| La maledizione
Prima di salire in montagna per immergersi nella natura, e ascoltare il suo cuore, Febo passò dalla falegnameria di Meo.
— Maestro, vi chiedo di poter rimanere qualche giorno a casa. Mia madre non sta tanto bene.
Il falegname accolse benignamente la richiesta del giovane, aveva a cuore la povera vedova.
—Salutami Maria — aggiunse. Il giovane continuò a guardarlo un po’ impacciato e chiese: — Veramente avrei da chiedere anche un altro favore. Potreste prestarmi alcuni degli attrezzi che uso giornalmente al mio banco di lavoro? Ho intenzione di costruire uno stipetto nuovo per la cucina, lei ne sarebbe molto contenta. L’uomo lo guardò sospirando. Era un ragazzo particolare, ma non gli aveva mai causato problemi e acconsentì anche alla seconda richiesta. Febo prese dal suo banco seghetto, martello, chiodi, sgorbia e altri arnesi che potevano essergli utili e si allontanò con la bisaccia. Aveva detto una bugia, ma era deciso a realizzare un progetto che aveva in mente già da un paio di giorni.
Stavolta imboccò un sentiero diverso, che costeggiava la riva del fiume. Le fronde brillavano specchiandosi nell’acqua e s’inoltrò tra gli alberi che svettavano fitti verso l’alto. Attraverso quel groviglio di rami, la luce del sole irrompeva con squarci luminosi creando dei varchi improvvisi. Nel silenzio udiva solo le folaghe in lontananza e il calpestio dei suoi passi sulle foglie. Proseguì tra castagneti, dove trovò qualche riccio, sfuggito alla raccolta, procedette a lungo tra olmi e frassini e continuò fino a raggiungere una radura. Là decise di costruire il suo rifugio. Si mise al lavoro, segando tronchi e rami e prima di sera aveva realizzato la sua prima opera: un capanno. Intrecciando poi lunghi steli di giunco tra loro, costruì una porticina e la incastrò in una delle pareti laterali della piccola baracca. Nascosto da siepi e arbusti il suo capanno era un luogo unico e confortevole, aveva portato con sé anche qualche utensile che poteva tornargli utile: un pentolino, un bicchiere, un coltello e il necessario per accendere il fuoco. Poco distante c’era una sorgente, alla quale poteva attingere l’acqua che gli necessitava. Avrebbe cercato in quel luogo solitario la quiete che non riusciva a trovare. Era così bello poter restare disteso sul prato, a contatto con l’erba, mentre il sole riscaldava il viso e un venticello accarezzava il suolo facendo vibrare i fili d’erba accanto. Costruì un giaciglio fatto di foglie e rami frondosi che sistemò nel capanno. Era solo, in compagnia delle voci del bosco: gufi, ghiandaie, cinciallegre gli ricordavano che tutto intorno era vita. Per ripararsi dal freddo della notte aveva portato con sé una vecchia coperta, si avvolse nel caldo indumento coprendosi tutto, lasciando però gli occhi liberi di frugare attraverso gli spazi delle assi del capanno che si aprivano su frammenti di cielo. Si sentì bene e restò a lungo nell’oscurità a rimirare la luna che spandeva raggi intorno. Adesso doveva capire se era pronto ad affrontare quel sentimento che gli bruciava dentro, oppure doveva cercare di annullarlo. Ci aveva pensato a lungo mentre costruiva la sua baracca e si era reso conto che lo angosciava troppo stare lontano da Ester.
“No! Non sono capace di rinunciare a lei. Lei è il legame tra me e la natura, se non fossi così innamorato, non amerei ogni singola particella di questo bosco”, pensò prima di addormentarsi. All’alba si alzò. Si sentiva inquieto, desiderava conoscere ogni filo d’erba, ogni spigolo di roccia, emozionarsi per il trillo di un uccello, il profumo di un fiore; in cuor suo si sentiva capace di poter plasmare le cose e convertirle in qualcosa di bello, di originale. Il sole spuntava dietro quella strana vetta che in paese chiamavano: “Il Picco del Diavolo”. Un giorno l’avrebbe raggiunta, un fascino misterioso e accattivante si sprigionava da quella visione che lo teneva avvinto come un sogno. Si recò alla sorgente e si lavò il viso con l’acqua fresca, poi andò a sedersi su un masso tondeggiante. “Perché, perché?” si chiedeva “erano tutti così cattivi…” Non capivano che a lui bastava anche solo vedere Ester, sapere che a volte lei gli sorrideva, mostrandogli simpatia. E lui sognava che sarebbe stata sua, sua per sempre, non avrebbe permesso a nessun altro di averla.
