Scrittori per sempre

Posts written by Esterella

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    Affascinante la storia che sei riuscita ad inventare. il linguaggio deciso a volte quasi a scatti. Crepa. Crepe. ecc. ne esalta il ritmo e fa gustare con maggior intensità ogni parola detta. Il disagio della donna che si rifugia nei sogni dove si è rifugiata incapace di accettata una scomoda realtà è palpabile, quello che incuriosisce il lettore è cosa è successo a quella donna perchè lei si rinchiudesse in se stessa? E l'uomo che la guida nei sogni chi è , il suo alter ego, o una figura che lei realmente conosce. Innegabili le tue capacità di autrice che tiene incollato il lettore, la parte conclusiva un po' adeguata, ma non sminuisce la bellezza del testo. Ottimo. :emoticons-saluti-6.gif?w=593:
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    Titolo perfetto per il racconto che ci ci mostri perfettamente inserito tra incipit ed excipt. Bella l'idea delle lettera che insinua quel tarlo della gelosia quel tanto che basta per dubitare e nello stesso tempo trattiene dal commettere gesti eclatanti. La riflessione sulla felicità indotta dai classici finisce per essere stile di vita e consolidare il rapporto familiare. Il tuo modo di narrare è diretto e ben costruito e lascia il lettore piacevolmente soddisfatto. Piccoli refusi da sistemare, poca cosa. Ottimo il tuo racconto. È stato un piacere leggerti.
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    Giancarlo il tuo racconto è piacevolissimo. Lo struscio in quegli anni era per gli adolescenti l'apertura verso quell'universo così lontano e affascinante che era l'altro sesso. Ricordo lunghi mesi di sguardi e di occhiate furtive per vedere se guardava ancora... gli stivali ricamati a punta e il montone rovesciato , insomma non manca nulla. Hai del talento nel narrare con un umorismo che ti è proprio e che cattura il tuo narrare appassionato fatto di lunghissime frasi. l'ironia è palpabile e si fa strada nelle illusioni disincantate dell'adolescenza e in quelle delusioni che lasciano quel senso di amarezza che poi per fortuna svanisce presto, ma si ricorda per sempre. Sei riuscito ad abbinare in maniera eccellente incipit ed excipit, il primo tra quelli che ho letto finora. Bravo. :mazzate.gif: :noviolence.gif:
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    Ciao Pet, la maledizione di Febo comincia a colpire. ti anticipo che alfonsina incontrerà lo str... Attilio, per adesso la seguiremo mentre cresce.
    Ti ringrazio per aver trovato il tempo di leggermi anche adesso che è cominciato bicit e abbiamo ben 32 racconti da leggere e commentare.
    Meriti un abbraccio doppio e un bacio. :] :pazzo.gif:
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    Sembrerebbe un racconto facile, ma non lo è. Ogni persona ha un suo mondo difficile da raggiungere e per alcune persone riuscire a stabilire dei contatti che rifiutano è uno scoglio insormontabile.
    le due figure femminili viaggiano su due binari paralleli. La volontaria Livia decisa a tutti i costi a dare aiuto a Mirna e crede di poterci riuscire con la dolcezza del suo mondo bambino, con la tenerezza di un uovo colorato
    la donna che isolata tra i suoi fantasmi si ribella in malo modo. Eccede ognuna in un senso e nell'altro e sei stata brava a tratteggiare le due donne attraverso i dialoghi, il racconto scorre fluido e scritto correttamente.
    Ottimo lavoro pet. :super-onion-smiley-111.gif:

    Edited by Esterella - 29/11/2020, 19:07
  6. .
    Con toni macabri passiamo dal profilo di un un impacciato quarantenne, quasi un buontempone, in cerca di moglie a quello di un pericoloso maniaco disturbato mentalmente.
    Il racconto è tracciato in maniera scorrevole e ha in sottofondo una sottile vena ironica.
    Il colpo di scena è efficace e inatteso e lascia gustare il seguito anche se il finale risulta essere prevedibile. Ottimo racconto.
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    Una storia divertente, fresca, contro le regole, raccontata con grazie e spirito. Hai saputo interpretare l'incipit ed excipit in maniera insolita. Il giochino delle presentazioni in tre minuti non mi ha mai attirata, come sottolinei in genere si incontrano tipi strambi e buffi, ma credo che sia legato tanto al genere maschile che femminile, il fatto poi che là in mezzo si riesca a trovare una persona con cui avere una comunione d'anime al di là del sesso dà senso a tutto. Ci sono alcuni refusi nel testo, cosa da poco. Mi ha fatto piacere leggerti di nuovo. Ciao Stefia. :noviolence.gif:
  8. .
    La trama del tuo racconto rispetta in pieno il titolo. Granelli di felicità sono quei momenti pieni che riempiono attimi di quotidianità.
    il vecchio Gustave li rincorre quei granelli nei ricordi del passato, li attende nella lettura delle storie, nelle passeggiate e li vive intensamente.
    Bello il rapporto tra nonno e nipote che ci descrivi in un linguaggio semplice, ma efficace. Ci sono affetti solidi e sentimenti tenaci nei tuoi granelli di felicità.
    un unico dubbio sulla figura dell'amica della moglie che resta un po' come a se stante, staccata dal contesto empatico tra nonno e nipote. Un ottimo racconto. :noviolence.gif:
  9. .

    Attilio


    Il conte Attilio aveva sentito il vagito che annunciava la nascita del suo primogenito.
    - È nato!
    Esultando alzò il bicchiere brindando con suo padre e attese di poter entrare nella camera della moglie per abbracciarla. I minuti passavano e nessuno usciva dalla stanza, che rimaneva avvolta in uno strano silenzio, si sentiva solo il pianto del neonato, ma non era affiancato dalla voce gioiosa di sua moglie e delle donne di casa. Gli occhi fissi alla porta, il giovane padre aspettava con ansia che qualcuno gli desse notizie.

    Poi finalmente sua madre apparve sulla soglia con un’espressione più accigliata del solito e, uscita dalla camera, richiuse l’uscio frettolosamente, impedendogli di entrare.

    – Cosa è successo, madre, che avete?

    – Ti è nata una femmina, figliolo, ma ci sono stati dei problemi – disse la contessa, poi tacque.

    – Parlate, per carità! – gridò Attilio.

    – Ester – disse lei in un fiato.

    Il conte spalancò la porta e lanciò un urlo da far accapponare la pelle.

    – No, non è possibile – ripeteva col viso stravolto.
    Sua moglie, la sua adorata Ester, giaceva nel letto con gli occhi chiusi, pallida ed esangue, ormai senza vita. I familiari attorno al conte cercavano di confortarlo, ma l’uomo appariva svuotato di ogni emozione, sembrava un pupazzo senza anima e con lo sguardo fisso nel nulla: non ansimava, non piangeva, non parlava. Lo fecero sedere su una poltrona accanto al camino, dove rimase immobile e muto. Ogni domanda e ogni frase che gli veniva rivolta cadeva nel vuoto, come se lui si trovasse altrove e infatti si era trasferito in una dimensione a lui finora sconosciuta, quella del dolore.
    Sua madre, Ortensia, per cercare di scuoterlo dal quello stato di torpore, si avvicinò con la bambina tra le braccia e gliela mostrò. La piccola aveva la carnagione lattea e il visetto tondo, le mani scarne, la pelle lievemente rosea che profumava di vita. Era sua figlia, doveva pur reagire in qualche modo.
    Come vide quel fagottino, vestito con panni pregiati e avvolto in una copertina di seta rosa, infatti, l’uomo parve risvegliarsi, ma il suo atteggiamento non fu quello che tutti si aspettavano.

    — Portatela via! Non voglio vederla! – intimò risoluto, con gli occhi accesi da livore nei confronti di quella bambina, che non aveva commesso alcuna colpa se non quella di nascere.

    La contessa con la bambina in braccio, seguita dalla nutrice, dalla governante e dalle domestiche, si allontanò, lasciando Attilio solo con suo padre. Il vecchio conte guardava il figlio con comprensione e cercava le parole giuste per confortarlo.

    – Non puoi lasciarti abbattere dal dolore figlio mio. Sei un uomo e devi affrontare le avversità con determinazione. Questo è il tuo primo scoglio, ma certamente ne dovrai affrontare altri e dovrai essere preparato. Vivere è una continua lotta, ma i momenti felici prima o poi si ripresenteranno – disse il vecchio conte, con voce pacata.

