Scrittori per sempre

Posts written by mangal

  1. .
    CITAZIONE (Viviana Monroy @ 30/11/2020, 06:56) 
    Mi ha ricordato il film Sliding Doors, uguale uguale.
    Punteggiatura da rivedere, la trama non mi ha detto granché.

    dici? eppure sliding doors era così:
    Helen arriva tardi in ufficio e viene licenziata. Decide di tornare in anticipo a casa ma arrivata alla metropolitana la storia si sdoppia: c'è Helen che perde il treno e che viene aggredita ma c'e' anche la Helen che riesce a salire sulla metro.

    forse sbagli film, o forse sei solo talmente arrabbiata che non ti rendi conto di cosa stai scrivendo
    vuoi che metta la versione originale del tuo racconto? tranquilla, dammi l'ok e lo faccio.
    poi, però, non ti lamentare.
    e magari, già che ci sei, cerca di capire cos'è la punteggiatura.
  2. .
    CITAZIONE (Viviana Monroy @ 29/11/2020, 19:17) 
    O Molli, Novecento è un film di Bertolucci, e non un refuso. Sennò con Olmo la liason quale sarebbe?
    O mangal se ti prendevi la prima versione errori non c'è n'erano.

    non potevo accettarla, era irricevibile, mancavano tutti i dialoghi
    comunque stai dicendo che le revisioni fanno fare errori, e mi pare strano
  3. .
    per certi versi mi ricorda molto da vicino "Il profumo del mosto selvatico", film di parecchi anni fa con Giancarlo Giannini.
    viaggio in treno, confidenza a uno sconosciuto che poi la accompagna.
    beh, nel film finisce meglio, ovviamente, però il succo è simile.
    ci sono davvero parecchi refusi, quindi una revisione sarebbe opportuna.
    mancano dei trattini nei dialoghi e anche la punteggiatura è da rivedere.

    a rileggerti
  4. .
    È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie.
    La verità meno riconosciuta – pensò Nicola – è che anche uno scapolo povero come la merda ha bisogno di una moglie. Rise fra i denti, Austen sarebbe stato fiero di lui.
    - Ecco le tue viole, Nicola caro. Chi è la fortunata, stavolta? – chiese Tina, la fioraia, che aveva addobbato le tombe dei suoi genitori, dei suoi nonni e forse anche dei bisnonni.
    L’uomo le sorrise con affetto, fermandosi a osservare quel viso ormai simile alla corteccia di un albero con dentro due enormi occhi blu.
    - E chi può saperlo? Trovare moglie è difficile al giorno d’oggi, allora mi tengo pronti i fiori, hai visto mai dovessero servirmi per una dichiarazione all’improvviso.
    La vecchia fioraia rise con l’entusiasmo di chi aveva mancato un terno per un numero, a quella battuta terribile.
    Uscito dal negozio sulla strada appena sporcata dalla neve Nicola inspirò una dose massiccia di aria ghiacciata. Detestava il profumo dei fiori da quando ne aveva memoria, un’avversione che sua madre non aveva mai tollerato, diceva che solo un pazzo potrebbe detestare il profumo delle viole.
    Ma si sa, le donne adorano i fiori e allora si sforzava di tollerarli.
    E tollerarle.

    Arrivato davanti la sua pasticceria di fiducia, si fermò un attimo a osservare la sua immagine riflessa fra torte sacher e il resto dell’allestimento che sommava in un’immagine una quantità di calorie stratosferica.
    A quarant’anni era il prototipo di scapolo ideale, o lo sarebbe stato se fosse stato più ricco.
    Molto più ricco.
    Alto, ancora abbastanza magro, occhi neri, capelli effetto bagnato e rasatura contropelo maniacale
    Non aveva mai lavorato un giorno in vita sua e non aveva nessuna intenzione di farlo. I suoi genitori avevano un negozio di ottica, ai tempi d’oro facevano affari d’oro e alla loro morte gli avevano lasciato una bella casa, con un giardino, una cantina e più stanze di quelle che avrebbe mai utilizzato. I risparmi che avevano accumulato in banca gli consentivano una rendita più che sufficiente a vivere senza lavorare, a comprare fiori tutte le settimane e le brioches preferite la domenica.
    In realtà detestava le brioches, ma alle donne piacciono e le donne bisogna coccolarle.
    - Ciao Pier – disse entrando nel negozio – vi hanno fatto riaprire finalmente?
    - Hola, bell’uomo – rispose il pasticcere, pulendosi le mani sporche di cioccolato in un grembiule sporco come la coscienza di un nazista – sì, dai, ci proviamo. Ma è stata dura.
    - Non fatico a immaginarlo – fece l’uomo che non aveva mai toccato la farina nella sua vita – ho pregato affinché tutto andasse bene per voi e per una pronta riapertura.
    - Grazie, Nicola. Sei proprio ineffabile.
    - Anche perché se chiudi poi le brioches al cioccolato così buone dove le trovo, neh?
    T’avissunu affugare, pensò Pier in puro dialetto siculo, sorridendo con l’espressione di chi ha trovato l’auto ripassata con un chiodo.

    Con le brioches sottobraccio come un francese con la sua baguette e con l’aria di chi aveva salvato un’attività commerciale dal fallimento, il povero scapolo tornò in strada e si diresse a testa alta verso la ferramenta, grazie al cielo aperta anche di domenica, ultima tappa di quella che riteneva una mattinata intensa.
    La porta si aprì col rumore di un campanello e il proprietario venne fuori dal retrobottega, dove fra minuteria e utensili erano stipate tonnellate di ferro.
    - Guarda chi c’è, lo scapolo d’oro viene a trovarci. Come va, Nicola?
    - Eh, solo scapolo, caro Fausto, manca l’oro, manca.
    - Secondo me se pubblichi il tuo estratto conto sul gazzettino trovi moglie in dieci minuti.
    - Sarebbe di ben poche pretese, questa presunta moglie. No no, mio caro, una donna devi conquistarla con altri mezzi, con quelle cose che piacciono a loro, tipo fiori, dolci e cose così, roba che puoi permetterti sempre, con una spesa calcolata, per il resto dei tuoi giorni.
    - Fausto guardò il suo interlocutore negli occhi, per cercare di capire se dicesse davvero o lo stesse perculando.
    Nicola lo capì e scoppio a ridere.
    - Ma dai che scherzo, vecchia roccia. Non bisogna mai diventare monotoni con le donne, o sono corna assicurate.
    E se lo dice Julio Iglesias, capirai… pensò il ferramenta, scoppiando a ridere per non piangere.
    - Quando una donna si deciderà ad amarmi per quello che ho da darle, allora mi vedrai passeggiare per il paese con una donna fortunata.
    - Sareste fortunati entrambi, suppongo.
    Nicola si rese conto di non averci mai pensato.
    - Suppongo di sì, – rispose quasi parlando da solo - lei avrebbe vitto, alloggio e sesso all’occorrenza e io casa sistemata, cibo pronto e sesso all’occorrenza a un costo minore di una badante rumena, della quale non potrei oltretutto mai fidarmi. Un affare per entrambi.
    Se quell’uomo avesse potuto abbracciarsi da solo lo avrebbe di certo fatto, pensò Fausto, cercando di controllarsi per non schiaffeggiarlo.
    - Ecco quello che mi avevi chiesto – disse infine.
    Posò sul bancone un borsone con dentro una lunga catena arrotolata, di quelle inguainate per non farle arrugginire.
    Nicola provò a sollevarlo ma ci mancò poco che sputasse un polmone.
    - Cazzo se pesa.
    - Ovvio, la ferramenta pesa, ragazzo. Se vuoi quando chiudo te la porto a casa, visto che sei a piedi.
    - Sarebbe fantastico, grazie.
    - Ci vediamo tra mezz’ora, appena chiudo passo.
    - Ok, lascia pure davanti alla porta del garage, il campanello non funziona e potresti suonare per giorni senza che io ti senta.
    Nicola pagò e usci, visibilmente sollevato, non sarebbe mai riuscito a portare quel peso per i dieci minuti che lo separavano da casa.
    Il sole sparì dietro dei grossi nuvoloni e l’aria si fece freddissima. Si ricordò di non aver accesso la stufa, quella mattina, e si maledisse.
    Doveva impegnarsi di più se voleva diventare un buon marito.
    Rabbrividendo si strinse nel cappotto e affrettò il passo.