Un fruscio tra i rami lo fece voltare: un lupo. Lo guardò dritto negli occhi scrutandolo. Avrebbe dovuto tremare di paura, ma sentì dentro di sé una strana serenità. Si guardarono a lungo l’un l’altro e nessuno dei due abbassava lo sguardo, né mostrava timore. Un misterioso messaggio muto intercorse tra lui e l’animale. L’animale fiutava l’odore selvatico del ragazzo e Febo vedeva nell’animale la libertà di essere rispettato. Alla fine il ragazzo sorrise e il lupo tornò indietro, svanendo nella boscaglia. Per un’istante, che gli sembrò immenso, Febo si sentì potente: aveva tenuto testa a un lupo, pur essendo disarmato.
Con le poche cose che aveva a disposizione, cominciò a lavorare un pezzo di legno chiaro, per costruire un oggetto da regalare a Ester, si mise al lavoro alla luce del sole e gli sembrò magnifico poter fare il suo mestiere all’aria aperta, seduto sulla roccia. Aveva pochi attrezzi, ma tanto tempo a disposizione e la sua idea cominciò a prendere forma: il legno leggero che stava modellando era diventato una stella, appena abbozzata. Doveva lavorarci ancora molto, e poi fare intagli per abbellirla, inoltre occorreva praticare un foro dal quale far passare dei fili colorati per poter legare il ciondolo al collo. Rimase impegnato nella sua opera per due giorni e non si accorse dell’ombra della donna, vestita di nero, che lo osservava in silenzio, compiaciuta.
Quando ebbe terminato, incidendo anche l’iniziale del nome della ragazza al centro della stella, la osservò soddisfatto. Mancavano le rifiniture: la limatura, la tinteggiatura con l’olio di lino cotto, come aveva visto fare al suo maestro e i fili per il laccio, ma l’opera era ormai definita. Era ora di tornare in falegnameria e anche a casa… chissà Maria com’era stata in pensiero in quei giorni che era mancato. Non voleva far preoccupare, oltre, quella poveretta.
In preda all’euforia si avviò sulla strada del ritorno, ma quando sentì una voce di donna canticchiare, si nascose per vedere chi fosse: si trattava di Ester. Era lì, con un cestino colmo di more e mirtilli infilato al braccio, intenta a raccogliere i frutti si accorse della sua presenza dal fruscio delle foglie che avevano scricchiolato ai suoi passi. Gli parlò in modo confidenziale, abbandonando il linguaggio formale.
–Lo so che sei lì, dietro l’albero, Febo, cosa credi? – Si sentiva protetta, sapeva che c’era lui sempre pronto a difenderla, anche se non aveva il coraggio di farsi vedere né di risponderle e si rifugiava dietro il primo nascondiglio a portata di mano, tanto era l’emozione di vederla ogni volta. La testa rossa di Febo spuntò da dietro un tronco, reclinata da un lato, ma quando lei lo guardò tornò a nascondersi.
– Ma insomma, ti faccio così paura? – disse lei, ridendo.
– E poi mi fai parlare da sola come una scema, lo so che parli poco, ma adesso, che sei diventato il mio guardiano, potresti anche dire qualcosa. – Il ragazzo taceva, irrigidito dietro l’albero, sembrava aver paura anche di respirare.
– Non importa, dai, mi fai compagnia lo stesso. Ora andiamo a casa. – Si avviò lungo il sentiero. Nel silenzio si sentiva il rumore dei passi leggeri, replicato da quelli di Febo, che ricalcava le orme di quei piccoli piedi. Arrivati al villaggio Ester svoltò verso la piazza e Febo imboccò il viottolo di casa. Sua madre lo aspettava e come lo vide gli occhi le brillarono. Era tornato a condividere con lei il desco e quelle quattro mura che definivano la loro vita a due.