    – Andate via, anche voi! Via! Non voglio nessuno accanto a me. Quello che dite sono solo parole e se le porta il vento, ma il mio dolore è sempre qui, che mi annienta – insistette Attilio, prendendosi la testa tra le mani.
    Riviveva i giorni belli passati con la sua Ester: il ballo intorno al falò alla festa di primavera, le sere sotto l’albero a parlare d’amore, a inventare i nomi dei loro futuri bambini, alla felicità del giorno delle nozze, alla sua bellezza così straordinaria, immortalata in un ritratto.
    Perché gli era stata tolta?
    Aveva rifiutato donne nobili e ricche per quella ragazza semplice e adesso era tutto buio per lui, ed era tutta colpa di quella figlia così desiderata che l’aveva uccisa, facendosi spazio per poter nascere. La odiava in modo innaturale e assurdo e non faceva altro che pensare: perché non è morta la bambina al posto di Ester?

    Si tormentava continuamente senza riuscire a trovare un po’ di pace e la situazione sembrò peggiorare sempre più. Attilio sembrava essere diventato folle.
    Una mattina si vestì con gli abiti della caccia e montato sul suo cavallo col fucile e l’attrezzatura necessaria se ne andò al galoppo nei boschi della sua tenuta. L’aria era dolce e il tempo sereno, gli uccelli della riserva, spaventati dal galoppo, andarono a nascondersi tra foglie. Il conte arrivato nella fitta boscaglia si fermò. Scese da cavallo e imbracciato il fucile lo puntò verso il cielo, non era un animale che voleva cacciare, ma la bestia era che era dentro lui, che lo rodeva caricandolo di un odio senza ragione.

    – E allora chi è stato a togliermi Ester? Cielo sei stato tu? – e sparò uno, due, tre colpi verso quegli spicchi d’azzurro che s’intravedevano tra gli alberi.

    – Sei stato tu fato? – E sparò altri colpi a caso, perché pensò che il fato si nascondeva ovunque.

    – Oppure tu, piccola neonata dai capelli rossi. Io voglio che tu muoia! Dove sei figlia ingrata? – e ancora sparò colpi ovunque, fino a scaricare tutto il caricatore del suo fucile.
    Dalla villa si erano sentiti sparare numerosi colpi e i suoi genitori pensarono che forse la caccia lo stava distraendo dalla tragedia e magari pian piano tutto si sarebbe sistemato. Quando Attilio tornò a casa, verso sera, aveva il paniere vuoto e il fucile scarico. I familiari lo guardarono interrogativi.

    “Ha sparato tutti i colpi a vuoto” pensò suo padre, e, inquieto, per cercare di capire cosa fosse accaduto domandò: – Che tipo di caccia hai fatto, figliolo?

    – Caccia grossa. Mi sono proprio divertito oggi. Ho sparato contro il cielo, contro il fato e contro chiunque ha avuto il triste compito di provocare questo dispiacere che mi ha messo in ginocchio. Ora mi sento meglio – disse Attilio, sorridendo in modo del tutto naturale.
    Il giorno dopo andò di nuovo a caccia, stavolta il suo obiettivo era la caccia di animali. Lui era nella posizione privilegiata del cacciatore, con il fucile che gli dava forza, e gli animali erano la preda: dovevano difendersi, scappare se ci riuscivano, ma non tutti avrebbero potuto farlo. Quelli più indifesi o meno lesti, avevano le ore contate ed era lui a decidere quando sarebbe arrivato il momento della loro morte. Il fucile brillava tra i rami, ma una pernice non ebbe scampo e il colpo fermò il suo volo, e il suo cuore. Cadde poco lontano e il cane del conte andò a recuperarla. Un fruscio inatteso tra i cespugli lo mise di nuovo in allarme, qualcosa cercava di sgattaiolare via per istinto di conservazione.
    Aspettò con calma che l’animale nascosto uscisse dalla parte opposta e lo colpì al volo: era una lepre. Lui sorrise.

    – Sono stato più svelto di te – mormorò.

    L’animale sanguinava da un fianco, il sangue rosso fuorusciva, la vita era andata via ed era stata opera sua.
    “Cosa si prova a fare questo? Niente, assolutamente niente. Sono solo un uomo pieno di cattiveria che provava gusto a uccidere: sono un assassino” pensò tra sé. Passò il dito sulla ferita della lepre e con il sangue che gocciolava fece dei segni sul suo viso. Quello non era uno sport per lui, non sarebbe più andato a caccia.
    Suo padre lo vide tornare con una pernice e una lepre che sanguinava, sul viso di Attilio c’erano i segni rossi che si era fatto col sangue dell’animale. Mostrò le sue prede al genitore, ridendo a crepapelle, mentre il povero vecchio lo guardava allibito.

    Ormai era chiaro che era fuori di senno e che aveva bisogno di cure, ma sua madre non volle saperne. – Il tempo è la medicina che ci vuole, null’altro. Mio figlio non è malato, è solo triste, soffre – disse al marito, che voleva affidarlo a un medico di sua conoscenza.
    Non andando più a caccia, Attilio passava molto tempo nel suo studio, dove controllava le rendite prodotte dai suoi possedimenti. Gli affari di famiglia andavano a gonfie vele e in altre condizioni sarebbe stato motivo di tranquillità e orgoglio, ma a lui quel benessere dava quasi fastidio e decise che se c’erano soldi dovevano pur essere spesi.
    Cominciò così a frequentare feste e spettacoli per divertirsi. La sera, spesso, andava a bere in qualche locanda, dove giocava tentando la sorte e lasciava laute mance ai servitori. Non gli importava di perdere, il denaro era solo un mezzo di scambio e lo usava per emozionarsi e divertirsi. Amava concludere le sue serate con donne di malaffare, ogni sera una diversa, per lui erano solo corpi senza volto.
    Una volta gli capitò una ragazza madre che lo portò a consumare il loro incontro a casa sua. Era una bella donna, mora, con gli occhi vellutati e il conte sentiva i sensi già accesi dall’alcool, stimolati dai baci ardenti che la donna gli concedeva. A un certo punto il figlio della donna, che doveva essersi svegliato all’improvviso, si mise a piangere, con insistenza, nella stanza accanto a quella in cui i due si trovavano. Attilio che non si era neanche tolte le scarpe, gridò: –Portatela via–Si rese conto di essere ancora ossessionato ancora dal pianto di sua figlia, e quegli strilli infantili andarono a risvegliare quel ricordo doloroso che stava cercando in tutti i modi di soffocare.
    La povera donna, mortificata, zittì il piccolo e chiese, umilmente, perdono al conte che la guardava furioso, non sapendo che altro fare. Lui allora con rabbia le intimò: – Spogliati, stupida!
    La donna si denudò e si stese sul letto.
    – Chiudi gli occhi! – continuò il conte.

    Lei distesa sul letto tremava, temendo chissà quale castigo da parte dell’uomo, ma nulla accadeva. Si sentì sfiorare come da una stoffa vellutata o era forse qualche insetto che lui aveva messo lì per spaventarla?
    Non aveva il coraggio di riaprire gli occhi, ma dopo che furono passati molti minuti si mise a sedere sul letto e guardò. Il conte non c’era più, era andato via lasciando la porta di casa socchiusa. Accanto a sé una borsa di velluto. La aprì, curiosa, era piena di monete d’oro.
    Non sapeva se ridere o piangere di gioia, con quel denaro non sarebbe stata costretta a vendersi per molto tempo, forse mai più e poteva dedicarsi a suo figlio.

    – Grazie, conte! – sussurrò, baciando la borsa preziosa che aveva tra le mani.