    Aprì la porta del garage, che era vuoto perché lui non aveva mai preso la patente e quindi l’auto non gli serviva, prese dei tronchetti di legna e scese nell’enorme cantina, dov’era il locale caldaia. La accese e udì il rumore di una catena che si muoveva qualche metrò più in là.
    Accese la luce, che illuminò malamente tutto il locale. C’erano vasi di viole ovunque, alcuni rovesciati con i fiori ormai marciti, alcuni rotti sul pavimento.
    Nicola focalizzò lo sguardo su uno che era certo non fosse rotto fino al giorno prima.
    - Hai rotto un altro vaso, Laura, amore mio? – disse piano.
    Silenzio, solo un lieve rumore di catena.
    - Vieni fuori, amore, non costringermi a cercarti.
    Ancora rumore di catena, poi una donna venne fuori dall’angolo più buio della stanza, vestita praticamente di stracci e lividi, tremante per il freddo e l’umidità del tutto fuori parametro, in quell’antro dimenticato da dio. Al collo una cinghia di cuoio, bullonata a una lunga catena che raggiungeva ogni punto della stanza fuorché l’uscita.
    Occhi nerissimi e rabbiosi, capelli pure neri fino alle spalle, chiaramente denutrita.
    - Non l’ho fatto apposta – sussurrò, dalle labbra viola come i fiori sparsi in giro.
    - Oh, ma lo so amore mio – rispose Nicola, abbracciandola con tenerezza – al buio può capitare. Ma io ti perdono, hai capito? Ti perdono. Perché quando due persone si amano il perdono è una cosa naturale.
    La caldaia bruciava a pieno regime, il calore iniziava a diffondersi.
    - Io non ti amo. E non accadrà mai. – sibilo lei, come se il calore le desse forza.
    Lui si girò e le sorrise.
    - Puoi ripetere quello che hai detto?
    - Mi hai sentito, pezzo di merda narcisista e psicopatico. Ammazzami e facciamola finita, ma non parlare d’amore, tu non sai nemmeno che cosa è l’amore…
    - NO! – urlò lui – sei tu a non sapere cos’è l’amore, spregevole e ingrata creatura. Ho passato la mattinata in giro per te, capito? Ti ho preso dei fiori freschi, le brioches calde e anche un regalo per natale che però deve ancora arrivare. Una catena nuova inguainata nella gomma, così puoi muoverti senza fare quell’orribile rumore. E tu mi ricambi con la tua freddezza, con la tua ingratitudine e i tuoi insulti.
    - Scusa la mia freddezza, ho un pelo un problema a essere calorosa, chiusa in una cantina a dieci gradi, al buio, a mangiare come i cani una volta al giorno, solo il cazzo di cibo che decidi tu e a cagare ghiaccioli in un secchio.
    - Amore mio, è necessario – rispose lui, improvvisamente calmo – ti eri invaghita dell’uomo sbagliato, sin dai tempi del liceo. Dovevo salvarti.
    - Devi salvare solo te stesso, pezzo di merda. L’uomo di cui mi sono invaghita è il padre di mio figlio, coglione, è mio mar…
    - NON… dire quella parola – la interruppe lui alzando un dito – non ti permettere. Tu sei destinata a me e alla fine di questo percorso prematrimoniale te ne renderai conto.
    Lei stava per ribattere con una sequela di insulti da record ma un lieve rumore che proveniva dalle scale fece voltare Nicola, che si diresse verso la porta.
    - Cazzo, ho lasciato la porta del garage aperta…
    Un rumore che a Laura apparve come una corda lanciata a una donna immersa nelle sabbie mobili fino al collo.
    - Hai ragione… a… amore! – sussurrò – ma a Nicola quelle parole parvero urlate al cielo e si fermò, tornando sui suoi passi.
    - Oh! Cos’hai detto, amore mio. Ti prego, ripetilo.
    La donna fissò i suoi occhi in quelli dell’uomo, cercando di mostrare l’espressione più adorante che riuscisse a esprimere.
    - Io… Sono stata una stupida… Non volevo vedere, non… riuscivo a credere al tuo amore.
    - Non credevi che avrei potuto amarti, nevvero?
    - Sì, non riuscivo a credere che un uomo del tuo spessore potesse davvero amare una sgualdrina come me.
    A quelle parole, Nicola fece un passo indietro e vide lampeggiare lo scherno sul viso della futura moglie.
    - Maledetta strega, io ti ammazzo – urlò l’uomo alzando una mano per colpirla, ma una presa ferrea lo bloccò da dietro e chiuse quella mano e anche l’altra in un paio di manette, e il novello sposo si trovò in meno di tre secondi placcato faccia a terra.
    - Ma che cazzo succede? Lasciatemi, questa è casa mia. Non conosco questa donna, pensavo fosse una ladra. Dovete credermi, sono una persona rispettabile…
    Laura cadde in ginocchio, sull’orlo di una crisi isterica. Guardava come in un sogno due carabinieri che trascinavano via il suo carceriere e in fondo alla stanza il proprietario della ferramenta che l’aveva vista crescere, immobilizzato dallo shock.
    Aveva trovato la porta del garage aperta e sapendo che il campanello non funzionava aveva chiamato il 112.

    Nicola venne infilato in macchina e il maresciallo si avvicinò al finestrino.
    - Nicola Argento, lei è in arresto per tanti di quei reati che a memoria non li ricordo nemmeno, fra i quali sequestro di persona, abusi, sevizie e riduzione in schiavitù. Ci vediamo in centrale, sarà bello farle vedere cosa significa prigionia.
    - Mi ha chiamato amore, – rispose lui, guardando nel vuoto – amore, come nel film.
    Mentre la gazzella si dirigeva in centrale non faceva che ripeterlo.
    - Mi ha chiamato amore.
    E sorrise al finestrino e al mondo che sfrecciava accanto a lui.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".

    Edited by mangal - 29/11/2020, 17:15
  5. .
    CITAZIONE (tommasino2 @ 29/11/2020, 13:12) 
    La vincita al gioco è come festeggiare tre volte di seguito il proprio compleanno, solo chi l'ha vissuta può capire lo smarrimento del protagonista. Che poi lui è fortunato, conosce solo quella sfaccettatura, ma il gioco ha mille bocche, mille aspetti, e chi ci cade dentro li esplora tutti. Mi viene in mente un lungo viaggio a Cagnes Sur Mer, solo per esplorare le perdite in un ippodromo diverso da quello della mia città. Come se per i giocatori sconosciuti fosse più facile passare alla cassa.
    Perdona la divagazione. Il tuo racconto fa capire bene il costo umano del vizio, anche se la reazione della donna appare esagerata, e pure quella dell'uomo, che sicuramente non ha la viltà del giocatore, tutt'altro, diventa tenero e commovente.

    eppure si rifà a una storia vera, sai?
  6. .
    eccoci qua di nuovo, a cercare di illuminare il buio del web con i nostri lampi letterari.
    beh, devo dire che la prima cosa che balza agli occhi vedendo gli autori è il gran numero di new entry.
    in ogni concorso c'è qualcuno, sempre, ma stavolta c'è una vera e propria invasione.
    nell'augurare loro buona gara e, successivamente, buona attività nel forum, faccio presente a tutti che avete tempo fino alla mezzanotte del 21 dicembre per commentare tutti i racconti, escluso il proprio.
    il mancato commento prevede l'esclusione dalla gara, come da regolamento.
    ringrazio tutti quanti per la partecipazione e vi lascio partire.
    un consiglio: anche se si chiama FLASH, cercate di non essere troppo veloci, leggete con calma, il tempo c'è.

    buon FLASH Bicipit a tutte/i.
    dimenticavo: c'è un altro racconto che potrebbe arrivare in giornata, attualmente è in fase di rettifica.
    0955tsq1ayuen14

    Edited by mangal - 29/11/2020, 10:35
  7. .
    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.
    E questo significa essere riconoscibili, venire fuori dalla massa di piatta felicità e mostrarsi a tutti. Non proprio a tutti, non tutti sanno guardare davvero.
    Ma per Adelaide individuarle è facile: famiglie infelici dalle quali qualcuno vuole scappare, per provare a essere felice.
    Adelaide è specializzata, la sua missione è strappare a quelle famiglie le donne che ne sono succubi. Donne vittime di un qualsiasi tipo di violenza, donne maltrattate, donne che hanno smesso di sognare. Donne che starebbero meglio senza quella famiglia.
    Adelaide non cerca mai i segni sul corpo, i segni sul corpo si nascondono, si nascondono sempre, e quando fai parte di una famiglia infelice non vuoi che la gente lo sappia, come se il solo farne parte fosse una colpa, una vergogna da nascondere, un segreto da non svelare a nessuno.
    L'infelicità come specchio di un fallimento personale, lo sa bene Adelaide.
    Allora i segni bisogna cercarli negli occhi. Occhi che non ricambiano mai uno sguardo, spesso rivolti in basso o spostati verso un qualsiasi remoto altrove. Se li incroci per caso, ci trovi l'abisso più scuro. È difficile liberarsi dall'abisso. Quasi impossibile. Quasi. Adelaide però è brava.
    Forse perché è una donna. Forse perché è empatica, intelligente, accogliente. Forse solo perché in quell'abisso c'è stata.
    Ci si è impanata per bene per tanto, tantissimo tempo.
    E per uscirne ha dovuto tradire se stessa, la sua mente e il suo cuore, ha dovuto forzare la sua mano e distruggerlo, quell'abisso, e insieme distruggersi un po' anche lei.
    Quando guardi a lungo nell'abisso l'abisso ti guarda dentro.
    Per uscirne ha dovuto armare la sua mano di odio e scagliarla contro il suo aguzzino, quell'uomo che le aveva promesso amore eterno e protezione -protezione da chi poi- che le aveva promesso che sarebbero stati felici insieme, ma felice lo era stato solo lui, nel suo modo perverso e senza ragionevolezza, dove punirla era l'apice di una giornata perfetta.
    Lei abbassava gli occhi o li spostava altrove. Abbozzava un sorriso, smetteva di sognare.
    Ma quel giorno era esplosa la sua pancia, il sangue le colava dalle gambe, e lui continuava a colpirla sul ventre, trattenendola all'angolo con le sue braccia che sembravano sempre più grandi, e il sangue scorreva e con il sangue quel figlio che non aveva voluto ma che già amava oltre se stessa. Il sangue scorreva, e il bagliore della lama che lui teneva in mano, pronto a squarciarle il ventre perché un figlio non potesse capitare mai più, quel bagliore l'aveva svegliata. Aveva scalciato un po', aveva afferrato la lama con le mani aperte, ferendosi senza pensarci e lui aveva mollato la presa, sconvolto. Adelaide era al di là del dolore, in quel momento. In quell'abisso bisognava dimenarsi non per essere felici ma per vivere.
    E lei si era accorta che voleva farlo, voleva vivere
    In quei pochi istanti di fermo immagine, Adelaide aveva girato il coltello, impugnandolo saldamente, e lo aveva affondato, con tutta la forza che le rimaneva.
    Giù dentro a quel mostro, “mi hai tolto una vita e ora mi devi la tua”, aveva pensato. Poi era svenuta.
    Al risveglio era in ospedale, un ventre secco contro un aguzzino morto.
    Un ventre che mai più avrebbe potuto dare la vita.
    Alla fine lui il suo obiettivo lo aveva raggiunto.
    E a lei cosa era rimasto?
    Dopo mesi di ospedale Adelaide aveva realizzato di essere sola al mondo, senza un lavoro, senza un soldo, nessun figlio in arrivo. “Meglio, molto meglio, se fossi morta anche io in quella pozza di sangue e occasioni perdute” aveva pensato, cinica.
    Ma non aveva pianto. Non avrebbe pianto mai più.
    Finchè aveva vita, nessun'altra donna avrebbe dovuto passare quello che aveva passato lei.
    Nessuna avrebbe dovuto mai, mai più pensare: “meglio una famiglia infelice che una famiglia morta. Meglio non sopravvivere. Meglio farsi andare bene quello che non va.
    Meglio abbassare la testa e mandare lo sguardo lontano, dove nessuno lo può prendere.”
    No, mai più, con Adelaide in giro.
    Lo sa bene, lei, che non è il dolore che ti infliggono che ti segna davvero, ma quello che infliggi tu. Quando ti fai aguzzino contro la tua stessa natura. Quello ti corrompe l'anima, quello non te lo potrai mai perdonare.
    Quando ti trasformi in quelli che ti hanno distrutta, anche solo per un istante, ti disfi un po'. Ti sfaldi e perdi qualche piccolo pezzo, e muti. Impercettibilmente, muti.
    Adelaide salva le donne prima che facciano quell'ultimo passo. Prima che armino la mano. Prima che si trasformino in quello che non sono per sopravvivere.
    E quegli occhi, che di nuovo splendono limpidi e fieri, spalancati sul presente, sono la missione che non voleva, la missione che non ha chiesto. Ma sono la sua missione, ora.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
  8. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Talvolta appaiono per qualche istante e riesci a vederli quanto basta per sentirti contento, gioioso, anche se non ne conosci il motivo esatto.
    Può capitare però che alcuni di questi granelli, quando vengono deliberatamente ignorati, diventino sassi, pietre, macigni. Duri e pesanti, possono franare…

    Era innegabilmente un buon periodo. Certo non si navigava nell’oro, ma avere lavoro fisso, una bella moglie e una bimba di pochi anni, faceva sì che la visione del mondo fosse piuttosto rosea.
    Tornare dal turno di servizio e venire accolti dal sorriso di Cinzia e dalle grida di gioia di Laura mi procurava quella che potremmo definire felicità; momentanea, ovvio, ma la felicità è fatta di attimi, non di una vita intera, e quegli attimi io li apprezzavo e me li godevo appieno.
    E la vita scorreva dolcemente tra casa e lavoro, come in ogni bel film, solo che un giorno accadde un fatto all’apparenza innocuo, ma che si sarebbe rivelato micidiale per gli anni a venire. I miei, ma anche quelli delle mie donne.

