Scrittori per sempre

Posts written by mangal

  1. .
    CITAZIONE (Arianna 2016 @ 26/11/2020, 17:34) 
    Mi sto impegnando. Chatto sul forum, ascolto musica ispirante su youtube e scrivo il racconto. Ho buone speranze per riuscire a consegnarlo.

    musica new age?
    inspira... espira... inspira... espira
    ispira?
  2. .
    CITAZIONE (Arianna 2016 @ 26/11/2020, 17:13) 
    Un bel battesimo del fuoco :super-onion-smiley-114.gif:

    ecco, vedi di tenere alto il nome dei vecchietti di sps, su...
  3. .
    CITAZIONE (mangal @ 23/11/2020, 19:47) 
    beh, devo dire che oltre la metà dei racconti finora giunti è stata presentata da new entry.
    notevole...

    siamo al 60% esatto per new entry
  4. .
    CITAZIONE (solenebbia @ 26/11/2020, 14:53) 
    Mi sto limando le unghie :ouch_ow_oh_ah_geez.gif:. Pronte per domani per farle volare sulla tastiera :super-onion-smiley-114.gif:

    fino alla mezzanotte di domani c'è tempo per inviare i racconti.
    il via alle danze verrà probabilmente dato domenica
  5. .
    CITAZIONE (tommasino2 @ 25/11/2020, 17:34) 
    Quello che beve Drugo, gin e panna, con ghiaccio. Fa schifo, ma mi piace troppo lui. :)

    sì sì, fa proprio schifo...
    wiki, preparagli il beveraggio, offro io
  6. .
    CITAZIONE (tommasino2 @ 25/11/2020, 17:29) 
    I piccoli e mio genero sono a posto. Mia figlia, no, è ancora positiva.
    Passerà.

    beh, un passo avanti c'è stato, tom.
    cosa ti posso offrire?
  7. .
    CITAZIONE (Viviana Monroy @ 25/11/2020, 09:56) 
    Io pure lavoro dentro e fuori anche in zona rossa. Ma il mio è arrivato ???chiedo lumi alla amministrazione XD *_*

    certo che sì.
    ti sono state inviate due mail
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    CITAZIONE (Dafne @ 24/11/2020, 21:11) 
    Tzzz... Tzzzz... Uomini che non capiscono le donne... 😁

    salut
  9. .
    CITAZIONE (tommasino2 @ 24/11/2020, 19:39) 
    Faremo un cesareo :super-onion-smiley-114.gif:

    woot_jump woot_jump woot_jump
  10. .
    beh, devo dire che oltre la metà dei racconti finora giunti è stata presentata da new entry.
    notevole...
  11. .
    La prima volta che incontrai Dean fu poco tempo dopo che mia moglie e io ci separammo. Avevo appena superato una seria malattia della quale non mi prenderò la briga di parlare, sennonché ebbe qualcosa a che fare con la triste e penosa rottura e con la sensazione da parte mia che tutto fosse morto. Quella fu la prima di una serie di batoste che alla fine mi portò a guardare la mia vita in prospettiva, purtroppo quello che vidi mi tormentò poi giorno e notte. Mi avvicinavo ai quaranta e sentivo di aver gettato gran parte della mia vita alle ortiche. Ora che avevo perso tutto mi rendevo conto di non aver mai avuto nulla se non illusioni capaci di distrarmi dalla cruda verità. Fu in questo stato d’animo che incontrai Dean. Mi fu presentato da un amico, sosteneva di aver letto un mio articolo sul Clarion e di morire dalla voglia di conoscermi. All’epoca ero un professore universitario alla Sorbonne di Parigi che nel tempo libero scriveva articoli per la stampa clandestina. Non ero un membro della resistenza francese ma piuttosto un privato cittadino fortemente critico del credo e della condotta dei nazi-fascisti che soggiogavano allora il vecchio continente. Evitavo di espormi usando pseudonimi e cercando di limitare al minimo i miei contatti con chiunque fosse affiliato alla resistenza. L’unica persona che incontravo era Josep, colui che si assicurava che i miei scritti arrivassero nelle mani giuste per poi essere pubblicati. Lo stesso uomo che permise al signor Dean di ottenere un incontro con me. Presto scoprì che dietro a quello pseudonimo si nascondeva un membro d’alto rango nell’ala della resistenza affiliata alla figura del generale de Gaulle. Non era il primo uomo che tentava di arruolarmi dalla sua parte, ci avevano già provato prima gli anarchici e i comunisti. Quella volta però finì per accettare. A differenza degli altri non tentò di persuadermi con sproloqui atti ad attizzare il mio orgoglio nazionale, oppure declamandomi la necessità di uomini che tenessero viva la speranza nei cuori francesi. Aveva un aspetto impeccabile, un giovane Humphrey Bogart. Capigliatura bionda, occhi azzurri e lineamenti dolci ma al contempo decisi. Vestiva sempre elegante e mai aveva un singolo capello fuori posto. La cosa che faceva più impressione era però il suo modo di essere. Sembrava vivere a un centimetro da terra, per quanto la vita potesse mostrarsi brutale lui trovava sempre il modo di cadere in piedi, non annaspava come tutti gli altri. In qualche modo conservava intatto il sorriso, come protetto da un segreto sortilegio. Fu Il desiderio di penetrarne il segreto che m’avvinse quella volta, lui rappresentò ai miei occhi la promessa di una vita migliore.
    “Mi aggiorni”. “Certo maggiore Carl. Il primo attacco è fallito. Sono in cinque là dentro, e non c’è verso d’avvicinarsi a più di cinquanta metri senza restarci secco”. “Crede che la situazione potrebbe protrarsi ancora per molto?” chiese Carl. “Forse signore” replicò il capitano. Quello era il genere di cose che Carl avrebbe voluto evitare. Alla radio non si faceva che parlare del attentato alla vita del tenente colonnello delle SS Kurt Lischka. Quest’ultimo fu immediatamente portato in ospedale, protetto da un piccolo esercito armato fino ai denti, sebbene avesse riportato solo ferite superficiali. Arrabbiato aveva proclamato lo stato d’emergenza, indetto il coprifuoco e riversato tutti i suoi uomini nelle strade e nelle case dei parigini. La brutalità non tardò a presentarsi, molte persone accusate d’aver aiutato gli attentatori si videro giustiziare la propria famiglia per poi unirsi a loro. Molte erano le vittime delle accuse di coloro che desideravano vedersi assegnare il denaro promesso dal tenente colonnello a chi offriva informazioni utili alla cattura dei suoi attentatori. “Io la rispetto, ma se la faccenda non si chiuderà in fretta non esiterò a scavalcarla, chiaro?”. Il capitano annuì, aspettava l’arrivo delle mitragliatrici.