    Attilio non andò più, la sera, in cerca di facile ed effimero divertimento: l’alcool gli appesantiva la testa e le donne gli alleggerivano la borsa, ma né l’uno né le altre gli davano soddisfazione. Cominciò a dedicarsi alle proprietà e agli affari di famiglia. Le terre dei conti De Fontana erano da tempo gestite da sottoposti che le coltivavano e ne decretavano il ricavo, senza che il padrone controllasse che quanto veniva riferito corrispondesse al valore effettivo.
    Suo padre era ormai anziano ed era giusto che fosse lui a interessarsene. Un giorno mentre era a cavallo e si dirigeva verso le sue terre, vide una donna affacciata alla finestra di villa Sartori ai confini con la sua proprietà.
    Le terre e i possedimenti dei Sartori si estendevano ben oltre le sue Il duca Emidio l’uomo più ricco della zona.
    Un viso ovale, occhi verdi dalle lunghe ciglia e capelli neri acconciati alla moda, una visione d’incanto, quasi come se fosse stata tratteggiata dalle mani esperte di un pittore, la figura femminile si stagliava nel vano della finestra. Attilio sollevò il cappello salutando e continuò a cavalcare verso i suoi poderi.
    Chi era la misteriosa donna che aveva visto? La villa era disabitata da mesi, da quando il duca Emidio, che non aveva figli era deceduto. Era forse stata venduta? Fu preso allora da un incontrollabile desiderio di sapere ogni cosa possibile riguardante la bella sconosciuta.
    Si informò presso un suo fattore.

    — Si tratta di una nipote del duca, arrivata dalla Toscana. Come unica parente prossima ha ricevuto in eredità tutti i beni del defunto.
    Al ritorno verso casa, quando arrivò nei pressi della villa Sartori, guardò verso la finestra, ma la donna non c’era più. Progettò di tornare il giorno dopo e si sentiva come un giovanetto che non conosce ancora l’amore e ne inspiegabilmente soggiogato. Era mai possibile? Aveva da poco perduto la donna amata…
    Sullo scrittoio di noce, posto all’ingresso, davanti alla porta del salone, con sua grande sorpresa, trovò un invito da parte dei duchi Sartori, che lesse e rilesse rigirandolo tra le mani.
    La S. V. è invitata alla festa di incontro con i nobili del luogo. La scrivente, duchessa Emma, in qualità di nuovo membro facente parte della illustre società che vive in questa splendida cittadina ha l’onore di rivolgervi personalmente l’invito.
    Duchessa Emma Sartori.


    – Dicono che sia una donna giovane e molto bella, nipote del duca buonanima e che vuole inserirsi a pieno titolo tra di noi. Tu che pensi di fare? — domandò suo padre.
    Attilio fece finta di nulla.
    - Non saprei, padre, vedremo – disse con noncuranza.
    Quando rimase da solo, però, si sentì invaso da una voglia matta di partecipare a quella festa e non per la festa in sé, ma perché avrebbe rivisto il viso ovale e i capelli neri di quella donna di nome Emma, che pareva uscita da un quadro. Chissà se era sposata? Ma che pensieri strani stava facendo?

    Alla festa il conte Attilio De Fontana fu annunciato da un araldo e un domestico in livrea, con un inchino, lo introdusse nell’ampio salone. La padrona di casa era bellissima in un abito di seta di colore verde scuro, arricchito con ricami dorati, il busto stretto di modo che il seno prosperoso fosse messo in evidenza catturava molti sguardi impertinenti.
    Al collo sfoggiava un collier d’oro e diamanti con orecchini coordinati, questo mostrare la sua ricchezza in maniera così sfacciata piacque al conte: era una provocazione. Lei era talmente bella che non le servivano certo quegli accessori per essere notata. Gli piacque anche la risata argentina, con la quale la duchessa apprezzava le battute sagaci degli invitati, che cercavano di compiacerle, portando con delicatezza la mano sottile a coprire la bocca.
    Il conte le si avvicinò e le fece il baciamano, guardandola intensamente in quegli occhi verdi che parevano piccole oasi luminose, lei ricambiò lo sguardo intenso e annuì con un lieve sorriso. Lo aveva riconosciuto o faceva così con tutti?
    Un servitore si avvicinò con un vassoio e gli porse un bicchiere di cristallo contenente un vino bianco raffinato, prodotto dalle vigne dei Sartori, che aveva un soave profumo e un gusto sopraffino. Suo padre aveva sempre invidiato quel piccolo tesoro del duca, che in pubblico per convenienza lodava eccessivamente.
    Mentre assaporava quel nettare, si accorse che la duchessa Emma dispensava a tutti i suoi ospiti quegli sguardi intensi e quei sorrisi di cui credeva di essere l’unico destinatario.
    “Bene, dunque, cara Emma se le cose stanno così, dovrò trovare il modo di stupirvi per entrare nelle vostre grazie” pensò, assaporando il suo secondo bicchiere.

    Al ballo la duchessa era molto contesa, mentre volteggiava tra le braccia dei damerini presenti, la crema della società del suo paese, Attilio era preso da una punta di gelosia senza senso nei confronti di quegli uomini. Furono pochi i momenti in cui poté stringerla tra le braccia e si sentì in quegli attimi come sollevato da terra, prescelto tra tanti a mettere le mani su un tesoro così prezioso.
    Durante un ballo con fare disinvolto le chiese: – E una splendida donna come voi, amministrerà da sola tutte le terre dei Sartori?

    – Perché credete che non ne sia capace? Rispose lei impertinente.
    A questo punto doveva giocare a carte scoperte.

    – No, intendevo se c’è un signor marito che l’aiuterà in questa attività.

    – No, non c’è nessun marito, per adesso almeno – e rise e quella risata lo irritò, come una presa in giro.
    Cosa voleva dire, che non aveva bisogno di un uomo o era venuta per cercarne uno? Certo a quella festa ce ne erano già troppi che avrebbero aspirato alla sua mano e alle sue ricchezze e lei ne era consapevole, ma si era rivestita di un’aria di innocente ingenuità, come una bambina che gioca graziosamente, ignara del suo candore.
    I suoi ammiratori la squadravano da capo e piedi e le giravano intorno, pendendo dalle sue labbra, facendo complimenti, era tutta una farsa tra un frusciare di gonne e sventolare di ventagli, dove ognuno recitava la sua parte, considerò il conte al terzo bicchiere.
    “Attento Attilio, devi fregarli sul tempo. Ma cosa sto pensando, io ho perso da poco Ester, che ho amato con tutto me stesso, come posso fare pensieri simili?”
    Prese il cappello e salutando frettolosamente se ne andò a casa. Sviscerando le sue sensazioni, rifletté sul fatto che era vedovo, poteva quindi considerarsi alla stregua di un giovane, celibe, e quindi libero di potersi legare a qualcuno alla sua altezza. Eppure non era tutto così semplice. Se solo non ci fosse stata quella bambina, non poteva certo corteggiare Emma con lei al seguito.
    E così giorno dopo giorno cercava di convincersi che lui era libero e non aveva figli. Chiuso nel suo studio a far di conto, si estraniava da ogni cosa, si considerava un uomo, ligio al dovere, che rimasto senza moglie si impegnava a fondo nel lavoro e non cercava altre distrazioni.

    La piccola Alfonsina intanto era stata affidata alla balia Anselma, che l’allattava e si prendeva cura di lei. Era una bimba quieta, e quasi non ci si accorgeva della sua presenza, ma come tutti i bambini piangeva per attirare l’attenzione quando aveva fame o quando voleva essere cambiata e quella volta la balia non riuscì zittirla in tempo, come faceva di solito per non infastidire il conte nello studio. Lui immerso nelle sue faccende, nonostante la porta della stanza fosse chiusa, udì il pianto della figlia e cominciò a urlare irato: ¬– Fatela smettere, non voglio sentirla. Mi disturba, dite che la portino via!

    – Figlio mio, è ora che tu lo accetti. Questa è la sua casa, è tua figlia –– osservò il vecchio conte.

    – Non ricordatemelo padre. È colpa sua se Ester è morta.
    Con la disperazione negli occhi guardò suo padre e continuò: – Se io non posso avere più mia moglie, non voglio neanche questa figlia. Per me non esiste più. Poi abbassò lo sguardo e continuò a consultare le sue carte.

    A questo punto anche sua madre, Ortensia, cominciò a preoccuparsi: temeva che suo figlio potesse fare del male alla piccola e faceva di tutto per tenerla lontano dalle stanze che lui frequentava. La bambina benché nutrita a sufficienza era pallida, perché non vedeva mai la luce del sole e rimaneva rinchiusa per tutto il tempo nella sua stanza con le domestiche che si occupavano di lei.
    In realtà la contessa non aveva avuto mai il coraggio di confessarlo nemmeno a se stessa, ma quella bambina coi capelli rossi gli era sembrata un annuncio di sciagura, fin dal primo istante in cui l’aveva vista, e, dopo quanto era accaduto, non neanche riuscita ad affezionarsi a lei anche se era sua nipote, però non voleva che le accadesse nulla di male. Lei era una donna religiosa e cristiana che ogni domenica andava in chiesa e pregava. Cosa poteva fare?