    Rientrando dal lavoro trovai la strada statale chiusa per lavori e presi quindi una via alternativa. Ne conoscevo parecchie, essendo nato e cresciuto in loco, ma decisi di prendere quella, purtroppo.
    Mi fermai a un bar tabacchi per fare scorta di sigarette e decisi di prendere un aperitivo.
    Col bicchiere in mano, cercando di gustarmelo con calma, presi a girare il locale, che solitamente non frequentavo, e mi trovai ad assistere a una partita di ramino rilancio.
    Un gioco che conoscevo ma che non avevo mai considerato nel modo in cui lo vedevo ora.
    Rimasi affascinato nel vedere le puntate, le giocate, i rilanci tipo poker, e il tempo mi volò.
    Quando mi resi conto dell’ora, salii sulla Vespa e mi diressi verso casa, dove ebbi il primo scontro della mia vita con Cinzia. Non sarebbe stato l’ultimo, ma non lo sapevo.

    «Ale, ma dove sei stato finora? Stavo pensando male, sai?»
    «C’era la strada chiusa per lavori, amore, ho dovuto fare un altro giro.»
    Mi guardò di sbieco ma non aggiunse altro. Non le servivano parole, bastavano i suoi occhi…
    Per un paio di giorni tornai regolarmente, arruffianandomi per farmi perdonare. Ci riuscii, ma il richiamo delle carte si faceva insistente e cominciai a frequentare quel bar.
    Dapprima in modo saltuario e per breve tempo, fino a quando capitò che mancava un giocatore e mi proposi.
    Vinsi seimila lire, una bella cifra all’epoca, considerando che giocavamo a cento lire al colpo. Ebbi fortuna. A casa, Laura era felice di vedermi, ma Cinzia non aprì bocca e sebbene provassi in tanti modi a farle dire qualcosa, cenammo in silenzio. Che tristezza…

    Ciò nonostante, il giorno dopo mi fermai di nuovo a giocare, e anche in quelli successivi.
    Era un venerdì, ora di cena, quando rientrai e trovai le mi due donne già a tavola. Le guardai, attonito.
    «È inutile che rientri di corsa, Ale, noi avevamo fame e abbiamo mangiato. Tu arrangiati.»
    Feci quanto suggerito e mi preparai qualcosa, ma appena mi sedetti a tavola, lei si alzò e cominciò a sparecchiare. Lo sguardo di mia figlia era eloquente: arrabbiatissima.
    Più tardi, a letto, cercai di aprire un dialogo, ma Cinzia cominciò a piangere e mi disse: «Quindi non ti basto io? Con chi ti vedi?»
    Rimasi sbalordito per un istante, poi sorrisi.
    «Ma no, tesoro, con nessuna. Non è come pensi tu» e le spiegai che giocavo a carte. A soldi.
    Pensavo di averla allietata e invece peggiorai la situazione.
    «Avrei preferito un’altra donna piuttosto che venire tradita col gioco…»
    «Ma io non ti tradisco, Cinzia.»
    «Oh, sì, che lo fai, Ale. Scegliendo il tavolo invece che noi due ci tradisci entrambe.»
    «Ora direi che stai esagerando, però…»
    «Vedi tu» ribatté. Poi si volse e provò a dormire.
    Mi sentivo combattuto. Una parte di me era consapevole del fatto che stavo dedicando poco tempo alla mia famiglia, ma un’altra parte, e in quel momento era la più forte, diceva che mi stavo semplicemente divertendo.
    E decisi di continuare a farlo.

    Per un buon periodo di tempo ignorai i comportamenti di Cinzia e Laura, fermandomi ogni giorno a giocare a ramino. Vincevo, perdevo, era un alternarsi di gioie e dolori, al tavolo. Ed ero talmente preso che non mi rendevo minimamente conto di quale danno stessi provocando. In pratica, in quel periodo, esisteva solo il ramino rilancio, oltre al lavoro.
    Una sera, rientrando, non trovai nessuno. Al momento pensai che Cinzia fosse andata a fare spesa portandosi Laura, ma appena entrato vidi un foglio sulla tavola.
    Stavamo bene insieme, una volta. Ora non più.
    Così c’era scritto.
    Mi arrabbiai.
    «Questo sì è un tradimento» esplosi, «non il mio!»
    Commisi un altro errore assurdo quando pensai di vendicarmi giocando ancora di più.
    Ogni giorno mi fermavo là. Al lavoro non vedevo l’ora di finire il turno per potermici recare. Cominciai a perdere sempre più, ad arrabbiarmi per nulla, e chi giocava con me se ne era accorto e alcuni mi provocavano di proposito, facendomi uscire dai gangheri e sbagliare le giocate.
    Mi volevano sempre al tavolo, sapendo che ci avrei lasciato parecchio.
    Ad aprirmi finalmente gli occhi furono due cose: l’estratto conto della banca, impietoso, e una busta arrivata lo stesso giorno contenente una foto di Cinzia e Laura. Ebbi un sussulto e scoppiai a piangere; non le vedevo e sentivo da due settimane, mi ero completamente estraniato, tuffandomi nei colori delle carte da gioco. E neppure mi ero mai chiesto dove fossero andate, visto che Cinzia non aveva parenti in zona. Forse da qualche amica…
    Presi il telefono e cominciai a chiamare quelle che conoscevo. Al quarto o quinto tentativo, non ricordo di preciso, mi rispose Elena e dopo che le ebbi chiesto se per caso fosse da lei, ripose: «Ma vergognati, Alessio, chiami dopo quindici giorni e vuoi che te la passi? Vieni a prendertela, se hai dignità.»
    Elena depose la cornetta lasciandomi solo col rimorso e ripresi a piangere. Almeno sapevo dov’erano.
    Ora però dovevo raccogliere tutto il coraggio di cui disponevo e andare da loro, non potevo non farlo, sarebbe stato come darsi l’ultima mazzata, quella finale.

    Parzialmente rigenerato da una doccia, tremando per la tensione mi recai a casa di Elena; suonai il campanello e la tenda di una finestra si spostò rivelando il viso di mia moglie. Vederla mi fece male al cuore e svenni.
    «Per me sta facendo finta…» sono le prime parole che udii al risveglio. Aprii gli occhi.
    «Mamma, è sveglio, mamma…» Laura.
    «Ale, ti senti bene? Chiamo il dottore?» Cinzia.
    Sorrisi, cercando al contempo di alzarmi da terra, ma le gambe tremavano, non mi reggevano. Piansi.
    La cosa più bella fu l’abbraccio della mia donna, quella che io avevo relegato in un angolo della vita, ormai, dimenticando tutti quegli attimi di felicità che mi donava ogni giorno, insieme alla nostra bimba.