    “Moriremo tutti quanti!” strillò uno degli uomini rannicchiato in un angolo.
    “Puttana isterica ci farai ammazzare tutti!” proruppe furioso un uomo accanto a Josep.
    “Ragazzi risparmiate le energie per i nazisti” intervenne Dean.
    D’un tratto l’aria si riempì del rombo assordante delle mitragliatrici, gli assediati sentirono i proiettili fracassare le finestre e le pareti. Si afflosciarono per terra strisciando verso il riparo più vicino. I colpi sembravano venire da tutte le direzioni, ma Dean intuì che i nazisti avevano installato nidi di mitragliatrici nei piani superiori degli edifici di fronte. “Tra poco entreranno, tenetevi pronti!” urlò, cercando di farsi sentire dagli altri. Sapeva che la loro barricata improvvisata, addossata alla porta sul retro, non avrebbe retto ancora per molto “Josep, difendi la porta sul retro!”. Gli uomini in uniformi nere avanzavano, coperti dal fuoco di sbarramento delle mitragliatrici. Poi queste tacquero. Tutti sapevano cosa questo significasse. Lo sguardo del professore cadde sul volto di Dean. Sembrava vivesse quella situazione come una delle infinte esperienze della vita, contemplandola nello stesso modo contemplasse un qualsiasi altro volto dell’esistenza. Lui dal canto suo era terrorizzato al pensiero di non aver consacrato la propria vita a qualcosa di più grande, avrebbe voluto scrivere grandi romanzi, dando tutto se stesso a questa vita e invece moriva tristo e patetico. Non comprendeva che nulla di quello che è esistito, esiste ed esisterà può essere cancellato in quanto: l’imperatore, la puttana, il criminale, il santo, il vincitore e il vinto sono solo le fantasticherie di colui che non comprende che tutti gli uomini e non, fanno parte di qualcosa di infinitamente più grande di loro, e di cui ciascuno di essi è parte necessaria. Era per questo che Dean desiderava la pace, era per questo che Dean non odiava i nazisti. La porta si aprì facendo penetrare la luce del giorno. Nessuno entrò, vennero lanciate delle granate. L’esplosione fu assordante, s’alzò un grosso polverone, e poi scoppiarono raffiche di mitra. Figure vaghe si riversavano nella stanza. Lo scontro fu feroce, si sparava alla cieca, i proiettili rimbalzavano da tutte le parti. In quel nuvolone di polvere e detriti c’erano padri, figli, fratelli, cugini, amanti, mariti, tedeschi, spagnoli, francesi che si uccidevano. Un oggetto rotolò ai piedi del professore. “Granata!” urlò qualcuno. La fissava, avrebbe dovuto fare qualcosa, ma non poteva era paralizzato. Dean la raccolse e la scaraventò nella parte opposta della stanza. L’esplosione fu accompagnata da lamenti infernali. Qualcuno esalava i suoi ultimi respiri, qualcun altro supplicava con le sue viscere in mano di essere graziato. Si senti un fischio. Di punto i bianco gli assalitori cominciarono a precipitarsi fuori dall’edificio, diventando bersagli facili. Quando se ne furono andati calò di nuovo il silenzio. Tutti sembrarono tirare un sospiro di sollievo, contenti d’aver rimandato l’inevitabile anche solo per pochi istanti. Dean però non riusciva a comprendere per quale ragione avessero deciso di ritirarsi così. Tutti i sorrisi si spensero. Dean si voltò nella direzione in cui gli altri guardavano, ed ebbe la sua risposta.

    “Signore vuole davvero risparmiare questo cane?” domandò pensieroso il capitano.
    “Niente affatto” rispose orgoglio Carl “Ma se lo desidera gli permetteremo d’essere bendato quando lo fucileremo assieme agli altri”. Il suo sottoposto lo guardo con ammirazione, poi con sorrisino beffardo si rivolse all’uomo inginocchiato davanti a loro “Il Reich è grato che lei gli abbia aperto la porta sul retro”
    Le prime luci dell’alba rischiaravano i volti di cinque uomini. Due di loro ingiuriavano delle figure in uniformi nere, mentre quest’ultime imbracciavano dei fucili. “Plotone, attenti!”. Un altro piangeva disperato, implorando quei volti coperti ancora dalle tenebre della notte di risparmiarlo come precedentemente pattuito. Nessuno sembrava prestargli attenzione. “Caricate!”. Gli ultimi due restavo in silenzio ma in modi diversi. Uno sembrava stesse guardando un mucchio d’attrezzi agricoli non molto distanti, arrugginiti, rigonfi e contorti, macchine un tempo verniciate impazienti di lavorare, ma che la vita non aveva mai usato. “Puntare!”. L’altro, dai capelli arruffati, sorrideva contemplando il tramonto. Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano. “Nel complesso”, rifletté, “sarebbero potute andare decisamente peggio”.
  12. .
    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
    Un sorriso amaro solcò per un attimo il volto di Adelaide Ricci Riccoboni mentre, con movimento calmo e misurato, richiudeva il libro su quelle prime pagine che aveva appena sfogliato. Un tonfo sordo, ovattato, che solo i libri riescono a produrre quando si lasciano chiudere.
    Le era tornato in mente il senso di quella frase d’inizio di Anna Karenina, ma non la ricordava perfettamente e l’aveva voluta rileggere. Un lieve tocco alla porta la distolse dai suoi pensieri.
    «Mi scusi signora, se non ha bisogno di me io vado a dormire. Non c’è proprio niente alla tv. Si parla solo di virus, nuovi casi, morti…»
    «No no, grazie Clara, vai pure a riposare. A domani mattina.»
    «Non vedo l’ora che arrivi domani, signora. Vado a fare la spesa, almeno qualcosa di diverso! Chi l’avrebbe mai detto? Buonanotte». Le ultime parole sfumarono mentre la porta della stanza si richiudeva con delicatezza.