L’inverno passò, tra cumuli di neve che dipingevano di bianco ogni cosa. Le fanciulle rimanevano chiuse in casa accanto al focolare, per cui per molto tempo anche la bella Ester non si vide in piazza e Febo smaniava che il freddo finisse presto, per poter rivedere la sua amata e intanto sognava di lei.
Un vento caldo annunciò l’arrivo della nuova stagione che rendeva tutto più vivo, ogni cosa parve risvegliarsi dopo un lungo sonno. La “festa di primavera” si approssimava. Era un evento molto atteso nel villaggio e in tutti i paesi che popolavano quelle montagne; le donne preparavano marmellate, dolci e manicaretti da vendere con le bancarelle e gli uomini raccoglievano legna per il grande falò, che sarebbe stato allestito al centro della piazza. Anche Febo era eccitato come tutti i ragazzi del villaggio. Aveva terminato il ciondolo a stella per la sua Ester e non vedeva l’ora di donarglielo. Approfittò di vederla alla fontana in un momento che non c’era nessuno. Si avvicinò piano e la guardò. Lei sollevò gli occhi e sorrise.
–Oh, il mio guardiano. Come stai? E non ricevendo risposta chiese: – Vuoi accompagnarmi? Ma lui era troppo emozionato per rispondere e non seppe far altro che porgerle il prezioso ciondolo.
– È bellissimo, ma è per me? – disse la ragazza, ammirando quella stella intarsiata con al centro la “E” del suo nome. Lo indossò e contenta si avviò verso casa, ma lui non la seguì. Le fece un cenno di saluto con la mano e andò via. Dopo giorni di preparativi, finalmente, arrivò quello tanto atteso. A sera, tutto il villaggio era in fermento. Le fanciulle erano rivestite dei costumi tradizionali: gonne ampie, lunghe camicie bianche ricamate e il corpetto attillato, in testa un panno bianco, ricamato, fissato sul cranio con un fermaglio. Le accompagnavano danzatori con camicie immacolate che si aprivano sul petto, calzoni a mezza gamba e una fascia stretta in vita. Tutti insieme al suono festoso del tamburello provavano i balli che avrebbero allietato la serata, ridendo e scherzando tra loro. Ester aveva aggiunto un fiore tra i capelli ed era ancora più bella del solito. Le donne, dietro i banchetti, si preparavano a vendere i cibi, e la catasta di legna, al centro della piazza, era diventata altissima. Febo aveva indossato la camicia pulita e la giacca verde scuro delle grandi occasioni. Si guardava attentamente nello specchio cercando di tenere a bada con un pettine i capelli ricciuti, che dopo un attimo si ribellavano e tornavano a cadergli sugli occhi. Sua madre lo guardò sospirando: – Non perderci troppo tempo, tanto il vento te li scompiglierà appena esci. E non metterti a seguire Ester: – È solo una smorfiosa. –
– Non mi trattate come un bambino, madre, ho già compiuto vent’anni – disse Febo risoluto E indossata la giacca, uscì di casa.
Lei era nel gruppo di fanciulle e giovani danzatori in costume che avrebbero ballato intorno al falò. Lui non ebbe coraggio di avvicinarsi, costoro, come sempre, l’avrebbero preso in giro, ma al collo di Ester pendeva un ciondolo a forma di stella e questo gli bastava per essere felice. Si fermò accanto a una bancarella di dolci e comprò dei biscotti farciti, poi cercò un angolo tranquillo da cui poter seguire la sua bella. Dopo un poco un gruppetto di fanciulle si avvicinò a lui.
– Febo, venite a ballare con noi?
– Su, oggi è festa, venite a divertirvi... Il giovane non capiva il perché di tante attenzioni, da parte di quelle stesse ragazze che lo avevano sempre deriso.
– Sappiamo che siete un artista… il ciondolo di Ester è bellissimo! Perché non lo fate anche a me? – disse una di loro.
– Anche a me, anche a me –, aggiunsero le altre. Lui scosse la testa e loro continuarono a pregarlo, indicando anche le iniziali da apporre sul ciondolo e quale forma dovesse avere: foglia, fiore, edera.