    Alcuni giorni dopo, di ritorno dal lavoro, passai volutamente davanti al bar che mi aveva visto cadere così in basso. Mi fermai e diedi un’occhiata. Erano là, al tavolo, i miei compagni di vizio. Loro avevano solo la colpa di avermi accettato, eppure in quel momento li odiavo. Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva ancora pompare: “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”
  9. .
    È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie.
    “Questa sera, caro Dustin, abbiamo visite!”, disse Stefano mentre spignattava allegramente in cucina, un ridicolo grembiule a quadri bianchi e rossi a coprire il completo da lavoro dagli schizzi di sugo.
    Accoccolato sul mobile vicino al lavandino, senza degnarlo di uno sguardo Dustin continuò a leccarsi le zampe, chiedendosi per l’ennesima volta perché il suo umano non si cambiasse mai prima di mettersi a cucinare. “Per essere una persona così intelligente”, pensò il gatto, “ogni tanto ha davvero delle idee stupide”.
    Era chiaro che anche Stefano non faceva eccezione alla regola di cui sopra: il povero Dustin – sì, si chiamava così in onore di Dustin Hoffman, ma era convinto di essere molto più bello del suo omonimo bipede – si era sorbito innumerevoli cene a lume di candela, vagonate di diabetici discorsi smielati, miliardi di grattatine dietro le orecchie e moine da parte di donne giovani, più o meno simpatiche, che avevano giustamente capito di dover prima piacere al gatto di casa, e poi al padrone.
    In quelle occasioni, Dustin si era sempre comportato da perfetta spalla destra di Stefano: sfruttando il suo musetto irresistibile ed il suo pelo morbido, il gatto aveva testato le pretendenti del cuore del giovane scapolo. Il piano di azione era assolutamente collaudato e perfetto: all’arrivo della nuova ospite Dustin si strusciava delicatamente sulle sue gambe, incurante del fatto che di solito la donna indossasse pantaloni neri aderenti (proprio quelli su cui il pelo di un gatto rossiccio si posa benissimo e quasi brilla), tastando fin da subito il terreno.
    La reazione della bella veniva accuratamente analizzata: c’era chi non lo degnava di uno sguardo (male); chi mollava tutto e, accucciandosi senza ritegno, cominciava a toccarlo e sbaciucchiarlo (probabilmente peggio, Dustin si era sempre chiesto sulla base di cosa ritenessero che a lui facesse piacere essere avvicinato da una persona che prima di accarezzarlo non aveva neanche avuto la decenza di lavarsi le mani. E poi, diamine, si erano appena conosciuti!); chi sorrideva dall’alto e, dopo aver chiesto a Stefano il permesso, gli concedeva una carezzina sulla coda (e questa era la reazione che Dustin in assoluto preferiva, misurata ma cortese e disinvolta); chi cercava di scansarlo con la scarpa senza darlo a vedere (malissimo, a quel punto era impossibile che Dustin esprimesse un parere favorevole sulla nuova venuta).
    Nel corso della serata il gatto procedeva ad un’attenta analisi del comportamento di Stefano e della nuova possibile compagna; se le circostanze lo permettevano, si appollaiava su un punto in alto e da lì osservava come i due umani si rapportavano e passavano la serata. Occasionalmente, ma quella era la prova del nove e solo in poche ci arrivavano, Dustin tentava un approccio più diretto con l’umana femmina e si piazzava senza preavviso sulle sue ginocchia, sondando il terreno e valutando quanto questa fosse pratica coi felini.
    Al termine della serata, modulava il volume delle fusa per far capire a Stefano se gli fosse o meno piaciuta la pretendente: più era alto, ovviamente, più la fanciulla era stata gradita. Dustin era assolutamente convinto che Stefano pendesse dalle sue labbra, e che la circostanza che quasi nessuna fosse più ricomparsa fosse dovuta al fatto che le sue fusa non avevano mai raggiunto un volume che indicasse la sufficienza. Del resto, pensava il gatto, non sembrava che il suo umano se ne facesse una malattia: lo vedeva sempre sorridente, seppure stanco per il lavoro, e non gli dava l’impressione di sentirsi solo. Stefano aveva Dustin.
    Nel complesso, si poteva dire che Dustin fosse contento del suo ruolo di confidente e aiutante: era il solo, gongolava fiero, ad avere accesso ai sentimenti di Stefano, l’unico che conoscesse fin da subito cosa l’umano pensasse di quegli incontri.
    “Sai Dustin”, continuò Stefano mentre faceva rosolare le scaloppine di pollo, “questa potrebbe essere la persona giusta”.
    Frase assolutamente trita e ritrita, Dustin l’aveva sentita altre mille volte. Il gatto non si scompose, si limitò a guardarlo per un attimo soltanto. “Adesso mi farà un breve cappello introduttivo sulla ragazza”, pensò Dustin sistemandosi meglio sul mobile e facendo ondeggiare la coda.
    “Si chiama Sandra”, disse infatti Stefano, “ha 33 anni. Lavora nella banca vicino al mio studio, quella all’angolo”.
    “La frequento da qualche mese, è venuta un giorno a chiedere informazioni perché vuole cambiare la cucina del suo appartamento e mi ha chiesto un preventivo. E niente, da cosa nasce cosa, abbiamo chiacchierato un po’, ci siamo visti altre volte per parlare di questa benedetta cucina, abbiamo pranzato assieme parecchie volte… l’ho conosciuta un po’ meglio e mi sembra una bella persona. Ecco, una bella persona”.
    Dustin a quel punto alzò gli occhi e fissò con maggiore attenzione il suo umano: questo non faceva parte del solito schema, Stefano non si lasciava mai andare a considerazioni così avventate, ancora prima dell’aperitivo peraltro! E mai, che Dustin ricordasse, Stefano aveva frequentato per mesi l’ospite prima di invitarla a cena!
    Sentendosi particolarmente offeso per essere stato lasciato fuori ma cercando di non darlo a vedere (perché gliene parlava solo ora?!), il gatto si concentrò sul suo pelo, cercando di renderlo ancora più pulito e morbido di quanto già fosse. A quanto pareva questa era una serata più speciale delle altre, o almeno di ciò era convinto Stefano; Dustin aveva bisogno di tutto il suo carisma per effettuare una valutazione completa e approfondita della donzella.
    Sandrà arrivò alle 20.10, scusandosi per il ritardo dovuto al traffico del venerdì sera. Capelli rossicci, alta più o meno nove volte Dustin (in taglie umane – Dustin aveva imparato a fare la conversione – circa un metro e sessanta), paffutella ma nel complesso minuta, la donna aveva dei begli occhi verdi e un sorriso ampio e allegro; a Stefano comparve un sorriso imbambolato sul viso, un’espressione che Dustin non aveva mai visto prima sul volto del suo amico.
    Senza farsi troppo notare, il gatto si avvicinò all’umana e, come da copione, iniziò a strusciarsi sulle sue gambe, per l’occasione coperte da un paio di stivali marroni più o meno passabilmente in abbinamento con un vestito blu scuro (Dustin aveva un certo occhio in fatto di moda).
    “Oh! Questo è Dustin, vero? Il gatto di cui mi hai parlato!”, disse Sandra sorridendo e guardando verso Dustin.
    Stefano annuì mentre le prendeva il cappotto e lo appendeva nell’attaccapanni: “E’ lui sì, il mio bel gatto ciccione! Attenzione, ha la tendenza a marcare il territorio mollando chili di peli sulle persone che entrano in casa”.
    Alla parola ciccione Dustin voltò rapidamente la testa verso Stefano: ma come osava?! Ma davvero?! Qui la faccenda si stava mettendo davvero male per l’umano, prima per mesi non gli diceva niente della sua vita amorosa e poi lo definiva ciccione!!! Fece per soffiare, ma l’improvvisa distrazione provocata da Stefano gli aveva fatto perdere d’occhio Sandra, che nel frattempo si era chinata e con la mano lo stava accarezzando dietro le orecchie.
    Dustin percepì distintamente l’odore di sapone alla vaniglia che la mano della donna emanava (almeno erano mani pulite); Sandra aveva una mano morbida, con qualche anello di troppo che si impigliava sui peli, ma nel complesso non era malvagio come tocco. Dustin decise di darle una sufficienza, seppur non del tutto piena.
    Dopo poco, Sandra si alzò e si diresse verso la sala, dove Stefano aveva apparecchiato per l’aperitivo e la cena. Dustin notò che il suo umano grazie a Dio si era tolto quel ridicolo grembiule a quadri, e che con la sua camicia azzurra faceva la sua figura.
    I due si sedettero a tavola e iniziarono a chiacchierare del più e del meno, dalla sua postazione sul divano Dustin poteva sentirli senza dover allungare le orecchie. Si vedeva che non era il loro primo incontro, la conversazione scorreva leggera e non c’erano silenzi imbarazzati.
    Arrivati al secondo, Dustin decise che Sandra non gli dispiaceva: certo, aveva una voce un po’ acuta e per i suoi gusti gesticolava troppo con le mani, ma tutto sommato si poteva dire che il suo istinto felino gli suggeriva che fosse una persona di cui ci si potesse fidare. Una bella persona, come aveva detto l’umano.
    Quando Stefano si alzò per andare a prendere il dessert, Dustin decise di testare la sua teoria: il gatto si avvicinò a Sandra e, dopo una bella strusciata, le saltò sulle gambe. La donna apparve momentaneamente colpita da quella mossa, ma dopo pochi secondi iniziò ad accarezzare Dustin, sorridendo tranquilla. Ottima reazione.
    Più tardi, quando Sandra se ne fu andata (non dopo un casto bacetto sulle labbra da parte di Stefano – Dustin fu costretto a girarsi per non vomitare), Stefano finalmente si ricordò di lui e, mentre sparecchiava, gli chiese: “E allora? Cosa ti sembra?”.
    Dustin non era del tutto convinto, la mano troppo ingioiellata e l’eccessiva sicurezza per un primo appuntamento lo lasciavano un po’ perplesso. Eppure, non poté fare a meno di notare lo sguardo trasognato di Stefano, sguardo che era sicuro di non aver mai visto prima. Sospirando, per non tarpare le ali al suo amico fece delle fusa rumorosissime.

    ***


    Erano ormai passati sei anni da quando Sandra era entrata nelle loro vite. Inutile dirlo, la cucina di casa sua non era mai stata rifatta e l’appartamento era stato venduto in pochi mesi. Sandra si era trasferita da loro in un tempo record.
    La loro vita era ovviamente cambiata, le abitudini di Stefano non erano state più le stesse e il tempo che dedicava a Dustin era diminuito. Ma la cosa che più aveva scombussolato le carte era certamente quella creaturina piccola che dormiva placida sul divano davanti al camino. Lorenzo.
    Aveva cinque anni, e Dustin doveva ammettere che ormai doveva condividere con lui lo scettro del potere in casa. Aveva gli stessi capelli rossicci e gli occhi verdi della mamma, ma il fisico era quello di Stefano. Adorava Dustin.
    Il gatto non l’avrebbe mai miagolato ad alta voce, ma ricambiava l’affetto per quel bimbo che sembrava non aspettare altro che trovare un momento per giocare con lui. Sicuramente gli faceva fare più attività fisica di quanta ne facesse prima.
    Accoccolandosi dietro all’incavo delle ginocchia di Lorenzo, il suo posto preferito per dormire, Dustin sospirò: quella sera di sei anni prima si era sforzato di fare le fusa a volume alto per segnalare il suo apprezzamento nei confronti di Sandra, che in realtà non aveva totalmente approvato. Era convinto, tutto sommato, di aver fatto bene: col senno di poi erano una bella famigliola.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
  10. .
    E’ una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba aver bisogno di una moglie.
    Parafrasando si potrebbe anche dire che è una verità universalmente riconosciuta che una scapola… no, aspetta, com’è che si dice? Una zitella… oh Dio. Una… single! Ecco: che una single in possesso di un ampio paio di tette debba aver bisogno di un marito.
    Mi alzo dal pavimento e mi metto davanti allo specchio. Studio per un momento l’immagine riflessa poi tiro dentro la pancia, mi alzo sulle punte dei piedi e con le mani spingo il seno verso l’alto.
    Non male. Diciamo che l’offerta dovrebbe soddisfare la domanda.
    Adesso non mi resta che trovare il posto dove pascolano gli scapoli.