    Felicità, infelicità, che parole complicate, abusate, perfino usate a sproposito. Come se la felicità potesse essere uno stato permanente dell’anima o ancor di più come se questo stato potesse estendersi con estrema facilità dalla sfera individuale a quella familiare, proprio come un contagio virale.
    La realtà è che sono gli altri che attribuiscono a una certa famiglia una sorta di patente di felicità, partendo da presupposti oggettivi che fanno dire a chi guarda dall’esterno: “quella non può non essere una famiglia felice”.


    Addie – così la chiamavano, fino da bambina, per sdrammatizzare quel nome troppo imponente e impegnativo – ripercorreva spesso con la mente il suo passato e non riusciva a trovare un solo momento della vita in cui la sua felicità avesse coinciso perfettamente con la felicità della sua famiglia.
    Ed era vero anche il contrario. Aveva letto sprazzi di felicità negli occhi di uno dei suoi familiari, in momenti in cui lei avrebbe voluto morire.
    Eppure i presupposti per una vita felice c’erano tutti.
    Nonostante il nome altisonante, proveniva da una famiglia molto povera e lì aveva toccato con mano il senso etereo e sfuggente della parola “felicità”. Ricordava di quel periodo solo fugaci momenti sereni, ma i disagi della povertà avevano sempre condizionato troppo la sua vita e quella dei suoi familiari.
    Ma era bella, Addie e se ne era accorto anche il giovane Marchese Filiberto Riccoboni, incontrato per caso sui lungarni in una notte di un ultimo dell’anno. Per lei era l’incarnazione del principe azzurro delle fiabe; per lui, lei era una bellezza pura, semplice, con occhi che nella loro luce esprimevano tutto il suo desiderio di vita e di riscatto.

    «Era bello il mio “principe”. Gentile, mai volgare. Fu subito un amore travolgente. Ci sposammo dopo pochi mesi, nonostante le perplessità della sua famiglia che avrebbe preferito per Filiberto una compagna di più alto livello, economico, se non altro.
    L’arrivo dei nostri figli, Eleonora e Lorenzo a poca distanza l’uno dall’altro, fu una gioia immensa. Ecco, quello fu un periodo felice. Mi sentivo completata, perfetta, ma Filiberto, no. Lui soffriva i legami di una famiglia tradizionale. Certamente amava i suoi figli ma non riusciva ad accettare le limitazioni e gli obblighi del suo nuovo ruolo di marito e di padre.
    Ma… se ti annoio, dimmelo pure. È che quando comincio a scrivere mi lascio trasportare dai pensieri e dai ricordi.»
    «Non ti preoccupare, mi piace sentirti raccontare.»
    «Sei molto caro, Ermes, devo ringraziare il caso che ha volto che ti incontrassi, proprio qui.»
    «Anche tu, Adele, sei molto cara.»
    «Va bene. Se non hai di meglio da fare, domani continuiamo. Buonanotte.»
    «Buonanotte anche a te, carissima. A domani.»

    A volte mi sento una stupida a raccontare la mia vita a uno sconosciuto, di cui non so nulla, che chiamo Ermes, che certamente non è il suo nome, come del resto Adele non è il mio. Che mi aspetto da lui?

    Erano passati gli anni. I figli erano cresciuti e alla maggiore età avevano lasciato la casa, alla ricerca di un’indipendenza che sarebbe stata del tutto improbabile senza il sostegno economico della famiglia. La loro felicità, in quella loro parvenza di libertà, era in contrasto ancora una volta con l’infelicità di Addie nel vederli allontanare. Cercò rifugio in Filiberto e fu allora che si accorse di quanto fosse ormai distante da lei.
    «Ciao dolce Adele, ci sei?»
    «Sì, ciao Ermes, ci sono. Vuoi sapere il resto?»
    «Certamente. Non puoi lasciarmi a metà…»
    «Il seguito è cosa recente. Circa un anno fa.. I ragazzi non abitavano più con noi. Eleonora se ne era andata addirittura a studiare in Inghilterra e successe una cosa che mi ferì a morte. In uno dei sempre più rari momenti di intimità… ma forse ha poco senso che te ne parli…»
    «Fai come credi, Adele. Non insisto. Dimmelo soltanto se la cosa può esserti utile in qualche modo.»
    «Istintivamente, sento che posso fidarmi.»


    Se ci ripenso, sono stata un’ingenua. Avrei dovuto accorgermene prima. Eppure i segnali erano tutti lì, sotto i miei occhi. Accorgersene in quel momento, era stato terribile. Quei segni inequivocabili sul collo e sulla spalla di Filiberto mi avevano fatto crollare, in una frazione di secondo, il mondo addosso. Quell’uomo che avevo creduto di conoscere e che in quel momento era tra le mie braccia, poco prima era stato nelle braccia di un’altra donna. È passato del tempo, ma ancora mi brucia dentro, mi imbarazza, anche ora che sto raccontando questa storia a un estraneo incrociato casualmente in un sito per cuori solitari. Forse non è il caso, forse non è questa la strada giusta per scrollarsela di dosso. Eppure è così gentile…
    «Mi spiace, Adele. È proprio una storia spiacevole. Capisco la tua delusione. Quando sento queste storie mi vergogno di essere uomo. Purtroppo siamo quasi sempre noi uomini che approfittiamo della fiducia delle donne e della loro sensibilità. Posso fare qualcosa per te, cara?»
    «No, grazie Ermes, hai fatto fin troppo nel prestarmi attenzione. Non hai obblighi verso di me.»
    «Spero che ti sia servito tirar fuori quello che avevi dentro. Buonanotte. A domani.»
    «Sì, grazie di tutto. A domani.»
    Sono veramente una scema. È incredibile. Me lo ripeto continuamente, eppure… verso le dieci la sera non riesco a resistere alla tentazione di sedermi qui al pc e entrare nel sito…
    «Salve Adele, ben arrivata. Ti aspettavo.»
    «Ciao. Grazie. Mi fai sentire importante.»


