice, voi sapevate che stava studiando, vero? – osò la superiora.

    – Sciocchezze! Un po’ di studio non guasta, anzi, saprà fare bene i conti e scrivere correttamente, quando gestirà il negozio.

    Delusa la Madre cercava di capire fino a che punto quella donna fosse senza cuore, per cui le propose: – Quindi lei è venuta a prenderla. La faccio chiamare subito, è in camera sua.

    –E perché mai? Ho fatto abbastanza per lei e ho troppo sofferto a causa sua, verrà qualcuno a prenderla domattina. Adesso, credo sia meglio che vada.

    – E se Alfonsina non volesse fare quanto da lei richiesto?

    – Allora sarebbero guai e non solo per lei, ma anche per questo miserabile convento – concluse la contessa e senza neanche salutare voltò le spalle e scomparve dall’uscio.

    Quando La Madre Superiora fece chiamare Alfonsina la quale temendo che avesse scoperto i suoi incontri con il giovane che amava, arrivò agitata e tenne gli occhi bassi.
    La Madre sembrava a sua volta impacciata nel doverle parlare, poi, tamburellando con le dita sulla scrivania, ruppe il silenzio.
    - Mia cara, – sono passati molti anni e tu sei diventata adulta ed è giusto il momento che tu sappia chi sono i tuoi genitori.

    Alfonsina la guardò strabiliata: Voi sapete?

    –Non molto in verità, so che tua madre è morta di parto, e tua nonna ti ha affidato a noi.

    –E mio padre?

    –Tuo padre è un conte, quando tu sei nata era sconvolto, e le mostrò la lettera di sua nonna.
    Alfonsina lesse e dal suo volto scomparve quel sorriso fiducioso che l’aveva sempre accompagnata.
    In tutti quegli anni, ogni mese era arrivato un assegno mensile da parte del notaio. Ma né sua nonna, né suo padre avevano mai chiesto sue notizie, c’era qualcosa di sbagliato in tutto questo, che andava contro i principi cristiani con i quali le buone suore l’avevano cresciuta. Ma adesso cosa doveva fare?
    La voce della Superiora chiari i suoi dubbi.

    — Speravo che saresti rimasta da queste parti, ma tua nonna ha stabilito che andrai a vivere nel tuo paese d’origine, dove sono pronti per te una casa e una bottega, tutto è stato acquistato a tuo nome. Domattina verrà qualcuno a prelevarti. Nella tua casa troverai una governante che ti aiuterà. Questi sono i documenti – pronunciò queste parole con voce roca, sapeva di darle un dolore.
    La fanciulla ascoltò in silenzio; aveva il cuore in gola. Sbalordita dalla precisione con cui era stato programmato il suo futuro esclamò: – Andare via, Madre! E se io volessi rimanere qui?

    – Mi dispiace Alfonsina, la contessa tua nonna è stata molto insistente, un tuo rifiuto potrebbe avere conseguenze, anche gravi – concluse con gli occhi bassi.

    – Mia nonna è stata qui, perché non mi avete avvertita?

    La superiora taceva.

    –Non ha voluto vedermi vero? No, non mi cercherà, non l’ha mai fatto in tutti questi anni. Si è messa a posto la coscienza sistemandomi. ¬

    Le lacrime si erano fissate nei suoi occhi, ma non scendevano.

    – Loro sono ricchi e ti stanno offrendo la possibilità di vivere senza preoccupazioni, anche se tutto questo ha un sapore amaro devi accettarlo. È gente potente, e anche pericolosa.

    – Ma è terribile… si tratta della mia vita.

    – Alfonsina, sappi che se noi ti vorremo sempre bene come una figlia. – disse la Superiora guardandola con tenerezza e nel salutarla l’abbracciò e la strinse con forza, non l’aveva mai fatto prima d’allora.