    -E quello là in fondo al bancone?- Domanda Anna indicando con la testa un punto indefinito.
    Mi volto con noncuranza e scruto nella penombra del locale.
    - Ma chi, quello coi capelli neri tutti unti?- Lei ridacchia mordendo la cannuccia.
    - Ma che unti. Ha il gel.
    - Il gel andava negli anni 80. E’ rimasto indietro, il ragazzo.
    - Ma piantala. Quello non era nemmeno nato negli anni ‘80. E’ che ha uno stile un po’ retro.
    - Ma per piacere…
    Scrollo le spalle e lascio vagare lo sguardo sull’umanità che affolla il locale; i tavolini sono occupati da coppiette o da gruppi di amici e solo un paio di ragazzi sono al bancone con un bicchiere in mano a fare, apparentemente, quello che stiamo facendo noi: cercare compagnia.
    Il posto ha aperto da poco ed è abbastanza recente da attirare i “giovani bene” sempre in cerca di novità. Con l’arredamento moderno, asettico e musica inascoltabile ad alto volume è l’esatto opposto di un locale accogliente.
    Siamo qui da quanto basta per ritrovarmi con un drink annacquato dal colore indefinito che non ho il coraggio di finire, ma nessuno si è ancora avvicinato per attaccare bottone. Rimesto con la cannuccia nel bicchiere pensando di proporre ad Anna di andarcene, quando lei mi posa una mano sul braccio per attirare la mia attenzione.
    - Clara, dai, alzati. Stanno cominciando.
    - Stanno cominciando, cosa?
    - Questa è la serata ‘Speed Date’ e ieri ci ho iscritto. – Mi informa entusiasta saltellando sulle punte dei piedi. – Dai, andiamo.-
    Mi prende per mano e ci facciamo largo attraverso un gruppo di ragazzi accalcati davanti a una porta sul retro del bancone. Sulla soglia, due buttafuori spuntato i nostri nomi da una lista, ci porgono un paio di tesserini numerati e ci fanno entrare tra le grida e i fischi di chi è rimasto fuori.
    La stanza, illuminata con luce soffusa, è arredata come un’aula dei tempi che furono, con un grosso tavolo a un’estremità e una ventina di tavolini con due sedie contrapposte disposti in cerchio a distanza regolare.
    - Uno speed date? Ma come t’è venuto in mente?
    - Dai, sarà divertente! Pensa: venti ragazzi faranno la fila per conoscerci. Quando ci ricapiterà una cosa del genere? - Batte le mani entusiasta guardando la sala riempirsi lentamente.
    - Spero mai.- sospiro mentre lo stomaco mi si stringe per l’ansia. E’ proprio una brutta botta di socializzazione da mandare giù tutta in una volta.
    – Sediamoci là. – dice indicando due postazioni a circa a metà del cerchio.
    Poso il talloncino numerato sul tavolo e guardo i “fogli di valutazione” su cui dovrò recensire i candidati con un asettico “si/no/forse”. Sono sempre meno entusiasta di fare questa esperienza, ma ormai sono in ballo, e mi tocca ballare.
    All’orario convenuto i buttafuori ci chiudono dentro, gli chaperon prendono posto al grosso tavolo rettangolare e ci spiegano il regolamento: ogni “appuntamento” durerà solo 3 minuti e mezzo, ovvero il tempo necessario per farci una prima impressione, poi suonerà una campanella e gli uomini scorreranno di una postazione in senso orario. Quando il giro sarà stato completato consegneremo tutte le schede di valutazione e loro, entro 12 ore, forniranno a ciascun iscritto i contatti delle persone che hanno ricevuto un “Sì” reciproco.
    La campanella suona e un ragazzo sorridente prende posto davanti a me.

    Non pensavo che chiacchierare fosse così impegnativo: stiamo cercando tutti di fare una bella prima impressione e ho la faccia indolenzita per il sorriso di circostanza che continuo a mantenere.
    Sta andando bene, ma non benissimo: fino ad ora ho segnato solo un un paio di “forse” e tanti “No”.

    Driiin.
    -Ciao Sono Gianni.
    -Piacere, Clara.- Si siede a gambe larghe, si appoggia alla spalliera della sedia, osserva il proprio riflesso sullo schermo scuro del telefonino e si sistema una ciocca ribelle.
    –Tutto a posto?- chiedo.
    -Dato che sono una persona seria, ci tengo a informarti che le donne vengono anche da altri paesi per venire a letto con me. Come puoi immaginare, non sono un tipo monoclonale.
    - Vuoi dire che non sei monogamo? – Lui annuisce specchiandosi sul vetro dell’orologio.
    - Sei intelligente e anche abbastanza bella per stare con me: hai il naso un po’ storto, ma niente che un buon chirurgo non possa sistemare. Oggi do una svolta alla tua vita: per me sei un ‘Sì’.-

    Driiin.
    -Ciao, sono Enrico.
    -Clara.
    -“Alla tua salute, bambina”- dice sollevando un drink davanti a me. Lo guardo corrugando la fronte.
    -Dai! Non la sai? Accidenti. “Quello che abbiamo qui è un fallimento della comunicazione”.- Aggiunge con un sorriso. Scrollo la testa e allargo le braccia. Capisco che sono citazioni ma non mi dicono niente.
    -Sono un cinefilo. Ho una tv da 70 pollici e una stanza piena fino al soffitto di DVD suddivisi per genere. “Nessun posto è bello come casa mia”.
    -Ah ecco. A me piacciono i film romantici: ho visto “C’è posta per te” almeno venti volte.- Enrico annuisce, fa un’espressione dolce, mi prende una mano tra le sue e dice: -“ Un giorno ti spiegherò tutto. Nel frattempo, sono qui. Parlami.”- scuoto negativamente la testa e lui si ritrae, deluso.
    – E’ una frase del film che hai visto almeno venti volte. Non sei stata molto attenta, vero?

    Driiin.
    -Ciao sono Marco.
    -Clara.
    -E’ la prima volta che partecipo a una cosa del genere e non sono sicuro che mi piaccia.
    -Vero. Io preferisco conoscere qualcuno in un locale e fare due chiacchiere davanti a un cocktail o a un pranzo informale.- Lui storce la bocca e mi guarda di sotto in su.
    -Mmmm... per me invece mangiare insieme è un evento molto intimo che non riesco a condividere con chiunque. – Sorride, imbarazzato. – Devo conoscere molto bene una persona prima di condividere un pasto e anche in quel caso non mi piacciono i ristoranti pieni di gente che mangia tutta assieme. E’ una situazione molto volgare. Non trovi?
    - No, io non ho difficoltà in questo senso: tante volte, all’università ho mangiato gomito a gomito con perfetti sconosciuti, seduta su uno strapuntino, tra una lezione e l’altra. – Confesso con un sorriso. – Anzi, condividere un pasto è un modo per conoscere qualcuno: si mangia chiacchierando di tutto e di niente.
    - No, no. Durante il pasto non parlo. Sono concentrato sui sapori e mi godo il momento.
    - Accipicchia. I pranzi di nozze saranno un vero incubo, per te.- sdrammatizzo con una risata.
    - Eh sì. In genere li evito.

    Driiin.
    -Ciao, sono Antonella, Anto per gli amici.
    -Clara. Scusa ma dovresti essere seduta, non spostarti da un tavolino all’altro. – Mi guardo attorno, confusa ma tutte le donne sono al proprio posto. Lei ride scuotendo una massa informe di capelli scuri che le ricadono sulle spalle.
    - Anch’io cerco compagnia, ma non maschile.
    - Ah d’accordo. Premetto che non sono omosessuale: non vorrei farti perdere tempo.
    - Non è detto. Sapessi quante non sapevano di esserlo..- mi dice facendo un occhiolino malizioso.
    - Dopo tanti uomini non mi dispiace fare due chiacchiere con una donna: oggi ho conosciuto davvero parecchi stramboidi.
    - Sono uomini che nessuna si è voluta accollare e che adesso vagano senza meta. “Una donna ha bisogno di un uomo tanto quanto un pesce ha bisogno di una bicicletta.” Raccontami di te: studi? Lavori?
    - Sono alla perenne ricerca di un lavoro stabile e mi mantengo con lavoretti saltuari. Tu?
    - Ho un lavoro stabile, ma non ti dirò altro: non vorrei che ti mettessi con me solo per i soldi – dice ridendo.
    - Tranquilla. Cerco l’ammore come dice la mia amica – e con una mano indico Anna intenta a chiacchierare con un tipo riccioluto.
    - Ho già parlato con lei e così adesso conosco anche te un po’ di più.- dice fissandomi intensamente. – Hai una bella aura: l’ho notata quando stavo parlando con la tua amica.
    - Grazie, ma io non credo a queste cose.
    - Non serve che tu ci creda: l’aura esiste a prescindere. Non è che se tu non credi alla forza di gravità, per questo te ne andrai in giro svolazzando a mezz’aria come un palloncino. La tua aura ha questi blu e gialli ben bilanciati con quel tocco di rosso che non guasta. Potresti essere una persona interessante.
    - Beh, grazie. Mi piace pensarlo. Tu cosa fai nel tempo libero?
    - Tante cose. La settimana prossima vado a una mostra d’arte al San Camillo. Ti andrebbe di venirci? Come amiche…
    - Perché no ?- rispondo marcando un ‘Si’ a fianco del suo numero sulla scheda di valutazione.

    Driiin.
    Se Dio vuole è finita. Ci alziamo, portiamo tutti i nostri fogli compilati al tavolo rettangolare e usciamo alla spicciolata.
    - Allora, com’è andata? Hai segnato qualche ‘Sì’? – Chiede Anna prendendomi sottobraccio
    - Qualcuno. E tu?
    - Un paio. Eric e Giuseppe non erano niente male, no? Però c’era un tizio che voleva assolutamente che mi rifacessi le orecchie.
    - Sarà stato quello che voleva rifarmi il naso!- ridiamo insieme e usciamo dal locale.