– Ora sono molto occupato, poi ne riparliamo– disse infine Febo, contento di tanto interesse. La festa intanto era al culmine. Dai paesi vicini erano arrivati molti giovani e tra essi c’era anche Attilio De Fontana. Quando gli occhi del conte Attilio incontrarono quelli della ballerina più bella, con i capelli biondo miele, non si staccarono più da quella soave visione. Avvicinatosi alla fanciulla la invitò a ballare. Ester era vanitosa, ma non aveva mai ballato con un nobile e si sentì trascinata da un vortice di sensazioni. Il conte era bello, anzi, il più carino di tutti i giovani presenti in piazza.
– Ester, siete come un’alba appena nata, che preannuncia un giorno meraviglioso. Lei raccoglieva i complimenti e intanto si gingillava col suo ciondolo.
– Bella questa stella, ma non potrà mai raggiungere il vostro splendore – disse lui osservando l’oggetto e lo prese tra le mani soppesandolo.
–Io ve ne regalerò uno tutto d’oro.
Febo osservava tutto e soffriva: ogni volta che li sentiva ridere, provava dolore, come se un coltello lo pugnalasse ripetutamente, con accanimento. Nessuno aveva mai osato tanto con Ester. Addirittura quello stava osservando il suo ciondolo come per valutarlo. Che sfrontato, come osava? Cominciò a masticare rabbia, mentre impazzavano canti e balli attorno al falò. “Questa maledetta festa deve pur finire” pensava, fidando nel fatto che dopo tutto sarebbe tornato come prima.
Da quel giorno, ogni sera un cavallo arrivava nei pressi della casa di Ester, l’animale era condotto al passo così lentamente che il suono sul selciato arrivava ovattato e nessuno in paese aveva notato quella presenza. La fanciulla scostava le tendine e vedeva il conte Attilio che le faceva un cenno di saluto, svelta usciva di casa per raggiungerlo e rimanevano insieme per ore, nascosti, mentre tutti dormivano. Si erano dati appuntamento fin dalla sera della festa e i loro incontri si ripetevano, alimentando l’attrazione che provavano l’uno per l’altra. Lui le sussurrava parole dolci, lei si faceva giurare amore eterno e insieme stabilivano persino i nomi dei figli che avrebbero avuto. Erano talmente presi l’uno dall’altra che a volte spuntava l’alba e li trovava ancora lì, dietro l’albero di noce vicino casa, stanchi e innamorati.
Una mattina la sarta vide delle occhiaie sotto gli occhi di sua figlia.
– Dimmi la verità. Tu mi nascondi qualcosa. C’ entra per caso quel ragazzo rossiccio che ti ha accompagnato a casa l’altra volta?
– Ma no, mamma, questo è un conte l’ho conosciuto alla festa … e gli raccontò tutta la storia.
– Speriamo che ti voglia davvero bene, non vorrei vederti soffrire.
– Nemmeno io– rispose la figlia, mentre negli occhi si profilava un velo di dubbio. Attilio l’amava davvero o la stava illudendo?
Quel giorno Ester tornò dalla fontana con la cannata piena d'acqua, le guance un po' arrossate e la gonnella che frusciava a ogni passo.
–Vieni che ci sta una sorpresa – disse la madre, con un sorriso strano, quando entrò in cucina.
– E cosa c'è? ¬– fece lei sbuffando, con le mani ai fianchi. Sua madre allora le mostrò un pacchetto in un involto dorato e disse: – Questo è per te!
Lei sbiancò. – E chi… chi me lo ha donato? – balbettò.
– Qualcuno che è rimasto colpito dai tuoi occhi– disse la madre sorridendo.
–Non prendetemi in giro, per favore. Tengo il cuore che mi batte a mille. Si può sapere chi è stato, sì o no?
– Mantieniti forte, figlia mia, è la persona che t'ha fatto questo regalo è proprio il conte Attilio De Fontana. Ha mandato l’imbasciata da un suo fattore che attende la risposta qui fuori e stasera saremo ospiti alla sua villa.
–No, no, sto così combinata – fece la ragazza, cercando di stirare con le mani la gonna stropicciata.
–Allora devo dire di no? – volle sapere la madre ridendo sotto i baffi.
–Ma che dite! Piuttosto aiutatemi a farmi bella per stasera.
–Non ne hai bisogno, sei un fiore.