    Improvvisamente, un flash di pochi secondi:

    «Basta, Anna!!! Ti ho già detto che i soldi non te li posso restituire. Non cercarmi più, se non vuoi guai!!!!»
    (il messaggio è stato cancellato)

    «Di cosa vuoi parlare stasera?»
    Addie guardò fuori dalla finestra. Vedeva il proprio riflesso sul vetro e l'oscurità subito oltre.
    «Fa freddo lì stasera, tesoro?»
  13. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l’amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l’anima respira e grazie alla quale vive.
    Uno di questi granelli di felicità fu donato a Mauro il giorno in cui, trovandosi in seria difficoltà nella sua vita lavorativa e non ricevendo alcun aiuto da parte dei superiori e dei colleghi, decise di adottare un provvedimento che, infrangendo regole di prassi aziendale, non scritte ma consolidate, fece venire alla luce carenze che, una volta colmate, migliorarono alcuni aspetti gestionali dell’azienda.
    Correva l’anno 1963 e Mauro ricopriva la carica di direttore amministrativo di una media impresa industriale che produceva beni strumentali.
    Tra i clienti dell’azienda figuravano importanti complessi industriali produttori di macchinari e impianti.
    A quei tempi il metodo di pagamento largamente usato dai clienti dell’azienda era la cambiale.
    La cambiale, detta anche pagherò, è un titolo di credito col quale un debitore si impegna a pagare al creditore un determinato importo a una determinata scadenza.
    Perché la cambiale sia perfezionata e diventi esecutiva, cioè esigibile alla sua scadenza, deve osservare precisi requisiti formali, tra i quali figura la firma del debitore a conferma e accettazione del debito.
    La cambiale così perfezionata si dice ‘accettata’ e, in caso di necessità, può essere ‘scontata’, cioè ceduta a una banca la quale, previa la trattenuta di una commissione, la converte in denaro contante, anticipando al beneficiario il controvalore.
    All’epoca molti clienti dell’azienda, di vecchia data e di provata affidabilità, erano soliti effettuare i loro pagamenti per mezzo di cambiali cosiddette ‘autorizzate’, cioè cambiali emesse dal creditore su autorizzazione del debitore, ma mancanti della firma di accettazione da parte del debitore stesso.
    I suddetti titoli, purché la loro scadenza non superasse i sei mesi, venivano normalmente scontati dalle banche, dato il massimo affidamento di cui godevano i nominativi dei debitori.
    Il ventiquattro settembre era un martedì e si approssimava la data in cui si sarebbero dovute pagare le retribuzioni, da sempre inderogabilmente il giorno ventisette, cioè il venerdì successivo, e l’amministrazione non disponeva dei circa cento milioni occorrenti.
    Tutti gli affidamenti utilizzabili e lo sconto delle cambiali in portafoglio non erano sufficienti a raggiungere quella cifra.
    In portafoglio c’erano cambiali, per un importo largamente superiore all’occorrente, ‘autorizzate’ dal principale cliente dell’azienda ma, poiché avevano scadenze superiori a sei mesi, nessuna banca era disposta a scontarle.
    Che fare?
    Non pagare gli stipendi era impensabile per due motivi:
    - la mancata puntualità nel pagamento delle retribuzioni sarebbe stato considerato, da parte delle banche, indice di poca affidabilità in vista di futuri affidamenti;
    - non era mai accaduto che l’impresa, alla data stabilita, avesse disatteso il pagamento delle retribuzioni.
    Non avendo altra soluzione Mauro chiese al presidente di avvertire i soci che si rendeva necessario un loro apporto temporaneo per la somma occorrente, ma il presidente si rifiutò di intervenire e indirizzò Mauro alla direzione commerciale asserendo che la stessa, oltre che vendere, doveva saper incassare.
    Mauro si rivolse quindi al direttore commerciale, ma questi gli fece presente che, dati i tempi ristretti, era impensabile di intervenire presso il cliente per chiedergli di accettare le cambiali, che peraltro erano conformi a quanto pattuito.
    Mauro si era ritrovato così la patata bollente in mano con l’obbligo di dovere, in qualche modo, venirne a capo.
    Intanto il tempo passava.
    Mercoledì Mauro non era ancora riuscito a trovare una soluzione.
    Nel frattempo la notizia, attraverso radiofante, aveva cominciato a fare il giro dell’officina e degli uffici.
    Proprio quella mattina il responsabile delle relazioni industriali era andato da Mauro per chiedergli se le voci che giravano avessero qualche fondamento e lui aveva dovuto dargliene conferma, promettendo comunque, per tranquillizzarlo, che in un modo o nell’altro avrebbe trovato una soluzione.
    Il pomeriggio dello stesso giorno il capo della commissione interna aveva voluto avere, dal responsabile delle relazioni industriali, notizie in merito al pagamento delle retribuzioni, lasciando intendere che, nel caso ci fosse stato un ritardo, le maestranze avrebbero indetto uno sciopero, evento inaudito di cui non si aveva memoria nella storia dell’azienda.
    La situazione era disperata e Mauro, nonostante si scervellasse, non era ancora riuscito a trovare una soluzione.
    Fu a quel punto che si ricordò di avere a suo tempo studiato che una cambiale ‘autorizzata’, ma non ancora ‘accettata’, poteva essere fatta accettare tramite un pubblico ufficiale, purché non riportasse la clausola ‘senza spese’.
    Constatato che le cambiali ‘autorizzate’ presenti in portafoglio non avevano la clausola in questione, il giovedì mattina Mauro diede incarico a un notaio di farle accettare.
    Dati i tempi ristretti non gli venne in mente di avvertire preventivamente, né il cliente, né il direttore commerciale, tanto, pensò, se il cliente le aveva autorizzate, poco cambiava se anche gli si chiedeva di accettarle.
    Le cambiali furono così ‘accettate’ e, una volta portate allo sconto, fornirono a Mauro il denaro occorrente per pagare le retribuzioni.
    Convinto che il caso fosse ormai chiuso, Mauro si disse ‘Tutto è bene quel che finisce bene’ e si godette un felice fine settimana.
    Ma aveva fatto male i calcoli!
    Il lunedì successivo scoppiò un putiferio.
    Il cliente, offeso, telefonò adirato al direttore commerciale dichiarando che non avrebbe mai più acquistato dall’azienda, asserendo che non gli era mai capitato che qualcuno gli avesse chiesto di firmare una cambiale, perché era sempre bastata la sua semplice autorizzazione.
    Il direttore commerciale informò dell’accaduto il presidente accusando la direzione amministrativa, cioè Mauro, di aver causato, per superficialità e incompetenza, la perdita del cliente più importante.
    A quel punto Mauro fu convocato dal presidente al quale espose la sua versione dei fatti:
    - aveva chiesto al presidente di intervenire presso i soci per un apporto temporaneo, ma gli era stato negato;
    - si era rivolto al direttore commerciale affinché ottenesse dal cliente la firma di accettazione delle cambiali, che gli avrebbe consentito di anticipare gli incassi, ma gli era stato risposto picche;
    - le cambiali in portafoglio, sebbene autorizzate dal cliente, non erano scontabili in banca perché avevano scadenze superiori a sei mesi;
    - il cliente, autorizzando le cambiali, aveva omesso di apporre la clausola ‘senza spese’, consentendo così di chiedergli la loro accettazione;
    - incombeva la necessità di pagare le retribuzioni, pena la perdita di credibilità presso le banche e la concreta possibilità di uno sciopero da parte delle maestranze;
    dopodiché si rimise al giudizio del presidente, rassegnato a ricevere un provvedimento che poteva spaziare dal rimprovero solenne al licenziamento.
    Per sua fortuna non fu preso, nei suoi confronti, alcun provvedimento, ma l’episodio fece molto scalpore e fece capire a tutti che vendere era sì importante, ma occorreva anche interessarsi delle modalità di pagamento accordate al cliente e delle loro possibili conseguenze.
    Anche il cliente, dopo aver ricevuto le dovute scuse, recedette dai suoi propositi e continuò a effettuare i suoi acquisti dall’azienda.
    Le cambiali autorizzate continuarono a essere un mezzo di pagamento molto usato, ma da quel momento, onde evitare ulteriori spiacevoli episodi, fu imposto a tutti l’onere di evidenziare su di esse la dicitura ‘senza spese’.
    Alla fine Mauro si disse che forse non era così che dovevano andare le cose.
    Ma così stavano.
    “Nel complesso”, rifletté, “sarebbero potute andare decisamente peggio”
  14. .
    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro,
    ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.