    Sono passati quattro mesi da quel pomeriggio allo ‘Speed date’ in cui ci siamo conosciute e abbiamo pensato bene di festeggiare con una gita a Firenze. Nella calda serata estiva siamo appoggiate a un parapetto sul lungo Arno, con le spalle che si sfiorano.
    Capita a volte che una persona ti piaccia a prescindere dalla religione, dalla nazionalità e dai pregiudizi che ci accompagnano. Capita che una persona abbia un fuoco dentro e una luce negli occhi in grado di sovvertire le leggi del caos. Per dirla come Anto, capita che due auree si integrino alla perfezione.
    E quando queste auree si integrano, il sesso d’appartenza è solo un inutile dettaglio perché quella è la persona che vuoi avere sempre vicino. Proprio lei, con i suoi difetti e i suoi pregi e ti rendi conto che l’involucro non ha importanza perché si tratta di una perfetta fusione di anime.
    Anto si allunga e mi bacia con un bacio lungo e appassionato che mi provoca un brivido lungo la schiena.
    Le poso la mano sul collo e la tiro più vicina.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
  11. .
    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo. Pensò Lucia. Allora, triste per triste, avrebbe scambiato volentieri la propria situazione con quella di Massimo, se non fosse che poi lui avrebbe dovuto stare lì… no, non glielo poteva augurare. E non c’era proprio nessuno al mondo che potesse prendere il suo posto! Così l’astuccio finì sbattuto a terra lasciando nell’aria odore di legno e grafite.
    No, cazzo, mi sono distratta di nuovo! Si forzò a guardare il libro di storia. Maledetta frenesia da coca, aveva voglia di tutto tranne che studiare!
    «Ho bisogno di farlo adesso!» scrisse a Massimo.
    Risposta: «Hai visto che ore sono?» Sì, le tre del pomeriggio, Cazzo! Anche il libro volò per la stanza in un turbinare di polvere.
    Messaggio vocale: «Ti odio!» Panico. “Cancella per tutti”. Altro messaggio: «Non è vero, ti amo!» Ma per il momento doveva arrangiarsi da sola.
    Lucia si vestì con la felpa da battaglia color viola vomito, che odorava di sudore vecchio e foglie nuove proprio come i suoi lunghi capelli castani. Passò davanti a tutti gli specchi di quella casa sfigata senza poster alle pareti. Il suo culone pretendeva di essere guardato e commiserato; si fermò un attimo ma non aveva tempo di farsi altro male. Uscì.

    Ormai tutti i lampioni vicini li aveva marchiati. Doveva entrare nel parchetto col rischio di farsi sgamare; Lucia assaporò la sensazione, si sentì onnipotente, sorrise. Raccolse un sasso e se lo portò alle labbra per annusarlo.
    Ecco il bersaglio. Non passava nessuno; mirò, lanciò con la sinistra. Un rumore metallico e il sasso cadde a terra senza far danni. «Merda!» La frenesia si mutò in agitazione.
    Occhiata veloce in giro, secondo tentativo, mancato. «Ma che ci ho oggi?»
    Terza occhiata, più ampia stavolta; ancora nessuno. Lanciò, mugolando come una tennista. Rumore di vetri in frantumi e Lucia saltò di gioia. Solo un attimo e si tuffò soddisfatta tra i cespugli. Il cuore le batteva in gola e la testa girava, in bocca un sapore amaro e familiare, nel naso l’odore selvatico degli arbusti.
    Uscì a testa bassa, spaventando un cane e la vecchia che lo accompagnava a pisciare. A Lucia sfuggì una risata isterica e senza senso, impossibile da trattenere; e più la vecchia la guardava male, più le veniva da ridere. Se ci fosse stato anche Massimo chissà che cosa le avrebbero fatto?

    Un’anziana signora imboccò la strada giusta. Massimo le si avvicinò e la baciò con la faccia tosta di Giuda: «Ciao zia, come stai? Aspetta che ti aiuto.»
    La vecchia sconosciuta guardò perplessa il ragazzo, che prese la busta della spesa e si incamminò con lei continuando a parlare del nulla.
    Lucia li raggiunse senza farsi notare e l’aria di un profumo antico le riempì le narici. Avvicinò la mano alla borsetta e accarezzò il metallo freddo delle rifiniture; fu attraversata da un brivido di piacere quando afferrò il portafoglio e lo sfilò. Si morse il labbro sorridendo, poi prese la busta della spesa dalle mani del suo ragazzo e si allontanò indisturbata quasi saltellando.
    Lucia stava controllando il bottino: pensò che quasi quasi i surgelati e la carta igienica di marca li avrebbe potuti portare a casa. Arrivò Massimo che si rollò una canna. «Solo cazzate!» Sentenziò, buttando la busta nel cassonetto. A Lucia faceva schifo fumare ma l’odore no, anzi le piaceva un sacco; quasi come quello delle banconote.

    «Tiziana, portaci due cioccolate calde, subito!» Urlò Massimo a sua mamma.
    Le due tazze profumate attraversarono la stanza, insieme alla casalinga bionda in tenuta da shopping, pronta per tornare in cucina a mandare baci, gattini e citazioni nella chat delle mamme di WhatsApp.
    Massimo si avventò. Lucia invece mescolava senza convinzione: era quasi ora di cena e sapeva cosa sarebbe successo a casa se non avesse mangiato; ma Cazzo! se ne aveva voglia, altro che zuppa precotta. Un concentrato di sapore destinato a depositarsi nel suo culone o chissenefrega, l’avrebbe vomitato nel cesso.
    Amava il bagno a casa di Massimo: odorava di muschio ed era caldo, poi era grande come una camera e c’erano sia la vasca che la doccia. Ogni cosa era al suo posto e le ceramiche non avevano macchie. Due dita infilate in gola ed ecco che tutto quell’ordine aveva cambiato colore e odore. Peccato dover pulire tutto, prima di tornare a casa.