    Ora sentiva di essere una nuova persona e non era più sicura di niente. Il suo segreto le pesava inchiodandola in uno stato di confusa fissità. Il giorno dopo sarebbe andata via, verso una nuova vita, ma in quel convento lasciava tutti i suoi affetti e doveva avvisare il suo innamorato, per spiegargli la situazione. Come fare? Suor Maria con l’unico mezzo per raggiungere il villaggio non si trovava al convento, era andata a far visita a una parente molto malata. Scrisse una lunga lettera per Davide cercando di trovare le parole giuste, la strappò e riscrisse numerose volte, poi finalmente sentì il raglio dell’asino: suor Maria era tornata. La raggiunse ansiosa e le affidò la sua preziosa missiva, solo che ormai era buio, ed era pericoloso avventurarsi per quelle stradine.
    — Andrò domattina prima delle lodi disse commossa. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei.
    L’ abbracciò con le lacrime agli occhi.

    –Non mi dimenticherai piccola?

    –Come potrei - disse la fanciulla tra i singhiozzi.
  13. .
    Tony-the-subgrazie Tony del tuo commento, in realtà hai letto altre cose mie ai tempi di meetale e le olimpiadi letterarie mi chiamo Liliana scrivevo e scrivo soprattutto poesie, ma il mio pallino è raccontare. Leggerò senz'altro il tuo libro, pensa che mentre sbirciavo su amazon mio figlio che è stato in africa alcuni mesi , e mi ha ispirato questo racconto , mi ha detto che quando era ai villaggi lo chiamavano Mzungo per dire europeo, bianco.
    solenebbia sei stata bravissima a considerare il titolo e il nome Nyah che non sono stati scelti a caso, aggiungo ancora Simba il nome del nonno che significa leone, per la forza d'animo che lo caratterizza e Kamisi, nato di giovedì, nel mezzo della settimana , si ritrova ad essere nel mezzo tra la tradizione e un possibile cambiamento futuro grazie all'apertura mentale offertagli dallo studio.
    un caro abbraccio. :emoticons-saluti-6.gif?w=593: :pazzo.gif:
  14. .
    oltre

    In questo tempo che opprime, il senso delle cose si trasforma.
    Ogni parola è inutile, il senso delle cose vuoto, resta solo l’essenziale, quello che è importante,
    ma in ogni miserabile vita ogni cosa lo è, ogni attimo è prezioso, anche se galleggia in un mare di dubbi,
    anche se scivola in rigagnoli intrisi di paura.
    Cosa c’è oltre?
    Oltre ogni incertezza c’è sempre la speranza.
    Oltre il dolore il sogno, che squarcia questo tempo e libera le membra col dono di un'illusione tra incanto e meraviglia.
    Silenzio…
    La vita galleggia in una dimensione che non le appartiene, si fa scudo delle parole, ma è prigioniera di se stessa.
    Se mai incontra un raggio di sole le appare lontano, sconosciuto, e lei gli passa accanto ignara.
    La sostanza delle cose si frantuma in polvere evanescente.
    Non c’è niente di bello, non c’è niente di brutto,
    solo un’attesa estenuante che porta via i sorrisi, gli abbracci, i baci e ogni tenerezza,
    che il cuore ricorda, ma l’occhio non vede, lasciandolo in balia di lacrime dispettose, fragili, che sgusciano a tradimento.
    Il corpo sogna di spaziare in un mondo liquido.
    È un grembo materno che lo accoglie lieve, e in esso s’invola nuotando, senza pericoli.
    Quanta forza in quella quiete che lo culla, eppure potrebbe annegare, ma non teme alcun male.
    È come una piuma nell’aria, non ha peso, non ha consistenza, solo si affida al dolce fluire dell’onda.
    La spiaggia della speranza lo attende.

    Edited by Esterella - 14/12/2020, 09:31
  15. .
    Un viaggio triste dove due sconosciuti si incontrano.la parte del viaggio è quella più bella. Ci sono persone che a volte s' incontrano e si stabilisce una connessione, è per questo che la ragazza rivela la sua malattia l' altro le dà coraggio. Le imprecisioni e gli errori sono correggibili, il racconto arriva ed è bello.
272 replies since 6/9/2020
.