    Sulla tomba solo questo, né nome, né un ritratto. Solo la scritta e una donna in ginocchio sulla gonna merlettata, con il capo chino e il viso madido di lacrime e pioggia. Sulle gambe un bouquet di rose nere, tra le dita un fazzoletto ricamato ed arrossato dalla tosse. Un’anima troppo presto lasciata sola, un bocciolo reciso in quella giornata uggiosa. Non era strano che Anthon l’osservasse.
    Era bello, alto e giulivo. Soprattutto, era perverso. La pestilenza scorreva la sua falce sul Continente e lui la seguiva. Godere gli riusciva difficile ed i suoi sensi pare trovassero gioia soltanto nel consolare un cuore straziato, per il solo gusto di abbandonarla ancora.

    L’uomo sorrise, ripensando ai molti nomi segnati sul suo taccuino.
    «Quale invidia gli Dei devono aver provato, per aver dato a questo viso ragione d’esser così turbato?»
    Gli occhi di lei rotolarono ingenui sull’abito dell’uomo sino al viso cadendo poi nella cupola del parasole con cui la riparava dalla pioggia.
    «Gli Dei non si scomodano per così poco. I Diavoli, al contrario, gioiscono nel privare il mondo dei suoi esemplari migliori.»
    L’uomo sospirò.
    «Siete dunque modesta quanto tormentata. Vi capisco. Anche io sono stato privato di un ‘si fatto esemplare con cui speravo di condividere i miei giorni e la mia fortuna.»
    «Me ne rammarico. Il morbo pare ormai accomuni nella sua tragedia la contea tutta. Non sembrate di queste parti…»
    «Non lo sono. Avevamo in progetto al prossimo equinozio di sfuggire alla piaga tra queste verdi campagne. Ma, ahimè, il morbo m’ha doppiamente preceduto. Avevo trattato per la tenuta Loomcastle un buon prezzo, ma non mi va di vivere solo dove già mi ero immaginato in compagnia. Sono qui per sbrigare le beghe legali.»
    La ragazza annuì: conosceva la tenuta. Del resto, Anthon era procuratore legale per una società che trattava immobili, il che lo rendeva abilissimo nell’accordare le sue fandonie al luogo in cui fosse.

    «Non capisco, però, cosa vi porti al cimitero.»
    Anthon arrossì volgendo lo sguardo altrove.
    Pausa.
    Sospiro.
    «Seguo voi.»
    «Perché mai?»
    Sorriso amareggiato.
    «Mi ricordate la mia povera Sofie: avete di lei lo sguardo tenero e l’incedere aggraziato. Non credevo ai miei occhi! Vi sembrerà sciocco, ma è così.»
    «Lo trovo romantico, invece.»
    La ragazza arrossì stringendo le scapole, poi sollevò il bouquet per annusarne il profumo.
    Anthon si sentì soddisfatto: stava andando bene. Le posò una mano sulla spalla, ma senza lascivia né trasporto.
    Un gesto di conforto, come la carezza di un vecchio amico.