    –C’è solo una soluzione – disse suo marito, al quale aveva confidato i suoi dubbi: – Affidare la piccola a un istituto religioso, uno di quelli che possano accogliere orfani o trovatelli, se noi allontaniamo la bambina, Attilio non vedendola più, forse, riuscirà a trovare un po’ di pace.
    La contessa concordò col marito, pensando che fosse il modo migliore di risolvere la questione. S’informò su quali fossero gli istituti che effettuavano questo tipo di attività caritatevole, chi li dirigeva, considerò se fossero fidati, poiché nonostante tutto voleva essere certa che la bambina sarebbe stata accolta bene e trattata con cura. Si occupò di come gestire la faccenda e, solo quando fu sicura di poterla affidare in buone mani, si decise.
    Nel giro di pochi giorni la piccola Alfonsina lasciò per sempre la casa in cui era nata.

    Attilio, che era completamente perso nella sua storia e nel suo innamoramento, pareva aver trovato un poco di calma e di equilibrio e addirittura sotto la sua direzione gli affari progredivano con grande soddisfazione dei familiari.
    Il fatto di stare più tranquillo però lo mise di fronte ad un senso di responsabilità. In casa non si parlava più della bambina, perché? Le era forse accaduto qualcosa? Essendo un uomo d’onore si sentiva responsabile di ogni cosa poco piacevole potesse esserle capitato a sua insaputa.
    Un giorno parlando con sua madre chiese.

    – Non sento più pianti di bambina in questa casa, come mai?

    – Avevi detto che per te non esisteva più né moglie, né figlia– gli ricordò il padre.

    – Mi dispiace, ma se le è accaduto qualcosa, credo di avere il diritto di saperlo.

    – Non preoccuparti la bambina sarà curata e accudita, ma lontano da qui. Tua madre ti dirà dov’è, se vuole. Intanto alla gente del paese diremo che la bambina si è ammalata ed è morta.

    – Morta?

    – Vivrà lontano da qui, non le mancherà nulla e tu ti rifarai una vita.

    Ricominciare di nuovo a vivere, ad amare, era ancora carico di energia e di amore da poter dare. Tutte le mattine passava, con il suo cavallo, sotto la finestra di Emma che era lì a sorridergli e adesso si sentiva pronto a poterla desiderare, non aveva più nulla che potesse impedirglielo.
    Quel giorno non si aspettava che la duchessa non fosse alla finestra, continuò mogio il suo percorso che lo portavano alle sue terre, quando dopo pochi metri fu raggiunto da un cavallo bianco che si affiancò al suo.

    –Buongiorno, conte Attilio!
    L’uomo sbiancò, vestita da amazzone, accanto a lui cavalcava Emma. Restò senza parole e fece un cenno rispettoso di saluto.

    – Mi piacerebbe che mi mostraste dove finiscono le mie terre – chiese affabilmente.

    –Sono a sua disposizione, duchessa! – si offrì Attilio e le fece visitare tutti i poderi dei Sartori, e anche i suoi spiegandole cosa vi si coltivasse e come i prodotti fossero di ottima qualità, alla stregua dei vini ottenuti nei loro vigneti.
    Emma si mostrò molto attenta e di ottima compagnia, fu al ritorno verso casa che la duchessa con aria triste gli disse di aver saputo, andando a messa, della disgrazia che l’aveva colpito, privandolo della moglie e della figlia e gli espresse il suo cordoglio.
    Attilio arrossì lievemente, e ringraziò.

    Era considerato da tutti un uomo libero: vedovo, senza figli e poteva quindi disporre del suo futuro. Innamorato della bella duchessa, intendeva chiederne la mano. Ma era giusto tutto questo? I suoi gli stavano costruendo una felicità prestabilita, fondata sulla menzogna.

    – Madre, fate in modo che la piccola abbia un avvenire assicurato e che non soffra per la mancanza dei suoi genitori.


    – La fede e il buon cuore, che contraddistingue l’istituto che ho scelto per il suo affidamento, mi fa ritenere a cuor leggero che tutto andrà secondo la nostra volontà.

    – E quella di Dio.

    – Certo, naturalmente.

    Dopo qualche giorno Attilio cominciò a corteggiare apertamente la bella Emma, che non disdegnava affatto il suo interessamento. Era un bell’uomo, maturo, con un gran cuore e gli sembrava molto più interessante di tutti quei giovanotti insipidi che non sapevano portare a termine un ragionamento serio.
    Dopo pochi mesi Attilio ed Emma si sposarono, unendo le loro vite e le loro proprietà confinanti. E lui non domandò più alcuna notizia della bambina. Da quel momento fu come se Ester e la sua vita precedente non fosse mai esistita.
  10. .
    Una curiosità: quanto tempo abbiamo per leggere e commentare?
    Buon Flash a tutti.
  11. .
    CITAZIONE (Vittorio Veneto @ 28/11/2020, 17:13) 
    Ciao Esterella, non ho resistito -come vedi- a leggere subito la 3a puntata del tuo romanzo.

    Felice il racconto di questa fanciullezza e adolescenza che cerca la propria strada nel mondo.

    Coerente anche il pensiero di avere tanto tempo di fronte per rimediare, quando poi la morte improvvisa del padre
    ti mette di fronte al non più recuperabile. Bella la scena dell'addio fra padre e figlio: il "gioco" delle mani è potente.

    Segnalazioni: nessuna in particolare. Sono proprio curioso di vedere come si sviluppa questo amore asimmetrico tra Febo ed Ester
    (che curiosa coincidenza con il tuo nome :) ). Già mi prefiguro sviluppi dolorosi. Interessante il ruolo simmetrico -questa volta-
    delle due madri che guardano a questo amore asimmetrico in modo problematico.

    Un saluto
    Claudio

    Contenta del tuo interesse. Spero di non deluderti . Buona domenica. :noviolence.gif:
  12. .
    Già, guai in arrivo. Dirti grazie mi sembra poco, avere qualcuno come te e Claudio che leggono i miei capitoli è un dono , il più bello che potessi ricevere. Ti abbraccio mia cara, con tutto il cuore. :pazzo.gif:
  13. .
    Carissimo Claudio più che scusarti devo ringraziarti per l' attenzione con cui hai letto la storia e per le imprecisioni che andrò a correggere. Non immagini nemmeno lontanamente quanto sia felice per il tuo intervento e per quello di Petunia. Un caro abbraccio e spero che la storia continui a suscitare interesse. :noviolence.gif: :emoticons-saluti-6.gif?w=593:
  14. .
    La maledizione

    Prima di salire in montagna per immergersi nella natura, e ascoltare il suo cuore, Febo passò dalla falegnameria di Meo.

    — Maestro, vi chiedo di poter rimanere qualche giorno a casa. Mia madre non sta tanto bene.

    Il falegname accolse benignamente la richiesta del giovane, aveva a cuore la povera vedova.

    —Salutami Maria — aggiunse.
    Il giovane continuò a guardarlo un po’ impacciato e chiese: — Veramente avrei da chiedere anche un altro favore. Potreste prestarmi alcuni degli attrezzi che uso giornalmente al mio banco di lavoro? Ho intenzione di costruire uno stipetto nuovo per la cucina, lei ne sarebbe molto contenta.
    L’uomo lo guardò sospirando. Era un ragazzo particolare, ma non gli aveva mai causato problemi e acconsentì anche alla seconda richiesta.
    Febo prese dal suo banco seghetto, martello, chiodi, sgorbia e altri arnesi che potevano essergli utili e si allontanò con la bisaccia. Aveva detto una bugia, ma era deciso a realizzare un progetto che aveva in mente già da un paio di giorni.