Ester corse in camera sua e si avvicinò alla finestra. Si vedeva l'enorme distesa di vigneti e uliveti che appartenevano al conte, ma a lei non interessava tutta quella ricchezza. Di lui l'aveva colpita lo sguardo tenero che ogni volta le faceva tremare le gambe. Strinse tra le mani l'oggetto che aveva avuto in dono, il biglietto che lo accompagnava riportava l’aquila, lo stemma di famiglia, e l’involucro conteneva un anello d’oro con diamante, lo ripose accuratamente tra le sue cose più preziose. Era una richiesta di fidanzamento. Si sentiva sciogliere di dolcezza e aveva la sensazione che il sangue fluisse più veloce. Slegò la treccia e liberò i capelli per lavarli e profumarli. Un nitrito la fece rabbrividire. Lesta, raggiunse la finestra e lo vide. Lui sollevò il cappello in segno di saluto e sorrise, poi ripartì subito al galoppo. Lei sospirò dietro ai vetri. In fondo, la sera sarebbe arrivata presto.
Ester non era uscita di casa per molti giorni e Febo non sapendo il motivo di quell’ assenza si sentiva infelice, distrutto dalla sofferenza. Restava per ore sui gradini della chiesa ad aspettare che lei passasse, ma inutilmente. Perché non usciva più? Cos’era cambiato? C‘entrava forse quel bellimbusto con cui aveva ballato alla festa. E il solo pensiero che i suoi timori potessero essere veri gli faceva torcere lo stomaco in un tormento che lo sfiniva. Gironzolava anche sotto casa della fanciulla, ma lei non si affacciava e la finestra rimaneva chiusa come se in casa non ci fosse nessuno. Quando finalmente la vide attraversare la piazza e dirigersi nel bosco Febo tremò dalla gioia; tutto era ritornato come prima.
Come al solito prese a seguirla a distanza lungo un intrigato sentiero. In quel luogo la vegetazione aveva invaso ogni centimetro di terra e si sentiva in sottofondo il gorgogliare dell’acqua. Col respiro affannoso per cercare di starle dietro seguiva le tracce che la fanciulla lasciava dietro di sé. Poi all’improvviso gli apparve il fiume e una piccola cascata, il posto era bellissimo, ma lui non lo notò cercava solo lei che era sparita alla sua vista. Poi scorse un corpo che emergeva e si rituffava con movenze da sirena. Incantato seguì ogni suo movimento, il suo scomparire sott’acqua e ricomparire più lontano, i suoi tuffi, i suoi gridolini di gioia. Lei nuotò ancora per alcuni minuti, poi lo intravide che cercava di nascondersi dietro un salice, i cui rami si allungavano fino a terra. La sua presenza stavolta le diede fastidio. Uscendo dall’acqua, con la sottana bagnata che evidenziava del forme del suo corpo morbido, disse nervosa: – Guarda pure, faccia di zucca! Tra un mese mi sposo e riprenditi pure questo – disse gettando il ciondolo verso l’albero dove lui si era celato. Lui la fissò, triste. Sentì il suo cuore che scoppiava in un boato.
“No! No! Meglio la morte che non poterla più vedere e sentirla sua, anche se solo per gioco”. Da quel giorno smise di seguirla, ma il suo amore malato continuò a tormentarlo. Lei era nei suoi pensieri sempre, era l’unica immagine della sua mente che poteva lenire lo strazio che provava. Tutto quel vuoto che sentiva dentro era atroce. Maria bussava inutilmente alla porta della sua camera; lui rimaneva disteso sul letto a fissare il soffitto. Dopo i primi giorni che aveva ripetuto il nome di Ester all' infinito, se ne stava muto, senza forze, senza desideri.
– Smettila di farti del male, figlio mio, non ne vale la pena, ci sono tante ragazze nel villaggio. E cerca di mangiare qualcosa. Ti lascio il vassoio qui fuori. Ogni tanto la porta si apriva e Febo mangiava, ma solo per avere ancora la forza di pensare a lei.