    «Come mai piangete su una tomba senza nome?»
    «È usanza di famiglia riportare soltanto questa frase. Siamo davvero “infelici a modo nostro”. Il patrimonio si va estinguendo e la sfortuna ci perseguita.»
    «Piangete dunque un consanguineo?»
    Lei sorrise aggraziata, poi si rabbuiò.
    «No, mio marito. In vero, non ho potuto godere del suo tepore che per pochi giorni, ma l’ho amato molto. Riservargli questa sepoltura è un modo per sentirlo più vicino»
    «Ma così né il so nome né il suo volto saranno ricordati!»
    «Non importa. Li porterò con me in eterno e tanto basta. Guardate il resto di questi vecchi marmi e ditemi, di uno di loro vi ricorderete? La memoria è un capriccio suscitato dalla brevità della vita e dall’infallibilità della morte. Allungare i nostri giorni nel creato è difficile, così ci accontentiamo del ricordo; ma rispetto al cammino dell’eternità, entrambe quelle strade sono insignificanti e non conducono che a frustrazione, tormento e dannazione. Accettare la finitezza è deludente, ma infinitamente più saggio.»
    Anthon non era solito pensare all’infinito, alla morte, né al tormento o alla dannazione. Adorava i piaceri del presente, lo sperpero dei beni terreni e la carne viva. Eppure, ascoltando quell’ultima frase, un brivido lo aveva scosso. Come se di colpo la morte stessa, con tanto di falce nera, gli avesse mostrato la clessidra su cui era inciso il suo nome. Quanti granelli mancavano?

    Allontanò quelle tetre fantasie prendendo l’astuccio delle radici di liquirizia e, dopo averne offerto alla ragazza, ne strinse una tra le labbra. L’amaro sul palato avrebbe scacciato quello nella testa.
    «Come si chiamava?»
    «Chi?»
    «Suo marito.»
    «Mi scusi, sono ancora sconvolta. Thomas. Ma, vi prego, non siate tanto crudele da farmi parlare di lui.»
    Lei si fermò. Guardò mesta la tomba, ma non le riuscì di piangere. Anthon capì che era il momento. Le cinse la spalla col braccio, abbassò il volto all’ orecchio di lei e sussurrò
    «Come vi chiamate?» «Isolde»
    Pausa. Labbra socchiuse.
    «Isolde, non siamo fatti per piangere in solitudine. Lasciatevi andare.»
    Isolde tremò. Quando si girò, le sue guance erano rosse, i suoi occhi dolcissimi e grandi. Si strinse a lui come la bambina che forse troppo presto aveva smesso di essere.
    Pianse.
    Si sfogò singhiozzando ad occhi bassi sul petto di quel magnanimo gentiluomo che inosservato, pregustando i frutti del suo successo, si concesse un perfido sorriso.

    Anthon si destò nel cuore della notte. Le rosse lenzuola in cui era disteso erano intrise dl soave profumo della donna che vi aveva posseduto, ma lei non c’era. Si sentiva leggermente confuso, ma il sentore di Gin sulla lingua testimoniava come tutto fosse andato per il meglio.
    La stanza aveva uno stile barocco, ma non ricordava se si trattasse della casa di Isolde o di un albergo. In tal caso, la spesa sarebbe stata onerosa, ma non importava. Poche gocce dalla vecchia fiala e la ragazza si sarebbe svegliata a mattino inoltrato, quando lui sarebbe stato ben lontano.

    Era il momento perfetto per concedersi la raffinatezza che da sempre lo eccitava. Al lume di candela segnò in bella calligrafia sul taccuino
    “ Isolde, sposa disperata che perse il suo Thomas. Chiara di pelle, scura di crine, profumo dolce, bocca freschissima. Buono il seno, perfette le natiche. La migliore dall’ultimo solstizio. Penserò ad un modo per far ritorno.”

    Cercò sul cuscino un capello corvino, prese la candela e con poche gocce lo fissò alla pagina appena vergata. Soffiò sulla cera per farla rapprendere, poi ripose il tutto nel bagaglio. Soddisfatto, guardò fuori. Oltre i vetri della finestra a goccia, una pioggia fredda bagnava la notte. Una luna pallida appena s’intuiva tra i nembi sfilacciati del temporale. In basso, i rami dei roseti si intrecciavano, rendendo il giardino un nero rostro di spine. Non aveva memoria di esservi stato, ma aveva il vago ricordo di essersi punto.

    La porta cigolò ed Isolde, avvolta in una vestaglia scarlatta, gli venne incontro. Il suo sguardo disinibito non lasciava dubbi sulla sua condotta.
    «Che ospite terribile l’alcol: conduce per strade meravigliose ma non lascia ricordi.» le disse.
    «Se lo credete, altrettanto terribile vi parrà la vita»
    Lei sorrise serrando le labbra, ma ad Anthon quel paragone non piacque affatto.
    «…non saprei. Ma è un peccato che nulla mi rimarrà dei nostri giochi nel roseto.»
    Così dicendo, mostrò il palmo della mano punto e graffiato in più punti.

    Isolde posò i suoi splendidi occhi nei suoi, poi di scatto si girò. Con un gesto teatrale la veste volò via. Accompagnata soltanto dalla sua voce suadente, ai incamminò al letto mostrando la schiena.
    «Un crudele destino, a cui so porre rimedio.»
    Raccolse il bouquet dal materasso e con un gesto sinuoso ne sfilò una rosa nera. Anthon sorrise. Aveva già recitato altre volte quel copione. Sbottonò la camicia e si distese al suo fianco offrendo il torace. Cercò il suo viso, ma lei, dispettosa come solo l’eros sa essere, lo nascose nel bouquet concedendogli appena la maliziosità del suo sguardo. Tanto bastò ed avvampando le si consegnò. Quando lei scorse su di lui lo stelo spinato, non si oppose, assaporando ogni istante di quel dolce supplizio.
    Più volte la cerimonia si ripeté, spingendosi via via in luoghi più audaci; senza che mai lei gli concesse il volto che lui tanto bramava. Ad un tratto, vinta dalla foga crescente, la mano di Anthon scattò versò il bouquet. Isolde, repentina, si ritrasse ridacchiando. Lui fece per alzarsi, ma lei, con un unico tocco all’apparenza leggerissimo lo rimise disteso. Deluso e sorpreso la fissò. Lei, scuotendo le lunghissime ciglia, disse
    «Se di questo gioco sei stanco, ne conosco uno nuovo»
    «Si, ti prego. Uno che mi conceda ai tuoi baci»
    «Allora, chiudi gli occhi e resta immobile. Farò a te quel che già piacque tanto al mio Thomas.»
    Atnhon sussultò.
    Obbedì.
    Nulla.
    Poi, il tocco di Isolde, gelato dalla notte, raggiunse i suoi piedi. Le dita scorsero sin alle caviglie, mentre il corpo passava nel solco da quelle tracciato. Le morbide forme, arrampicandosi lungo le lenzuola, lo percorsero. Quando fu su di lui del tutto distesa, gli cinse i polsi in una salda morsa. Ciuffi corvini gli coprirono il viso. Tra la spalla e l’orecchio le labbra morbide si posarono.
    «Anthon, sappiate che adoro il vostro collezionismo.»
    Lui storse le labbra. Cosa voleva dire? Istintivamente provò a sollevarsi, ma fu inutile. Quel delicato, sensuale corpo si rivelò dotato di una forza insormontabile.
    Sensuale lei rise, poi in un sussurro aggiunse.
    «…annoterete sul vostro libricino il bacio della Contessina Loomcastle.»