    Stavolta imboccò un sentiero diverso, che costeggiava la riva del fiume. Le fronde brillavano specchiandosi nell’acqua e s’inoltrò tra gli alberi che svettavano fitti verso l’alto. Attraverso quel groviglio di rami, la luce del sole irrompeva con squarci luminosi creando dei varchi improvvisi. Nel silenzio udiva solo le folaghe in lontananza e il calpestio dei suoi passi sulle foglie.
    Proseguì tra castagneti, dove trovò qualche riccio, sfuggito alla raccolta, procedette a lungo tra olmi e frassini e continuò fino a raggiungere una radura. Là decise di costruire il suo rifugio.
    Si mise al lavoro, segando tronchi e rami e prima di sera aveva realizzato la sua prima opera: un capanno. Intrecciando poi lunghi steli di giunco tra loro, costruì una porticina e la incastrò in una delle pareti laterali della piccola baracca.
    Nascosto da siepi e arbusti il suo capanno era un luogo unico e confortevole, aveva portato con sé anche qualche utensile che poteva tornargli utile: un pentolino, un bicchiere, un coltello e il necessario per accendere il fuoco. Poco distante c’era una sorgente, alla quale poteva attingere l’acqua che gli necessitava.
    Avrebbe cercato in quel luogo solitario la quiete che non riusciva a trovare. Era così bello poter restare disteso sul prato, a contatto con l’erba, mentre il sole riscaldava il viso e un venticello accarezzava il suolo facendo vibrare i fili d’erba accanto.
    Costruì un giaciglio fatto di foglie e rami frondosi che sistemò nel capanno. Era solo, in compagnia delle voci del bosco: gufi, ghiandaie, cinciallegre gli ricordavano che tutto intorno era vita. Per ripararsi dal freddo della notte aveva portato con sé una vecchia coperta, si avvolse nel caldo indumento coprendosi tutto, lasciando però gli occhi liberi di frugare attraverso gli spazi delle assi del capanno che si aprivano su frammenti di cielo. Si sentì bene e restò a lungo nell’oscurità a rimirare la luna che spandeva raggi intorno.
    Adesso doveva capire se era pronto ad affrontare quel sentimento che gli bruciava dentro, oppure doveva cercare di annullarlo. Ci aveva pensato a lungo mentre costruiva la sua baracca e si era reso conto che lo angosciava troppo stare lontano da Ester.

    “No! Non sono capace di rinunciare a lei. Lei è il legame tra me e la natura, se non fossi così innamorato, non amerei ogni singola particella di questo bosco”, pensò prima di addormentarsi.
    All’alba si alzò. Si sentiva inquieto, desiderava conoscere ogni filo d’erba, ogni spigolo di roccia, emozionarsi per il trillo di un uccello, il profumo di un fiore; in cuor suo si sentiva capace di poter plasmare le cose e convertirle in qualcosa di bello, di originale.
    Il sole spuntava dietro quella strana vetta che in paese chiamavano: “Il Picco del Diavolo”.
    Un giorno l’avrebbe raggiunta, un fascino misterioso e accattivante si sprigionava da quella visione che lo teneva avvinto come un sogno. Si recò alla sorgente e si lavò il viso con l’acqua fresca, poi andò a sedersi su un masso tondeggiante.
    “Perché, perché?” si chiedeva “erano tutti così cattivi…”
    Non capivano che a lui bastava anche solo vedere Ester, sapere che a volte lei gli sorrideva, mostrandogli simpatia. E lui sognava che sarebbe stata sua, sua per sempre, non avrebbe permesso a nessun altro di averla.

    Un fruscio tra i rami lo fece voltare: un lupo. Lo guardò dritto negli occhi scrutandolo. Avrebbe dovuto tremare di paura, ma sentì dentro di sé una strana serenità. Si guardarono a lungo l’un l’altro e nessuno dei due abbassava lo sguardo, né mostrava timore. Un misterioso messaggio muto intercorse tra lui e l’animale. L’animale fiutava l’odore selvatico del ragazzo e Febo vedeva nell’animale la libertà di essere rispettato. Alla fine il ragazzo sorrise e il lupo tornò indietro, svanendo nella boscaglia. Per un’istante, che gli sembrò immenso, Febo si sentì potente: aveva tenuto testa a un lupo, pur essendo disarmato.

    Con le poche cose che aveva a disposizione, cominciò a lavorare un pezzo di legno chiaro, per costruire un oggetto da regalare a Ester, si mise al lavoro alla luce del sole e gli sembrò magnifico poter fare il suo mestiere all’aria aperta, seduto sulla roccia. Aveva pochi attrezzi, ma tanto tempo a disposizione e la sua idea cominciò a prendere forma: il legno leggero che stava modellando era diventato una stella, appena abbozzata. Doveva lavorarci ancora molto, e poi fare intagli per abbellirla, inoltre occorreva praticare un foro dal quale far passare dei fili colorati per poter legare il ciondolo al collo.
    Rimase impegnato nella sua opera per due giorni e non si accorse dell’ombra della donna, vestita di nero, che lo osservava in silenzio, compiaciuta.

    Quando ebbe terminato, incidendo anche l’iniziale del nome della ragazza al centro della stella, la osservò soddisfatto. Mancavano le rifiniture: la limatura, la tinteggiatura con l’olio di lino cotto, come aveva visto fare al suo maestro e i fili per il laccio, ma l’opera era ormai definita.
    Era ora di tornare in falegnameria e anche a casa… chissà Maria com’era stata in pensiero in quei giorni che era mancato. Non voleva far preoccupare, oltre, quella poveretta.

    In preda all’euforia si avviò sulla strada del ritorno, ma quando sentì una voce di donna canticchiare, si nascose per vedere chi fosse: si trattava di Ester.
    Era lì, con un cestino colmo di more e mirtilli infilato al braccio, intenta a raccogliere i frutti si accorse della sua presenza dal fruscio delle foglie che avevano scricchiolato ai suoi passi. Gli parlò in modo confidenziale, abbandonando il linguaggio formale.

    –Lo so che sei lì, dietro l’albero, Febo, cosa credi? –
    Si sentiva protetta, sapeva che c’era lui sempre pronto a difenderla, anche se non aveva il coraggio di farsi vedere né di risponderle e si rifugiava dietro il primo nascondiglio a portata di mano, tanto era l’emozione di vederla ogni volta.
    La testa rossa di Febo spuntò da dietro un tronco, reclinata da un lato, ma quando lei lo guardò tornò a nascondersi.

    – Ma insomma, ti faccio così paura? – disse lei, ridendo.

    – E poi mi fai parlare da sola come una scema, lo so che parli poco, ma adesso, che sei diventato il mio guardiano, potresti anche dire qualcosa. –
    Il ragazzo taceva, irrigidito dietro l’albero, sembrava aver paura anche di respirare.

    – Non importa, dai, mi fai compagnia lo stesso. Ora andiamo a casa. –
    Si avviò lungo il sentiero. Nel silenzio si sentiva il rumore dei passi leggeri, replicato da quelli di Febo, che ricalcava le orme di quei piccoli piedi. Arrivati al villaggio Ester svoltò verso la piazza e Febo imboccò il viottolo di casa. Sua madre lo aspettava e come lo vide gli occhi le brillarono. Era tornato a condividere con lei il desco e quelle quattro mura che definivano la loro vita a due.

    L’inverno passò, tra cumuli di neve che dipingevano di bianco ogni cosa. Le fanciulle rimanevano chiuse in casa accanto al focolare, per cui per molto tempo anche la bella Ester non si vide in piazza e Febo smaniava che il freddo finisse presto, per poter rivedere la sua amata e intanto sognava di lei.

    Un vento caldo annunciò l’arrivo della nuova stagione che rendeva tutto più vivo, ogni cosa parve risvegliarsi dopo un lungo sonno. La “festa di primavera” si approssimava. Era un evento molto atteso nel villaggio e in tutti i paesi che popolavano quelle montagne; le donne preparavano marmellate, dolci e manicaretti da vendere con le bancarelle e gli uomini raccoglievano legna per il grande falò, che sarebbe stato allestito al centro della piazza.
    Anche Febo era eccitato come tutti i ragazzi del villaggio. Aveva terminato il ciondolo a stella per la sua Ester e non vedeva l’ora di donarglielo. Approfittò di vederla alla fontana in un momento che non c’era nessuno. Si avvicinò piano e la guardò. Lei sollevò gli occhi e sorrise.

    –Oh, il mio guardiano. Come stai?
    E non ricevendo risposta chiese: – Vuoi accompagnarmi?
    Ma lui era troppo emozionato per rispondere e non seppe far altro che porgerle il prezioso ciondolo.