– Febo, è venuto Meo. Ha detto che ti aspetta alla falegnameria ancora per due giorni, poi dovrà chiamare qualcun altro, perché il lavoro si accumula. Sua madre, che cercava di comunicare con lui, si appiattiva fuori l’uscio della camera per sentire un movimento, un colpo di tosse, una risposta alle cose che lei diceva, ma nulla accadeva. Una mattina, mentre era in cucina, con sua enorme sorpresa, la donna lo vide comparire sulla soglia: pallido, arruffato, gli occhi spiritati. – Mamma, esco. La sua voce risuonò incredibilmente lontana. Lei sorrise. – Aspetta, siediti! Fai prima colazione. È tutto pronto. Il giovane non se lo fece ripetere e la madre felice gli cinguettava intorno, coprendolo di attenzioni. – Appena hai finito, sparecchio e vado subito alla falegnameria per dare la bella notizia a Meo.
Lui non disse niente. Fece colazione guardando la madre, poi prese la giacca e uscì; mentre si allontanava sentì sua madre cantare. Per strada c’era poca gente e quasi nessuno fece caso a lui, che si dirigeva nel bosco. Inoltratosi tra il folto degli alberi raggiunse la cascata, era lì che il suo cuore era esploso in mille pezzi. Odiava quel posto, lanciò un sasso nell' acqua torbida del fiume e proseguì. Imboccò un sentiero, che saliva verso la montagna, sarebbe andato al suo rifugio. Il percorso ormai gli era ormai così noto che impiegava sempre meno tempo per arrivarci. Il cielo era grigio e corrucciato, un vento insidioso sibilava tra le foglie. Il cielo sopra di lui sembrava una tenda azzurro scuro con piccole stelle lontane, irraggiungibili, come Ester. Arrivò, stremato dal lungo cammino Si sistemò nel suo giaciglio coprendosi con la coperta e si preparò ad affrontare la notte in montagna. I suoni del bosco erano cupi e la montagna sembrava farsi beffe di lui. Decise che l’avrebbe scalata a mani nude. Aveva notato dei tornanti che di inerpicavano verso la parte brulla che terminava con quello strano picco. L’indomani sarebbe andato al “Picco del diavolo”.
Al mattino mangiò un pezzo di pane e formaggio che aveva portato da casa e poi s’incamminò. Per fortuna non faceva molto caldo, aveva con sé poche cose, tra cui un coltello col quale tagliava i rami del fitto bosco che gli impedivano di avanzare. Un’ombra scura lo affiancò. Era la donna vestita di nero che aveva visto l’altra volta: il fantasma di sua madre.
– Febo dove stai andando? Fermati! C’è una vita là sotto in quelle case. C’è gente e forse anche fanciulle che apprezzerebbero il tuo cuore nobile, la tua capacità nel lavoro, la tua arte.
– Sprecate tempo. La vita mi ha sfidato ed io sfido lei. Io non chiedevo molto… mi ha dato due madri che non mi possono aiutare e l’unica donna che amo mi considera un lombrico, un essere innocuo, inutile.
– No! Non devi crederlo, è solo un momento, poi tutto si aggiusterà.
– E voi credete che io voglia vederla passare in abito da sposa domani? Menica continuava a parlargli, voleva fermarlo, ma lei era solo una povera anima che vagava infelice, non aveva poteri. Quanto avrebbe voluto essere una strega, ma lei il demonio non lo aveva incontrato né da viva né da morta e il suo spirito errante, da sempre volto al bene si era legato al figlio e gli sarebbe rimasto accanto per proteggerlo. Febo continuava a salire. Era giovane, agile, doveva solo salire, salire e raggiungere il picco. La madre cercava di trattenerlo in tutti i modi creando di sottrargli l’appoggio di rocce e rami lungo la parete che lo aiutavano nella scalata, ma lui si infuriava e le si scagliava contro.
— Lasciatemi in pace! Andate via! E scansandola riprendeva a salire con lei che cercava di trattenerlo come poteva. Furibondo lui continuava ad avanzare, ma la sua impresa non era però tanto facile, la parete della montagna diventava sempre più aspra. Si aggrappava con tenacia con le mani e con intuito trovava una sporgenza su cui poggiare prima un piede poi l’altro, man mano che procedeva, però, tutto diventava più difficile. Dopo ore di salita, trovò un posto per riposare un poco e riprendere fiato. Le mani sanguinanti le ginocchia graffiate sì ripulì con un po’ d’acqua e un fazzoletto. Sua madre non c’era più, era come svanita e forse non c’era mai stata. Cercò di dormire accucciato su una pietra. Doveva recuperare le forze.