    Che scusa aveva inventato Giorgio prima di cena: Troppo stupida? Troppo grassa? Troppo bella? Lucia si era fatta una bomba di ero e coca, ricordava solo Troia! e la sberla perché tanto finiva sempre così. Troia! e la sberla: per il lucidalabbra in offerta, il cinque nella verifica, le scarpe di Pittarello. Domani ci ho l’interrogazione di storia. Meglio se mi addormento adesso. Ma forse quella sera Giorgio l’aveva lasciata in pace. Non c'era passato né presente né futuro nella sua testa, tutta la sua vita era mescolata in un unico, enorme attimo senza inizio né fine. Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso," riflettè, "sarebbero potute andare decisamente peggio."
  12. .
    - Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
    ‒ Che roba è?
    ‒ L’incipit… ‒ Si ferma. Chiunque egli sia, deve aver colto la mia perplessità, perché chiarisce: ‒ L’inizio di un romanzo famoso.
    ‒ E cosa sarebbe un romanzo?
    ‒ Una storia lunga. Scritta in un libro.
    ‒ Famoso dove? Mai sentito niente del genere.
    A onor del vero, devo dire che di solito non mi esprimo in modo così poco educato, ma qui, in questa bruma della terra del sogno, mi sento un po’ diversa, e queste conversazioni con un uomo che vedo e non vedo, reso indistinto dalla perenne foschia, le sento strane ma, allo stesso tempo, normali e familiari, anche se non capisco perché. Non che mi importi capirlo. Ci ho rinunciato da un pezzo. Sono diventata saggia, dopo la prima cura.
    Sono sempre stata obbediente e ossequiosa alle regole. Così un giorno, alla quotidiana domanda del mio Supervisore, “Tutto bene? Qualcosa da riferire?”, non mi è passato per la mente di non parlare dei sogni che avevo iniziato a fare. Nemmeno sapevo che si chiamassero così, sogni, me l’ha detto il Supervisore. Mi ha ascoltata con attenzione.
    Niente che non si possa risolvere, ha concluso infine. Troppo tempo libero. La mente deve essere occupata in ogni istante. La cura migliore è il lavoro.
    Non che prima non ne avessi delle tonnellate, ma da quel momento sono stata sepolta di lavoro.
    Accompagnato dalla pressante richiesta di un minuzioso controllo. Tutto deve essere perfetto, ripete sempre il Supervisore. Nulla può essere concluso se non è rifinito in ogni particolare, sottolinea.
    E io sono obbediente. Controllo e perfeziono fino alla sfinimento. In un lavorare eterno, senza limiti, senza fine.
    Sono brava e obbediente. Ma quando i sogni sono ricominciati, ho pensato bene di tenermeli per me.
    E queste assurde conversazioni senza scopo e senza tempo, devo ammettere che sì, un po’ mi inquietano, ma insieme un po’ mi divertono, credo si dica così. Non conoscevo questa parola, divertire, non l’avevo mai sentita e, anche adesso che l’uomo me l’ha insegnata, non la capisco molto bene, ma credo sia adatta per la sensazione che provo quando parlo con lui, di qualcosa che mi solletica il petto e mi fa alzare gli angoli della bocca, che mi fa sentire di potere essere diversa da come sono quando lavoro. Che mi fa sentire di potere osare, nel chiedere e nel rispondere. Senza paura. Senza la necessità che tutto debba avere per forza uno scopo.
    Quello che poi oggi ha tirato fuori, mi sembra davvero senza senso.
    ‒ Non ti dice niente? ‒ C’è un’ombra di attesa, nella voce dell’uomo.
    ‒ Mi dovrebbe dire qualcosa?
    ‒ Speravo fosse una crepa…
    Come dicevo, assurdo. Specialmente qui, in un luogo che un luogo non è, dove nulla ha consistenza.
    ‒ Le crepe sono nei muri.
    ‒ Non solo. Ci sono muri diversi. Dove si fa una crepa e il muro si sgretola, può attecchire un seme, possono crescere radici potenti e profonde. Fare crollare il muro, con un po’ di tempo e fatica.
    Mi sveglio di botto.
    Aspetto ad aprire gli occhi. Ho paura di perdere la frase che l’uomo del sogno ha chiamato incipit. Me la ripeto e me la ripeto in testa, per ricordarla, ma ho la sensazione di fare qualcosa di riprovevole.
    Tra l’altro, una frase mai sentita prima, che mi sembra non significhi assolutamente niente. Senza alcuna importanza per me.
    Che continuo a rotolarmi in testa per tutto il giorno.
    Felicità, infelicità. Nulla che c’entri con me. Felicità, infelicità: due categorie senza senso e inappropriate alla mia vita.
    Io esisto, e altro non c’è.
    Perfezione, imperfezione. Le parole mi appaiono all’improvviso in testa, e non capisco perché, cosa c’entrano con gli altri pensieri.
    Quattro palline che mi rotolano nella mente, senza che io ne capisca il motivo.
    Imperfezione. Crepa. Crepe. Crepe nei muri. Ma questa volta sono muri reali. Sono quelli del corridoio che percorro per andare su e giù tra gli uffici. O io non le avevo mai viste prima, o si sono aperte oggi, e devono essere anche preoccupanti, considerata la velocità con cui è comparsa una squadra di muratori che si affannano per chiuderle.
    Lavorano in fretta e in silenzio, lo sguardo basso che non incrocia mai il mio.
    Mi piacerebbe rimanere un po’ a osservarli, ma vengo richiamata di corsa dal Supervisore.
    A sera i muratori sono ancora lì: sembrano quasi rincorrerle, le crepe, perché si vedono chiaramente i segni della stuccatura fresca su alcune, quelle che forse si erano create prima, ma nel frattempo se ne devono essere formate altre, una sottile ed estesa ragnatela.
    Grazie a quella, vedo la porta, al centro.
    La porta deve esserci sempre stata, per forza: non possono averla aperta oggi nel muro.
    Una porta dall’aria anonima, davanti a cui devo essere passata innumerevoli volte. Senza mai notarla.
    Ora invece mi appare come un’evidenza, e non posso più fare a meno di cercarla con lo sguardo.
    Mi sorprendo a desiderare di aprirla. Un desiderio vago, poco convinto, tanto che non ci vuole molto a fermarlo, basta il carrello delle pulizie lasciato lì davanti.
    La porta non deve essere importante, inizio a pensare, se è sempre sfuggita alla mia attenzione. Pian piano mi scivola via dalla mente, perennemente sommersa dal lavoro.
    Non incontro più l’uomo dei sogni.
    Non sogno nemmeno più, per un pezzo.
    Poi una notte sprofondo. Letteralmente: un attimo prima sono lì, stesa sul letto, quasi addormentata, l’attimo dopo sono immersa negli abissi dell’oceano.
    Flutto, leggera, senza peso. Respiro. Respiro sott’acqua. Respiro bene come non ho mai respirato prima.
    Muovo lenta le mani, l’acqua scivola tra le dita.
    E attorno a me nuotano mostri. Creatura marine immense, maestose, pacifiche. Perché sento, so che non mi faranno del male. Non so come, ma io conosco loro e loro conoscono me.
    Mi sveglio annaspando. Ora, qui, mi manca l’aria.
    Nel corridoio degli uffici, trovo uno stuolo di muratori affannati a riparare nuove crepe nel muro. Strisce di nastro bianco e rosso si intrecciano e quasi coprono la porta, su cui è comparso un enorme cartello di divieto di accesso.
    La notte, mi ritrovo immersa nella foschia del sogno.
    Dell’uomo sento solo la voce. Per un attimo. Ma quello che dice è forte e chiaro: trovami.
    Non dice dove cercarlo, ma io, non potrei dire come né perché, lo so.
    Non mi faccio domande per le quali non ho risposte. Tutto questo è strano; più che strano, assurdo, ma allo stesso tempo sento che ha un senso. Non lo capisco, non lo conosco, ma so che c’è.
    Il desiderio di aprire la porta ora è diventato decisione.
    Se c’è bisogno di farla apparire come un ostacolo invalicabile, forse non è vero che non è importante.
    Questa volta non mi fermano le proteste dei muratori, i richiami del Supervisore.
    Strappo il nastro, mi attacco alla maniglia. La porta fa resistenza.
    Come so che non è chiusa a chiave? Che è solo la mia decisione a fare la differenza? Un’altra cosa che non ho modo di spiegare, ma sento che è così.
    Esulto, quando si apre.
    Uno sgabuzzino. È solo un bugigattolo buio. Vecchie scope, ripiani impolverati, scatole rovinate. L’unica lampadina è fulminata.
    Eppure sono arrivata qui. Eppure tutto mi ha portata qui. Qualcosa ci deve essere, anche se non lo vedo.
    Oltre i muri.
    Muri che devono cadere. Imperfezione. Crepa. Crepe. Crepe nei muri.
    Felicità, infelicità. Perfezione, imperfezione. Le quattro palline ricominciano a rotolare.
    ‒ Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo ‒ dico ad alta voce nel ripostiglio buio.
    Perché ho mentito all’uomo del sogno. Non è vero che queste parole non significano nulla, per me. Ho negato più che ho potuto. A lui. A me stessa.
    Non è vero che non dicono nulla. Dicono molto. Dicono troppo. Raccontano cose di cui non ho voglia di parlare.
    Il ripostiglio si dissolve. Sono all’imbocco di un lungo corridoio in penombra, su cui si affacciano altri corridoi, porte e porte. Sulla parete, la crepa. Quella che viene da fuori. Continua qui dentro, si protende fin dove non riesco più a vederla. La seguo. Corridoio. Corridoio. Scale in discesa. Corridoio. Nuove scale. Sempre in discesa, sempre più ripide.
    Non ci sono più muri. Sembrano pareti di roccia. Non ci sono più porte, ma inferriate, a chiudere celle. Umido, freddo, oscurità. Sempre più in basso.
    Finché la crepa termina. Dentro una cella.
    Un uomo è accasciato sul pavimento, quasi raggomitolato. Non ho bisogno di chiedere chi è.
    L’inferriata resiste solo qualche istante. La apro.
    Entro e mi inginocchio rapida di fianco all’uomo.
    Ha gli occhi chiusi. È ferito e dolorante. Geme, quando gli sfioro la fronte, ma apre gli occhi e si sforza di sorridermi.
    ‒ Ha funzionato ‒ mormora.
    ‒ Non capisco molto di quello che succede, ma sì, se stai parlando di quei tuoi strani discorsi e della crepa, sì. Come facevi a saperlo, se nemmeno io lo sapevo?
    ‒ Le ferite… sono crepe. Aprono strade, ponti. Abissi.
    Scuoto piano la testa: ‒ No. Voglio dire come fai a sapere che quella è una ferita.
    ‒ Perché io ti conosco, e tu conoscevi me.
    ‒ Chi sei tu?
    ‒ Qualcuno di cui ti fidi.
    So che è vero. Lo so ma non lo ricordo. E quello che non ricordo mi manca. La nostalgia mi travolge.
    ‒ Perché ti hanno fatto del male?
    Solleva un angolo della bocca in un sorriso lieve e ironico: ‒ I miei tentativi di intrusione non sono stati apprezzati.
    ‒ Per questo ti hanno imprigionato?
    Chiude gli occhi qualche istante, poi li riapre: ‒ Non sono prigioniero.
    ‒ Questa è una prigione…
    ‒ Ma non la mia. Io sono venuto a cercare te. Per aiutarti a trovare la via d’uscita.
    ‒ Da cosa?
    ‒ Da questo mondo in cui credi di vivere. Creato per te. Una prigione senza sbarre. L’unico modo per controllarti.
    ‒ Non è possibile… Sembra tutto così reale.
    ‒ Lo è. Cosa è reale e cosa non lo è? Non sono reali i pensieri, i sentimenti e le emozioni? Non ci fanno compiere azioni? Ci sono differenti tipi di realtà. Se qualcosa non si vede e non si tocca, non significa che non esista.
    ‒ Controllarmi… Perché?
    ‒ In te c’è un grande potere, ma è un potere che può spaventare. Viaggiare tra i mondi, esplorare gli abissi, sia del bene che del male, parlare con i mostri, costruire ponti tra le sponde del buio e della luce. Mostrare l’orrore. Creare bellezza. Ora, fammi la domanda più importante.
    ‒ Chi mi ha chiuso qui?
    Ricordo la risposta ancora prima che lui parli, ma ho bisogno di sentirlo.
    ‒ Sei stata tu. Ti sei rifugiata qui. Quello che tu puoi creare non nasce su ciò che è lucido e perfetto, ma ha bisogno di terra su cui crescere, la terra che si ferma nelle crepe, crepe che scendono nell’oscurità e nascono dalle ferite. Non è sempre facile accettarlo. A volte fa paura. A volte sembra tutto troppo difficile.
    Ora ricordo. Sì, ho avuto paura. Di essere chi sono. Che ora però mi manca.
    Sfioro il volto pesto dell’uomo: ‒ Mi dispiace…
    ‒ Guarirò. Andrà tutto a posto, appena usciremo di qui. Sei pronta?
    Annuisco: ‒ Come?
    ‒ Nello stesso modo con cui hai creato la crepa. Ma ora siamo alla fine della storia: cerca una conclusione.
    La trovo. La penso. Le pareti iniziano a svanire, comincio a vedere qualcosa al di là, ma ancora resistono.
    ‒ Ad alta voce ‒ mi incoraggia.
    Le parole risuonano nella cella, poi vanno lontano: ‒ “Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.”

    Edited by mangal - 29/11/2020, 12:37
  13. .
    Tutte le famiglie felici si somigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
    Anna chiuse il libro che aveva appena finito di leggere, dopo essere tornata a rileggerne la prima pagina, come faceva sempre quando le dispiaceva abbandonare una storia e avrebbe voluto tornare a rileggere daccapo.
    Sarà stata l’impressione di trovare un’eroina con il suo nome, o la scena del treno e della protagonista che scivolava tristemente tra le rotaie, o il fatto che anche la sua famiglia da tempo le sembrava infelice, comunque fosse da quel libro non riusciva a staccarsi
    L’aveva trovato pochi giorni prima nella libreria del nonno, l’aveva sfogliato attentamente e poi l’aveva portato a casa di nascosto, perché il nonno non permetteva a nessuno di toccare i suoi libri, ma, se li prendeva Anna, sembrava non accorgersene.
    Lei lo sapeva che il nonno la lasciava apposta da sola davanti all’ enorme libreria che occupava tutte e quattro le pareti del suo studio e arrivava fino al soffitto, e le metteva alcuni libri in bella vista che occhieggiavano invitanti, perché lei se li portasse via di soppiatto.
    Era un gioco iniziato fin da quando Anna era piccola e sapeva a malapena leggere: quando andava a trovare il nonno c’erano sempre dei libretti invitanti in bella vista sullo scaffale basso della libreria e così, mentre lui era distratto da una telefonata o da un impegno qualunque, Anna ne prendeva uno e poi qualche giorno dopo glielo riportava, riponendolo di nascosto nella libreria.
    Il gioco stava continuando anche a distanza di un decennio: nessuno poteva toccare i libri del nonno, divieto assoluto per chiunque, anche per Anna, ma succedeva sempre che lei restasse da sola davanti a quella meravigliosa libreria: il tempo di scegliere un libro e metterlo in borsa.
    E qualche giorno prima era toccato a “Anna Karenina”, la sua sfortunata omonima, romanzo letto in un giorno e una notte.