    – È bellissimo, ma è per me? – disse la ragazza, ammirando quella stella intarsiata con al centro la “E” del suo nome.
    Lo indossò e contenta si avviò verso casa, ma lui non la seguì. Le fece un cenno di saluto con la mano e andò via. Dopo giorni di preparativi, finalmente, arrivò quello tanto atteso. A sera, tutto il villaggio era in fermento. Le fanciulle erano rivestite dei costumi tradizionali: gonne ampie, lunghe camicie bianche ricamate e il corpetto attillato, in testa un panno bianco, ricamato, fissato sul cranio con un fermaglio. Le accompagnavano danzatori con camicie immacolate che si aprivano sul petto, calzoni a mezza gamba e una fascia stretta in vita.
    Tutti insieme al suono festoso del tamburello provavano i balli che avrebbero allietato la serata, ridendo e scherzando tra loro. Ester aveva aggiunto un fiore tra i capelli ed era ancora più bella del solito. Le donne, dietro i banchetti, si preparavano a vendere i cibi, e la catasta di legna, al centro della piazza, era diventata altissima.
    Febo aveva indossato la camicia pulita e la giacca verde scuro delle grandi occasioni. Si guardava attentamente nello specchio cercando di tenere a bada con un pettine i capelli ricciuti, che dopo un attimo si ribellavano e tornavano a cadergli sugli occhi. Sua madre lo guardò sospirando: – Non perderci troppo tempo, tanto il vento te li scompiglierà appena esci. E non metterti a seguire Ester: – È solo una smorfiosa. –

    – Non mi trattate come un bambino, madre, ho già compiuto vent’anni – disse Febo risoluto
    E indossata la giacca, uscì di casa.

    Lei era nel gruppo di fanciulle e giovani danzatori in costume che avrebbero ballato intorno al falò. Lui non ebbe coraggio di avvicinarsi, costoro, come sempre, l’avrebbero preso in giro, ma al collo di Ester pendeva un ciondolo a forma di stella e questo gli bastava per essere felice. Si fermò accanto a una bancarella di dolci e comprò dei biscotti farciti, poi cercò un angolo tranquillo da cui poter seguire la sua bella. Dopo un poco un gruppetto di fanciulle si avvicinò a lui.

    – Febo, venite a ballare con noi?

    – Su, oggi è festa, venite a divertirvi...
    Il giovane non capiva il perché di tante attenzioni, da parte di quelle stesse ragazze che lo avevano sempre deriso.

    – Sappiamo che siete un artista… il ciondolo di Ester è bellissimo! Perché non lo fate anche a me? – disse una di loro.

    – Anche a me, anche a me –, aggiunsero le altre.
    Lui scosse la testa e loro continuarono a pregarlo, indicando anche le iniziali da apporre sul ciondolo e quale forma dovesse avere: foglia, fiore, edera.

    – Ora sono molto occupato, poi ne riparliamo– disse infine Febo, contento di tanto interesse. La festa intanto era al culmine. Dai paesi vicini erano arrivati molti giovani e tra essi c’era anche Attilio De Fontana. Quando gli occhi del conte Attilio incontrarono quelli della ballerina più bella, con i capelli biondo miele, non si staccarono più da quella soave visione. Avvicinatosi alla fanciulla la invitò a ballare. Ester era vanitosa, ma non aveva mai ballato con un nobile e si sentì trascinata da un vortice di sensazioni. Il conte era bello, anzi, il più carino di tutti i giovani presenti in piazza.

    – Ester, siete come un’alba appena nata, che preannuncia un giorno meraviglioso.
    Lei raccoglieva i complimenti e intanto si gingillava col suo ciondolo.

    – Bella questa stella, ma non potrà mai raggiungere il vostro splendore – disse lui osservando l’oggetto e lo prese tra le mani soppesandolo.

    –Io ve ne regalerò uno tutto d’oro.

    Febo osservava tutto e soffriva: ogni volta che li sentiva ridere, provava dolore, come se un coltello lo pugnalasse ripetutamente, con accanimento. Nessuno aveva mai osato tanto con Ester. Addirittura quello stava osservando il suo ciondolo come per valutarlo. Che sfrontato, come osava? Cominciò a masticare rabbia, mentre impazzavano canti e balli attorno al falò.
    “Questa maledetta festa deve pur finire” pensava, fidando nel fatto che dopo tutto sarebbe tornato come prima.

    Da quel giorno, ogni sera un cavallo arrivava nei pressi della casa di Ester, l’animale era condotto al passo così lentamente che il suono sul selciato arrivava ovattato e nessuno in paese aveva notato quella presenza. La fanciulla scostava le tendine e vedeva il conte Attilio che le faceva un cenno di saluto, svelta usciva di casa per raggiungerlo e rimanevano insieme per ore, nascosti, mentre tutti dormivano. Si erano dati appuntamento fin dalla sera della festa e i loro incontri si ripetevano, alimentando l’attrazione che provavano l’uno per l’altra. Lui le sussurrava parole dolci, lei si faceva giurare amore eterno e insieme stabilivano persino i nomi dei figli che avrebbero avuto. Erano talmente presi l’uno dall’altra che a volte spuntava l’alba e li trovava ancora lì, dietro l’albero di noce vicino casa, stanchi e innamorati.

    Una mattina la sarta vide delle occhiaie sotto gli occhi di sua figlia.

    – Dimmi la verità. Tu mi nascondi qualcosa. C’ entra per caso quel ragazzo rossiccio che ti ha accompagnato a casa l’altra volta?

    – Ma no, mamma, questo è un conte l’ho conosciuto alla festa … e gli raccontò tutta la storia.

    – Speriamo che ti voglia davvero bene, non vorrei vederti soffrire.

    – Nemmeno io– rispose la figlia, mentre negli occhi si profilava un velo di dubbio. Attilio l’amava davvero o la stava illudendo?

    Quel giorno Ester tornò dalla fontana con la cannata piena d'acqua, le guance un po' arrossate e la gonnella che frusciava a ogni passo.

    –Vieni che ci sta una sorpresa – disse la madre, con un sorriso strano, quando entrò in cucina.

    – E cosa c'è? ¬– fece lei sbuffando, con le mani ai fianchi.
    Sua madre allora le mostrò un pacchetto in un involto dorato e disse: – Questo è per te!

    Lei sbiancò. – E chi… chi me lo ha donato? – balbettò.

    – Qualcuno che è rimasto colpito dai tuoi occhi– disse la madre sorridendo.

    –Non prendetemi in giro, per favore. Tengo il cuore che mi batte a mille. Si può sapere chi è stato, sì o no?

    – Mantieniti forte, figlia mia, è la persona che t'ha fatto questo regalo è proprio il conte Attilio De Fontana. Ha mandato l’imbasciata da un suo fattore che attende la risposta qui fuori e stasera saremo ospiti alla sua villa.

    –No, no, sto così combinata – fece la ragazza, cercando di stirare con le mani la gonna stropicciata.

    –Allora devo dire di no? – volle sapere la madre ridendo sotto i baffi.

    –Ma che dite! Piuttosto aiutatemi a farmi bella per stasera.

    –Non ne hai bisogno, sei un fiore.

    Ester corse in camera sua e si avvicinò alla finestra. Si vedeva l'enorme distesa di vigneti e uliveti che appartenevano al conte, ma a lei non interessava tutta quella ricchezza. Di lui l'aveva colpita lo sguardo tenero che ogni volta le faceva tremare le gambe.
    Strinse tra le mani l'oggetto che aveva avuto in dono, il biglietto che lo accompagnava riportava l’aquila, lo stemma di famiglia, e l’involucro conteneva un anello d’oro con diamante, lo ripose accuratamente tra le sue cose più preziose. Era una richiesta di fidanzamento. Si sentiva sciogliere di dolcezza e aveva la sensazione che il sangue fluisse più veloce. Slegò la treccia e liberò i capelli per lavarli e profumarli.
    Un nitrito la fece rabbrividire. Lesta, raggiunse la finestra e lo vide. Lui sollevò il cappello in segno di saluto e sorrise, poi ripartì subito al galoppo. Lei sospirò dietro ai vetri. In fondo, la sera sarebbe arrivata presto.