    Anthon trasalì.
    Gli ultimi nobili erano stati giustiziati secoli fa.
    Era impossibile!

    Impossibile come le zanne che gli trafissero il collo; come il fatto che ricordasse di colpo quante tombe in quel cimitero avessero il medesimo epitaffio; come il cuore che si svuotava mentre il cervello restava vigile.
    Impossibile come il fatto che ammirando quell’incantevole figlia delle Tenebre nutrirsi del suo sangue, provasse finalmente quell’appagamento che da sempre gli era mancato.

    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    “Nel complesso”, rifletté, “sarebbero potute andare decisamente peggio”.
  15. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l’amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l’anima respira e grazie alla quale vive. Mi sorprendo spesso di primo mattino davanti alla finestra della cucina, caffè fumante tra le mani e con lo sguardo che insegue i raggi di un sole che albeggia faticosamente tra le nubi scure e minacciose che sovrastano la città, a rimuginare sul senso della vita! Mi faccio proprio delle domande dandomi delle risposte come se fossero frutto di una verità assoluta e inconfutabile! Tutto questo, in effetti, lo devo a mia madre che da piccolino, durante i pomeriggi di pioggia noiosi e cupi mi diceva sempre:
    “quando piove bisogna approfittare per meditare su se stessi per diventare migliori”
    io ci credevo, stavo li alla finestra a guardare fuori pensando e ripensando… spesso finivo a fare i disegnini con l’ indice sul vetro appannato, capii poi, che in realtà era una scusa per farmi stare buono.

    Anche oggi dunque piove, ma io avevo un obbiettivo preciso, Gianluca il raccomandato, dovrà farsi da parte quando sarò promosso direttore della Kirion, erano anni che lavoravo sacrificando tutta la mia vita perdendo moglie e libertà, tutto per la giusta ricompensa che cambierà la mia vita per sempre!
    Ho scelto con cura il vestito stirato di tutto punto elegante ma moderno e il mocassino lucido (oggi ci saranno foto e festeggiamenti da ricordare per sempre), esagero e metto su la mia cravatta fortunata quella blu petrolio con i rombi gialli regalo della mia ex moglie, premio, per quando sono stato assunto, da allora quando la indosso sento ancora quell’energia e felicità che quel giorno provai. Niente mezzi, se faccio tardi meglio andare in auto tanto sono in notevole anticipo non avrò problemi per il parcheggio, ultima occhiata allo specchio con sistemata al nodo della cravatta, profumo vincente e direi che ci siamo, si parte!
    Come previsto arrivo con lauto anticipo e trovo il miglior parcheggio possibile
    “vedi che la cravatta già sta funzionando” penso sorridendo, salgo in ufficio, un bel respiro prima di aprire la porta che mi regalerà un posto migliore nel Mondo!
    Ma questo non è un mondo giusto e così Gianluca diventa il nuovo direttore!
    Finisco il turno, è sera quando scendo dall’ufficio e ogni gradino mi sprofondava sempre più nella disperazione. Devo tornare a casa ma non ne ho voglia, sono in affitto dopo la separazione da mia moglie, 2 camere, bagno e cucina utile giusto quando mi “tocca” il fine settimana con Petra mia figlia, alla fine decido di fermarmi al Pitch, così almeno mangio qualcosa e bevo...soprattutto bevo!
    Me ne sto qui su questo tavolo a guardare la TV una di quelle appese in alto nell’angolo lontano in fondo al bancone del bar che trasmette la partita di non so che cosa e senza audio credo, tanto tra musica e il frastuono dei clienti nessuno sentirebbe nulla lo stesso, credo che l’unico veramente interessato è Pitch, ossia il titolare che non ho idea di come si chiami dunque l’ho battezzato col nome del pub, e se ne sta dietro il bancone appoggiato con i palmi incastonati nel top di legno, sguardo biforcuto tra la TV e l’ingresso del bagno.
    - ha finito? Posso togliere? La cameriera che appare d’improvviso
    - si certo fai pure 
    - la birra la lascio ne ha ancora mezza!
    - ma si grazie lascia lascia
    mentre passa oltre sento il suo profumo dolce e il naso seguendo la sua scia mi fa ruotare la testa ed è li che mi sono accorto di me stesso, riflesso proprio su quel bancone specchiato del bar alla mia destra, anche se qui al Pitch siamo in penombra si vedeva perfettamente il mio alone da sfigato! Non metterò mai più questa cravatta di merda!
    “Ma cosa ti vuoi aspettare” mi dico, “sei venuto qui per affogare i tuoi dispiaceri e neanche un birra ti sei finito! E poi alzati, guardati bene, sei l’unico col vestito della domenica in mezzo ai camionisti!”
    Pago il conto e mi rifugio in auto, mentre ingrano la prima penso che questo rientro a casa sarà amaro più del solito, accendo la sigaretta elettronica al sapore di “depressione” e accompagnato da un roboante temporale mi metto alla guida. Non si vede bene per la fitta pioggia tanto che i tergicristalli non erano più sufficienti e il vetro inesorabilmente appannato. Prendo il cellulare dovevo avvisare i miei amici colleghi che volevano la mia gloria, mando un vocale in cui con sportività elogio rivale e concludo con sfrontata sicurezza e superiorità:
    - in fondo me lo aspettavo!
    proprio loro che facevano il tifo per me mi avrebbero capito, rincuorato e spalleggiato, ma il temporale scaricava a terra tutta la sua furia pensai a quelle gocce di pioggia come fossero lacrime, le mie!
    Intanto saette scagliate dal cielo plumbeo illuminavano a giorno la strada davanti a me, in queste situazioni mi viene alla mente mio padre, diceva che i secondi che intercorrono tra il fulmine e il tuono equivalgono ad 1km di distanza dal centro della perturbazione cosa che lui da capitano di marina considerava molto pericoloso, le due cose ora in effetti, andavano all’unisono!
    Per fortuna sono arrivato sotto casa, non trovo l’ombrello devo averlo lasciato al Pitch, ma visto il mio pessimo umore me ne frego, poi erano già le 2 del mattino, nessuno dei miei amici ha ascoltato o risposto al mio messaggio ...ero stanco, sfinito e mi aspettava un domani deprimente!
    Scendo dall’auto e un tuono fortissimo mi fa tremare i piedi, volgo istintivamente lo sguardo verso l’alto, ero completamente zuppo quando una luce calda mi avvolge e senza che ne avessi contezza mi trovo a terra! La pioggia era battente feci per alzarmi e guardandomi intorno cerco spiegazioni, vedo la mia 24 ore a terra provo a prenderla senza riuscirvi, d’improvviso un auto che frena e quasi mi investe e mentre urlo cosa penso di sua madre, quest’uomo scende senza calcolarmi e va davanti alla sua auto, disteso sull’asfalto vedo il mio corpo!
    Non riuscivo ancora a capire ma quando al telefono l’uomo pronunciò le parole: “non so se è morto” capii e rimasi a guadare tutto il tempo anche quando gli uomini dell’ambulanza col volto di chi mi dava per spacciato, mi presero e portarono via!
    Tutto fradicio, incazzato e depresso vagavo senza meta come un...fantasma, sarà questo il destino di chi muore?
    Mentre le mie lacrime e le gocce di pioggia si confondevano tra loro penso a Gianluca con le sue grasse risate e festeggiamenti… a questa disfatta, in fondo la mia vita non aveva gran valore e come offerta speciale vengo svenduto al primo fulmine che capita!
    Mi fermo sotto un ponte seduto tra le lacrime, le ingiurie e il mio futuro appena asfaltato dalla sorte, ad un tratto sbuca dall’oscurità una vecchia barbona
    - Quando piove in questo modo è sempre una giornata storta!
    - scusa ma tu mi vedi?
    - ragazzo certo che ti vedo, sono vecchia mica scema che parlo da sola?! 
    Invadente si siede accanto. La vecchia mi parla per un tempo infinito della sua vita dura, che è sola e ha fame…
    - senti vecchia, io non so come fai ma io non ho voglia di sentire le tue menate, ma poi chi se ne frega e io che ti sto pure a sentire ...IO SONO MORTO!