Si svegliò al richiamo di un aquilotto, si sentiva abbastanza in forma e riprese la scalata. Guardò davanti a sé, ma la vetta che lui voleva raggiungere era coperta da una fitta nube grigia e non riusciva a capire come poter continuare la salita. Allora capì: la nebbia grigia era lo spettro di sua madre, lo perseguitava ancora ma non lo avrebbe fermato, non ci sarebbe riuscita, lui era più forte. Ricordò che prima di riposare aveva osservato l’altura attorno a sé e ricominciò a salire procedendo da un lato che gli era parso meno ripido. Passo dopo passo si feriva sempre più per cercare appigli e sentiva la testa ottenebrata da un senso di vuoto assoluto.
— Cosa speri di trovare lassù, stolto! La voce disperata di sua madre si fece sentire.
— Forse il diavolo, magari mi aiuterà nella mia vendetta.
— No! Non dannarti, ti prego. Febo era accecato dall’odio e sordo alle emozioni e continuò imperterrito a salire. Quando arrivò in cima era senza fiato e in condizioni pietose, ma ce l’aveva fatta: era arrivato sul “Picco del Diavolo”. Da lassù si vedeva tutto il villaggio: appariva come un alveare silenzioso, e sotto le rocce si apriva un immenso baratro che pareva bucare in due la montagna.
Si sedette su un masso e rimase a scrutare l'orizzonte. Il giorno dopo, Ester sarebbe stata la sposa di un altro e lui cos’era per lei se non una cosa inutile, una ridicola faccia di zucca che adesso lei detestava. Recuperate le forze, si alzò in piedi e urlò:– Sia maledetta Ester e tutta la sua discendenza! – Furono le sue ultime parole, prima di gettarsi nel dirupo. Menica gridò, ma nessuno udì il suo grido, nessuno vide il dolore che le squarciò il petto.
–Era meglio se fossi stata una strega, avrei potuto fare qualcosa per evitare tutto questo. Oh, figlio mio, non dovevi dannarti, adesso come farò a proteggere quegli esseri innocenti che tu hai maledetto? Come potrò riscattare la tua anima e trovare pace per la mia?
Un filo di fumo grigio scese verso il basso a cercare il posto dove Febo si era schiantato.
Quando Maria vide che Febo mancava da troppo tempo, andò alla falegnameria a chiedere a Meo se per caso fosse passato da lui.
– No, qui non è venuto, ma non preoccuparti. Sappiamo come è fatto quel ragazzo lì, magari si è nascosto da qualche parte nei boschi, per non vedere la festa di domani. Vedrai che tornerà. – La donna vicina alla rassegnazione, fece ritorno a casa, con il cuore colmo di pena. Nella sua stanza, Ester stava preparando la biancheria da indossare il giorno dopo: la camicia da notte di seta le stava d' incanto e il pizzo nero risaltava sulla pelle bianca.
– Che caldo! – esclamò, e si avvicinò alla finestra per spalancarla. La luna aveva due puntini scuri, e sotto di essi si apriva una fessura che pareva un sorriso. “Domani sarà il giorno più bello della mia vita…”
L' aria dolce, quasi estiva, le arrivava ricca di profumi, quando un venticello caldo prese a premerle addosso come una carezza. Prima leggera, poi sempre più audace: il vento le faceva aderire la camicia al corpo, le spalline scivolavano giù dalle spalle, poi il flusso d’aria s’insinuava su per le gambe, le frugava tra i seni, sembrava voler perlustrare ogni centimetro della sua pelle.
– Ah, vento birbante! – si ritrovò a pensare.Allora le parve di udire una voce sommessa.
– Ester, sarai mia. Sarai mia, per sempre…
– Febo! Febo, sei tu? –
– Non puoi vedermi, ma sentirmi sì. Le carezze del vento sono mie. –
–Non dire stupidaggini. Esci dal tuo nascondiglio. Dove sei? –
Ebbe come risposta una risata strana.Si guardava intorno e non capiva… come poteva, Febo, essere lì? Corse a prendere una torcia e cercò di illuminare tutti gli angoli bui della stanza, poi, pensando che la voce le arrivasse dall’esterno, perlustrò i cespugli e gli alberi del giardino, dove lui si sarebbe potuto nascondere, ma non lo trovò.