    Ester non era uscita di casa per molti giorni e Febo non sapendo il motivo di quell’ assenza si sentiva infelice, distrutto dalla sofferenza. Restava per ore sui gradini della chiesa ad aspettare che lei passasse, ma inutilmente. Perché non usciva più? Cos’era cambiato? C‘entrava forse quel bellimbusto con cui aveva ballato alla festa. E il solo pensiero che i suoi timori potessero essere veri gli faceva torcere lo stomaco in un tormento che lo sfiniva. Gironzolava anche sotto casa della fanciulla, ma lei non si affacciava e la finestra rimaneva chiusa come se in casa non ci fosse nessuno. Quando finalmente la vide attraversare la piazza e dirigersi nel bosco Febo tremò dalla gioia; tutto era ritornato come prima.

    Come al solito prese a seguirla a distanza lungo un intrigato sentiero. In quel luogo la vegetazione aveva invaso ogni centimetro di terra e si sentiva in sottofondo il gorgogliare dell’acqua. Col respiro affannoso per cercare di starle dietro seguiva le tracce che la fanciulla lasciava dietro di sé. Poi all’improvviso gli apparve il fiume e una piccola cascata, il posto era bellissimo, ma lui non lo notò cercava solo lei che era sparita alla sua vista. Poi scorse un corpo che emergeva e si rituffava con movenze da sirena. Incantato seguì ogni suo movimento, il suo scomparire sott’acqua e ricomparire più lontano, i suoi tuffi, i suoi gridolini di gioia.
    Lei nuotò ancora per alcuni minuti, poi lo intravide che cercava di nascondersi dietro un salice, i cui rami si allungavano fino a terra. La sua presenza stavolta le diede fastidio.
    Uscendo dall’acqua, con la sottana bagnata che evidenziava del forme del suo corpo morbido, disse nervosa: – Guarda pure, faccia di zucca! Tra un mese mi sposo e riprenditi pure questo – disse gettando il ciondolo verso l’albero dove lui si era celato. Lui la fissò, triste. Sentì il suo cuore che scoppiava in un boato.

    “No! No! Meglio la morte che non poterla più vedere e sentirla sua, anche se solo per gioco”.
    Da quel giorno smise di seguirla, ma il suo amore malato continuò a tormentarlo. Lei era nei suoi pensieri sempre, era l’unica immagine della sua mente che poteva lenire lo strazio che provava. Tutto quel vuoto che sentiva dentro era atroce. Maria bussava inutilmente alla porta della sua camera; lui rimaneva disteso sul letto a fissare il soffitto. Dopo i primi giorni che aveva ripetuto il nome di Ester all' infinito, se ne stava muto, senza forze, senza desideri.

    – Smettila di farti del male, figlio mio, non ne vale la pena, ci sono tante ragazze nel villaggio. E cerca di mangiare qualcosa. Ti lascio il vassoio qui fuori. Ogni tanto la porta si apriva e Febo mangiava, ma solo per avere ancora la forza di pensare a lei.

    – Febo, è venuto Meo. Ha detto che ti aspetta alla falegnameria ancora per due giorni, poi dovrà chiamare qualcun altro, perché il lavoro si accumula.
    Sua madre, che cercava di comunicare con lui, si appiattiva fuori l’uscio della camera per sentire un movimento, un colpo di tosse, una risposta alle cose che lei diceva, ma nulla accadeva. Una mattina, mentre era in cucina, con sua enorme sorpresa, la donna lo vide comparire sulla soglia: pallido, arruffato, gli occhi spiritati.
    – Mamma, esco.
    La sua voce risuonò incredibilmente lontana. Lei sorrise.
    – Aspetta, siediti! Fai prima colazione. È tutto pronto.
    Il giovane non se lo fece ripetere e la madre felice gli cinguettava intorno, coprendolo di attenzioni.
    – Appena hai finito, sparecchio e vado subito alla falegnameria per dare la bella notizia a Meo.

    Lui non disse niente. Fece colazione guardando la madre, poi prese la giacca e uscì; mentre si allontanava sentì sua madre cantare. Per strada c’era poca gente e quasi nessuno fece caso a lui, che si dirigeva nel bosco. Inoltratosi tra il folto degli alberi raggiunse la cascata, era lì che il suo cuore era esploso in mille pezzi. Odiava quel posto, lanciò un sasso nell' acqua torbida del fiume e proseguì.
    Imboccò un sentiero, che saliva verso la montagna, sarebbe andato al suo rifugio. Il percorso ormai gli era ormai così noto che impiegava sempre meno tempo per arrivarci. Il cielo era grigio e corrucciato, un vento insidioso sibilava tra le foglie. Il cielo sopra di lui sembrava una tenda azzurro scuro con piccole stelle lontane, irraggiungibili, come Ester. Arrivò, stremato dal lungo cammino Si sistemò nel suo giaciglio coprendosi con la coperta e si preparò ad affrontare la notte in montagna.
    I suoni del bosco erano cupi e la montagna sembrava farsi beffe di lui. Decise che l’avrebbe scalata a mani nude. Aveva notato dei tornanti che di inerpicavano verso la parte brulla che terminava con quello strano picco. L’indomani sarebbe andato al “Picco del diavolo”.

    Al mattino mangiò un pezzo di pane e formaggio che aveva portato da casa e poi s’incamminò. Per fortuna non faceva molto caldo, aveva con sé poche cose, tra cui un coltello col quale tagliava i rami del fitto bosco che gli impedivano di avanzare. Un’ombra scura lo affiancò. Era la donna vestita di nero che aveva visto l’altra volta: il fantasma di sua madre.

    – Febo dove stai andando? Fermati! C’è una vita là sotto in quelle case. C’è gente e forse anche fanciulle che apprezzerebbero il tuo cuore nobile, la tua capacità nel lavoro, la tua arte.

    – Sprecate tempo. La vita mi ha sfidato ed io sfido lei. Io non chiedevo molto… mi ha dato due madri che non mi possono aiutare e l’unica donna che amo mi considera un lombrico, un essere innocuo, inutile.

    – No! Non devi crederlo, è solo un momento, poi tutto si aggiusterà.

    – E voi credete che io voglia vederla passare in abito da sposa domani?
    Menica continuava a parlargli, voleva fermarlo, ma lei era solo una povera anima che vagava infelice, non aveva poteri. Quanto avrebbe voluto essere una strega, ma lei il demonio non lo aveva incontrato né da viva né da morta e il suo spirito errante, da sempre volto al bene si era legato al figlio e gli sarebbe rimasto accanto per proteggerlo.
    Febo continuava a salire. Era giovane, agile, doveva solo salire, salire e raggiungere il picco. La madre cercava di trattenerlo in tutti i modi creando di sottrargli l’appoggio di rocce e rami lungo la parete che lo aiutavano nella scalata, ma lui si infuriava e le si scagliava contro.

    — Lasciatemi in pace! Andate via!
    E scansandola riprendeva a salire con lei che cercava di trattenerlo come poteva.
    Furibondo lui continuava ad avanzare, ma la sua impresa non era però tanto facile, la parete della montagna diventava sempre più aspra. Si aggrappava con tenacia con le mani e con intuito trovava una sporgenza su cui poggiare prima un piede poi l’altro, man mano che procedeva, però, tutto diventava più difficile.
    Dopo ore di salita, trovò un posto per riposare un poco e riprendere fiato. Le mani sanguinanti le ginocchia graffiate sì ripulì con un po’ d’acqua e un fazzoletto. Sua madre non c’era più, era come svanita e forse non c’era mai stata. Cercò di dormire accucciato su una pietra. Doveva recuperare le forze.

    Si svegliò al richiamo di un aquilotto, si sentiva abbastanza in forma e riprese la scalata.
    Guardò davanti a sé, ma la vetta che lui voleva raggiungere era coperta da una fitta nube grigia e non riusciva a capire come poter continuare la salita. Allora capì: la nebbia grigia era lo spettro di sua madre, lo perseguitava ancora ma non lo avrebbe fermato, non ci sarebbe riuscita, lui era più forte.
    Ricordò che prima di riposare aveva osservato l’altura attorno a sé e ricominciò a salire procedendo da un lato che gli era parso meno ripido. Passo dopo passo si feriva sempre più per cercare appigli e sentiva la testa ottenebrata da un senso di vuoto assoluto.