    Faccio per allontanarmi e la vecchia mi afferra per il braccio bloccandomi, lo sguardo! I suoi occhi pieni neri, profondissimi io, immobilizzato come fossi stato ibernato istantaneamente, terrorizzato!
    - A volte bisogna perdersi prima di scoprire il senso della propria vita! Dice con voce profonda, maschile di quelle che non puoi immaginare uscire dalla bocca di un uomo!
    Molla il braccio tornando nell’oscurità, io rimango rigido ancora un paio di secondi poi mi decido e la seguo ma il buio sotto il ponte mi inghiotte e cado nel vuoto più profondo.
    Mi ritrovai davanti al mio letto di ospedale, la luce del giorno illumina tutta la stanza e accanto al “me” quello disteso, vi è Gianluca!
    - Sei venuto ad assicurarti che non possa più nuocere? - penso Lui senza distogliere lo sguardo dal mio letto
    - Ciao Matteo, volevo dirti che i tuoi amici, cari colleghi, non sanno neanche dove sei ricoverato da quando sono il nuovo direttore mi leccano il culo tutti i giorni e il capo è molto contento del mio operato , pensa, ti ha già sostituito… nonostante tutto però, ti stimo! Ho sempre ammirato le tue capacità, questa promozione spetterebbe a te e sarebbe stato un onore lavorare assieme, questo è tutto addio! ...e perdonami ma non dirò mai a nessuno che sono venuto qui, credo che capirai, non voglio che mi pensino debole o inferiore a te!
    La mia testa riprese a turbinare e fu buio intenso ...come se qualcuno avesse spento la luce per poi riaccenderla d’improvviso, i miei occhi ormai abituati all’oscurità faticano a definire i contorni della stanza e capisco che mi trovo di nuovo davanti al mio letto ma sta volta vi è Vittoria la mia ex moglie, con mia figlia piangenti e sedute accanto al letto. Già il solo vederle mi regalava una sensazione piacevole, calda e accogliente, ma io gli stavo di fronte a guardarle mentre il mio corpo livido steso su quel letto si prendeva tutte quelle attenzioni, io mi sentivo il peso della loro sofferenza!
    -Amore di mamma, vedrai ce la farà lo sai che è forte e determinato! -Mamma non voglio che ci lascia da soli mi manca!
    -Lo so amore, mi manca “da tanto”anche a me!

    Sentivo scendermi una lacrima sul viso “anche i fantasmi piangono?” pensai, poi capii che stava succedendo davvero, mi stavo risvegliando!

    -Vittoria, Petra…qualcuno mi disse che dovevo perdere me stesso per trovare il senso della vita! Furono le mie prime e uniche parole che riuscii a pronunciare e ci abbracciammo così forte da capire che non ci saremmo mai più persi, anche se negli occhi di Vittoria leggevo un intransigente dubbio, non abbiamo mai smesso di amarci, ma probabilmente ciò che le frullava in testa era che
    forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano. “Nel complesso”, rifletté, “sarebbero potute andare decisamente peggio”.
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