–Vieni fuori, faccia di zucca, smettila di tormentarmi! – gridò in direzione del buio attorno a lei. Di nuovo le arrivò quella voce.
–Sarai mia, Ester, mia per sempre! – Impaurita rientrò in casa, decisa a rinchiudersi nella sua camera. La finestra, che uscendo aveva chiuso, era di nuovo aperta. Si affrettò a richiuderla, ma fu investita da un vortice di vento che la respinse con una potenza sovrumana. Cercava di opporsi, ma le mancava la forza; una massa d’aria compatta la fece indietreggiare sempre più, fino a spingerla sul letto. Sentì i brividi, per quel vento che cercava di toccare la sua pelle come volesse possederla. “Sto diventando pazza” pensò. Continuò a lottare contro quella forza spaventosa, poi perse i sensi.
La svegliò il sole del mattino. Si sentiva stanca, e pensò di aver avuto un brutto incubo. Era il giorno tanto atteso. Indossò il suo magnifico vestito da sposa e si guardò allo specchio. Era bellissima, un poco di pallore mostrava ancora i segni di quella notte agitata, ma un poco di belletto parve rimettere tutto a posto. Mentre camminava, tutta la gente del paese era ai due lati della strada e la scortò fino alla chiesa. Avanzava lenta: sognava quel momento da mesi. Nei pressi dell’altare sorrise al suo sposo innamorato. La contessa Ortensia De Fontana, madre dello sposo, aveva lo stesso sguardo altero di sempre e tutti i nobili, suoi parenti, sfoggiavano abiti eleganti e gioielli ostentando la loro ricchezza. La sposa guardava con adorazione l’uomo che aveva scelto per tutta la vita. Tutto sembrava perfetto, eppure c'era una nota stonata. Nel bel mezzo del matrimonio si diffuse la notizia che Febo era scomparso e nessuno riusciva a trovarlo, ciò non impedì di continuare i festeggiamenti in maniera adeguata. Ester sorrideva anche se in fondo a sé stessa c’era una triste consapevolezza: ripensava alla notte precedente, al vento che le aveva parlato con la voce di Febo, non sapeva spiegarsi cosa potesse essere successo a quello strano ragazzo.
Però in fondo non le dispiaceva che si fosse levato di torno, certamente era andato via dal paese e non sarebbe ritornato mai più e questo pensiero la rasserenò. Di lui non si seppe più nulla. La povera madre, Maria, cominciò a vagare nel bosco chiamandolo e da lì a pochi mesi morì di dolore.
Ester adesso viveva nella sua bella villa, servita e riverita. Dopo qualche mese diventò strana, non fu più né allegra né triste, era come se vivesse in un'altra dimensione. Per niente si agitava, sgridava la servitù, faceva capricci inutili come una bambina. Era incinta.
– Non preoccuparti, quando nascerà il bambino, finiranno tutte le sue moine¬– diceva la contessa al figlio. Lui l’accontentava in ogni richiesta; quando gli disse che desiderava un ritratto chiamò uno dei pittori più conosciuti nella zona che venne a ritrarla e rimase incantato nel vederla . Il suo nuovo stato le affinava i lineamenti e accendeva lo sguardo di una luce speciale. Era bella come non era mai stata, la pelle rosea, il volto incantevole, solo un esperto avrebbe visto in sottofondo una certa malinconia. C’era qualcosa in lei che le impediva di essere felice. Spesso, la notte, Ester riviveva in sogno quella strana notte prima delle nozze e si svegliava gridando, madida di sudore. Quando il marito però le chiedeva di cosa avesse paura, lei non aveva il coraggio di rispondere del vento o di Febo: l’avrebbe creduta pazza.
A nulla valse l'affetto di Attilio, né le cure del medico che fu chiamato per risolvere la questione, quest’ultimo in realtà la sola cosa che faceva era quella di dare alla donna dei calmanti che l’acquietavano, sfiancandola. Quando Ester ebbe le doglie gridava come una forsennata, il bambino si era messo di traverso e pareva si divertisse a farla soffrire. Si sentiva uno straccio, per ore udì le voci intorno che la incitavano e dopo innumerevoli sforzi si abbandonò cerea senza più forze. Poi ricominciò a lottare dolorosamente, doveva sforzarsi, quel bambino doveva nascere.
Edited by Esterella - 28/11/2020, 14:40 |
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