    — Cosa speri di trovare lassù, stolto!
    La voce disperata di sua madre si fece sentire.

    — Forse il diavolo, magari mi aiuterà nella mia vendetta.

    — No! Non dannarti, ti prego.
    Febo era accecato dall’odio e sordo alle emozioni e continuò imperterrito a salire.
    Quando arrivò in cima era senza fiato e in condizioni pietose, ma ce l’aveva fatta: era arrivato sul “Picco del Diavolo”. Da lassù si vedeva tutto il villaggio: appariva come un alveare silenzioso, e sotto le rocce si apriva un immenso baratro che pareva bucare in due la montagna.

    Si sedette su un masso e rimase a scrutare l'orizzonte. Il giorno dopo, Ester sarebbe stata la sposa di un altro e lui cos’era per lei se non una cosa inutile, una ridicola faccia di zucca che adesso lei detestava. Recuperate le forze, si alzò in piedi e urlò:– Sia maledetta Ester e tutta la sua discendenza! –
    Furono le sue ultime parole, prima di gettarsi nel dirupo.
    Menica gridò, ma nessuno udì il suo grido, nessuno vide il dolore che le squarciò il petto.

    –Era meglio se fossi stata una strega, avrei potuto fare qualcosa per evitare tutto questo. Oh, figlio mio, non dovevi dannarti, adesso come farò a proteggere quegli esseri innocenti che tu hai maledetto? Come potrò riscattare la tua anima e trovare pace per la mia?

    Un filo di fumo grigio scese verso il basso a cercare il posto dove Febo si era schiantato.

    Quando Maria vide che Febo mancava da troppo tempo, andò alla falegnameria a chiedere a Meo se per caso fosse passato da lui.

    – No, qui non è venuto, ma non preoccuparti. Sappiamo come è fatto quel ragazzo lì, magari si è nascosto da qualche parte nei boschi, per non vedere la festa di domani. Vedrai che tornerà. –
    La donna vicina alla rassegnazione, fece ritorno a casa, con il cuore colmo di pena.
    Nella sua stanza, Ester stava preparando la biancheria da indossare il giorno dopo: la camicia da notte di seta le stava d' incanto e il pizzo nero risaltava sulla pelle bianca.

    – Che caldo! – esclamò, e si avvicinò alla finestra per spalancarla.
    La luna aveva due puntini scuri, e sotto di essi si apriva una fessura che pareva un sorriso.
    “Domani sarà il giorno più bello della mia vita…”

    L' aria dolce, quasi estiva, le arrivava ricca di profumi, quando un venticello caldo prese a premerle addosso come una carezza. Prima leggera, poi sempre più audace: il vento le faceva aderire la camicia al corpo, le spalline scivolavano giù dalle spalle, poi il flusso d’aria s’insinuava su per le gambe, le frugava tra i seni, sembrava voler perlustrare ogni centimetro della sua pelle.

    – Ah, vento birbante! – si ritrovò a pensare.Allora le parve di udire una voce sommessa.

    – Ester, sarai mia. Sarai mia, per sempre…

    – Febo! Febo, sei tu? –

    – Non puoi vedermi, ma sentirmi sì. Le carezze del vento sono mie. –

    –Non dire stupidaggini. Esci dal tuo nascondiglio. Dove sei? –

    Ebbe come risposta una risata strana.Si guardava intorno e non capiva… come poteva, Febo, essere lì?
    Corse a prendere una torcia e cercò di illuminare tutti gli angoli bui della stanza, poi, pensando che la voce le arrivasse dall’esterno, perlustrò i cespugli e gli alberi del giardino, dove lui si sarebbe potuto nascondere, ma non lo trovò.

    –Vieni fuori, faccia di zucca, smettila di tormentarmi! – gridò in direzione del buio attorno a lei.
    Di nuovo le arrivò quella voce.

    –Sarai mia, Ester, mia per sempre! –
    Impaurita rientrò in casa, decisa a rinchiudersi nella sua camera. La finestra, che uscendo aveva chiuso, era di nuovo aperta. Si affrettò a richiuderla, ma fu investita da un vortice di vento che la respinse con una potenza sovrumana. Cercava di opporsi, ma le mancava la forza; una massa d’aria compatta la fece indietreggiare sempre più, fino a spingerla sul letto. Sentì i brividi, per quel vento che cercava di toccare la sua pelle come volesse possederla.
    “Sto diventando pazza” pensò. Continuò a lottare contro quella forza spaventosa, poi perse i sensi.

    La svegliò il sole del mattino. Si sentiva stanca, e pensò di aver avuto un brutto incubo. Era il giorno tanto atteso. Indossò il suo magnifico vestito da sposa e si guardò allo specchio. Era bellissima, un poco di pallore mostrava ancora i segni di quella notte agitata, ma un poco di belletto parve rimettere tutto a posto. Mentre camminava, tutta la gente del paese era ai due lati della strada e la scortò fino alla chiesa. Avanzava lenta: sognava quel momento da mesi.
    Nei pressi dell’altare sorrise al suo sposo innamorato. La contessa Ortensia De Fontana, madre dello sposo, aveva lo stesso sguardo altero di sempre e tutti i nobili, suoi parenti, sfoggiavano abiti eleganti e gioielli ostentando la loro ricchezza. La sposa guardava con adorazione l’uomo che aveva scelto per tutta la vita. Tutto sembrava perfetto, eppure c'era una nota stonata.
    Nel bel mezzo del matrimonio si diffuse la notizia che Febo era scomparso e nessuno riusciva a trovarlo, ciò non impedì di continuare i festeggiamenti in maniera adeguata. Ester sorrideva anche se in fondo a sé stessa c’era una triste consapevolezza: ripensava alla notte precedente, al vento che le aveva parlato con la voce di Febo, non sapeva spiegarsi cosa potesse essere successo a quello strano ragazzo.

    Però in fondo non le dispiaceva che si fosse levato di torno, certamente era andato via dal paese e non sarebbe ritornato mai più e questo pensiero la rasserenò. Di lui non si seppe più nulla. La povera madre, Maria, cominciò a vagare nel bosco chiamandolo e da lì a pochi mesi morì di dolore.

    Ester adesso viveva nella sua bella villa, servita e riverita. Dopo qualche mese diventò strana, non fu più né allegra né triste, era come se vivesse in un'altra dimensione. Per niente si agitava, sgridava la servitù, faceva capricci inutili come una bambina. Era incinta.

    – Non preoccuparti, quando nascerà il bambino, finiranno tutte le sue moine¬– diceva la contessa al figlio.
    Lui l’accontentava in ogni richiesta; quando gli disse che desiderava un ritratto chiamò uno dei pittori più conosciuti nella zona che venne a ritrarla e rimase incantato nel vederla . Il suo nuovo stato le affinava i lineamenti e accendeva lo sguardo di una luce speciale. Era bella come non era mai stata, la pelle rosea, il volto incantevole, solo un esperto avrebbe visto in sottofondo una certa malinconia.
    C’era qualcosa in lei che le impediva di essere felice. Spesso, la notte, Ester riviveva in sogno quella strana notte prima delle nozze e si svegliava gridando, madida di sudore. Quando il marito però le chiedeva di cosa avesse paura, lei non aveva il coraggio di rispondere del vento o di Febo: l’avrebbe creduta pazza.

    A nulla valse l'affetto di Attilio, né le cure del medico che fu chiamato per risolvere la questione, quest’ultimo in realtà la sola cosa che faceva era quella di dare alla donna dei calmanti che l’acquietavano, sfiancandola.
    Quando Ester ebbe le doglie gridava come una forsennata, il bambino si era messo di traverso
    e pareva si divertisse a farla soffrire. Si sentiva uno straccio, per ore udì le voci intorno che la incitavano e dopo innumerevoli sforzi si abbandonò cerea senza più forze. Poi ricominciò a lottare dolorosamente, doveva sforzarsi, quel bambino doveva nascere.

    Edited by Esterella - 28/11/2020, 14:40
  15. .
    La mia impressione è che la figura di Ipazia risulta sminuita perché inserita in un contesto particolare, i due dei che continuano annoiati a fare sesso, tanto per fare, non danno quella spinta necessaria a considerare la mente umana e quella di Ipazia in particolare come l' alternativa alla loro stasi perenne, come anche tu accenni parlano tanto per parlare.
272 replies since 6/9/2020
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