    “Anna alzati da quel letto, sono già le otto, lo so che sei stata tutta notte a leggere invece di dormire, peggio per te. Alzati e non farmi ripetere quello che devi fare oggi: riordinare e pulire la tua camera, ritirare i vestiti in lavanderia, darmi una mano in cucina…”
    “E poi le chiamano vacanze”, bofonchiò Anna tra sé alzandosi dal letto e trascinandosi in cucina, dove sua mamma stava già spadellando per l’esercito di parenti che sarebbe arrivato il giorno dopo per il pranzo di Natale.
    Si versò una tazza di caffè, aggiunse poco latte, prese il pacchetto di Oro Saiwa sfidando le ire di suo fratello – ma perché quel cretino pensava che quei biscotti fossero suoi? Aveva forse un reddito personale che gli consentiva di comprarsi dei biscotti? Difficile a tredici anni – e inzuppò due biscotti nel caffelatte.
    “E lascia stare i biscotti di tuo fratello, potresti evitare di litigare con lui almeno la vigilia di Natale?”
    Eggià, le responsabilità da sorella maggiore, ma che gran rottura…
    Rimise a posto i biscotti dopo averne mangiati almeno altri quattro - questione di principio - e disse a bruciapelo a sua madre:
    “Mamma, ma noi siamo una famiglia felice?”
    Elena guardò sua figlia e si chiese cosa volesse dire la sua bambina sedicenne. Bambina si fa per dire, gli occhi scuri che la fissavano con intenzione le avevano già detto tutto: Anna lo sapeva.
    Prese tempo: “Perché me lo chiedi?”
    “Ho letto un libro del nonno: dice che tutte le famiglie felici sono uguali e le infelici invece no.”
    “Ah, hai letto Anna Karenina. Bel romanzo… è una storia inventata, e pure di un paio di secoli fa, lo sai…E’ una frase come un’altra: Tolstoj avrà voluto iniziare il suo romanzo con una frase a effetto”, ribatté Elena senza guardare sua figlia e continuando a lavorare l’impasto con energia.
    “Torna per Natale papà?”
    “No, non riesce, il lavoro in Wisconsin si è complicato e non ce la fa a tornare per le feste.”
    “Mamma…” voleva dirglielo che lo sapeva, che l’aveva sentita al telefono raccontare alla zia che ormai avevano deciso: papà sarebbe rimasto in America con “quella”… e a quel punto la mamma aveva abbassato la voce.
    Ad Anna era sembrato di averlo sempre saputo che suo papà non sarebbe più tornato da quel viaggio iniziato mesi fa: le sue telefonate si erano diradate nel tempo e Anna ora capiva perché.
    “Credo sia morto”, aveva detto l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze a Valentina, la sua migliore amica.
    “Ma che dici Anna, tuo padre sta benissimo, è solo in America per lavoro.”
    “No, no, è proprio morto, Vale, per me è morto davvero.”
    E se ne rese conto in quel momento, mentre sua mamma non la guardava con le mani nell’impasto del ripieno dei ravioli, che come ogni anno dovevano essere fatti in casa per Natale, ma quale Natale…
    Suo papà era peggio che morto: si era dimenticato di lei e se ne stava felice e beato in Wisconsin con “quella”.
    “Mamma…vado dal nonno, devo riportargli il libro prima che si accorga che manca e si arrabbi con me.”
    E scivolò veloce dalla sedia della cucina in camera sua, si vestì in un attimo e uscì quasi correndo, senza rispondere a sua mamma che le stava dicendo di tornare presto. O qualcosa di simile: Anna non stava più ascoltando.

    Il nonno abitava in un palazzo a pochi isolati di distanza e Anna, con il libro in borsa, camminava sul marciapiede ghiacciato con passo spedito, senza fare particolare attenzione a quello che le accadeva intorno: le vetrine illuminate, la gente per strada che correva frenetica a fare gli ultimi acquisti, qualche fiocco di neve o di ghiaccio che volteggiava nell’aria. La perfetta viglia di Natale.
    Ma quale Natale… con suo padre in America con “quella”, sua mamma che impastava ripieni e faceva finta di niente, un fratello insopportabile e un esercito di parenti in arrivo, con cui avrebbe dovuto fingere per tutto il giorno insostenibile allegria, be’ sì, il nonno ci sarebbe stato… ma non bastava: quel Natale non era Natale.
    Non si sarebbe prestata a quella farsa, che se lo facessero loro il bel Natale in allegria, lei sarebbe sparita: sarebbe andata in Alaska, o finita sotto un treno. Come Anna Karenina.
    Nonostante fosse triste le venne da ridere: ma quanto era scema, lei non era l’eroina del romanzo che aveva in borsa; non era in Russia, non aveva abbandonato marito e figlio per un giovane ufficiale che forse la tradiva, e soprattutto buttarsi sotto un treno le sembrava un finale troppo melodrammatico, non adatto a una anonima sedicenne, per quanto in crisi, perché i suoi genitori si stavano separando.
    Però forse non sarebbe stata del tutto una cattiva idea: la Stazione Centrale di Milano bloccata la vigilia di Natale, perché una giovane Anna si era buttata sotto un treno con il romanzo di Anna Karenina in borsa…
    Valentina però non l’avrebbe mai perdonata, rovinarle così le vacanze di Natale con il funerale della sua migliore amica… no, meglio non fare arrabbiare Valentina, quella era capace di raggiungerla anche nell’Aldilà con le sue battutacce e prediche.
    Anna era talmente presa dai suoi pensieri, che nemmeno si accorse di avere oltrepassato il palazzo dove abitava il nonno e di essere finita in una strada laterale che non aveva mai percorso, una vicolo tra le case in cui improvvisamente erano scomparsi i negozi illuminati e la folla frettolosa.
    Quando se ne rese conto, fece un repentino dietro-front per tornare sui suoi passi, e, senza poterlo evitare, andò a sbattere contro un tizio che evidentemente non si aspettava la sua inversione di marcia, perse l’equilibrio e per poco non cadde a terra.
    “Mi scusi” disse senza nemmeno guardare il tizio in faccia, diventando rossa dalla vergogna e scansandosi velocemente.
    “Anna?”
    Il tizio aveva una voce e si stava rivolgendo proprio lei.
    Anna sollevò lo sguardo e non ci voleva credere: quella voce era di Nicola quello di terza B, la classe di fianco alla sua. Ed era proprio il tizio che da mesi Anna osservava attentamente, stando bene attenta che nessuno se ne accorgesse, quando a ricreazione erano tutti in corridoio a chiacchierare e a fare gli scemi.
    Nessuno se ne accorgeva tranne Valentina, ovvio, ma quella sapeva sempre tutto di Anna, come poteva nasconderle che le piaceva da morire quel tizio alto, magro, con i capelli rossi e la faccia allegra, sempre appoggiato al calorifero che leggeva, anche tra la baraonda della ricreazione, libri dai titoli misteriosi?
    “Tu sei Anna, vero? Seconda B. O sei sua sorella gemella, e io sto facendo la figura del cretino…”
    Anna rise: “No, no, niente sorella gemella, sono io, e tu sei…” “Nicola, terza B, la classe di fianco alla tua, non so se mi hai mai visto, ma se a ricreazione ti fermi per qualche istante in corridoio e cerchi il calorifero… ecco sono io. Cioè, non il calorifero, ma il tizio appoggiato al calorifero... ma ti è caduta la borsa”, e mentre lo diceva le raccolse la borsa e il libro scivolato fuori.
    “Anna Karenina…”, mormorò sorridendo e rivolgendo ad Anna due occhi azzurri limpidi come laghetti di montagna.
    “Sì, be’, lo devo restituire al nonno…” cominciò a farfugliare Anna… ma che figura da deficiente, chissà cosa stava pensando Nicola di lei: la ridicola ragazzina di seconda che lo guardava nel corridoio a ricreazione…e perché sapeva il suo nome? Di certo perché aveva riso di lei con i suoi amici.
    Gli strappò il libro di mano: “Devo andare”, disse mentre già si stava allontanando velocemente.
    “Dove scappi – la rincorse Nicola- se vuoi ti accompagno da tuo nonno, io adoro quel romanzo, è stato il primo di un autore russo che ho letto…”
    Inutile sfuggire a quei laghetti azzurri che la guardavano con aria allegra, e anche Anna non vedeva l’ora di raccontare a qualcuno la storia di Anna che si butta sotto il treno, e di piangerne e riderne con lui.
    E di raccontargli anche la sua storia, la storia di Anna che il giorno della viglia di Natale vuole scappare da tutti, e che non arriverebbe a buttarsi sotto un treno, non è il tipo, ma è così difficile a volte essere Anna, e avere sedici anni… e di piangerne e riderne con lui.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    “Nel complesso”, rifletté, “sarebbero potute andare decisamente peggio.”
  14. .
    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
    Rimase ancora un attimo a fissare quella frase, che con il tempo era diventata un po' il motto della sua vita, anche se presto non poté più farlo, perché le parole iniziarono a vacillare.
    Lacrime, ancora lacrime.
    Le sentiva ammiccare dalle ciglia, scivolare silenziose sulla guancia, seguire le rughe profonde per scendere giù, a morire sulle labbra, lasciando quel sapore incerto, salato.
    Come il salmastro del mare.
    Chiuse il libro e lo appoggiò sul tavolo.
    Un sospiro si fece largo tra le sue labbra e fuggì via; il vecchio lo inseguì come s’insegue un sogno.
    Victor sopportava con difficoltà i momenti in cui non poteva contenere la malinconia, e la tristezza diventava un’onda nera che avvolgeva anima e cuore.
    Non avrebbe dovuto preoccuparsi più per niente, nemmeno per lei, eppure gli faceva una gran pena.
    Per sempre felici e contenti… Tra le lacrime sorrise.
    Aveva letto la storia di sua madre mille volte e ancora adesso rimaneva un mistero come avesse potuto renderlo così felice: o forse era tutto semplice per chi vive con il solo compito di rendere felice gli uomini che ama.
    Con un gesto della mano azionò i comandi della sedia a rotelle, spostandosi dalla vetrata per voltare le spalle al mare che furioso e immenso sbatteva con impeto sulla scogliera sottostante.
    Lui lo aveva sempre odiato, il mare. Sentiva che aveva un debito con lui, troppo grosso da saldare.
    Il mare è troppo orgoglioso, non si può capire.
    No, non si può.
    Pensieri, solo pensieri: li sentiva volteggiare intorno alla testa come rapaci intorno alla preda, ansiosi di scovare qualche crepa nella barriera che aveva issato contro il passato, per tuffarsi voraci a banchettare.
    Sciò, via, maledetti… Lasciatemi in pace…
    Il rumore della chiave nel portone riuscì a distrarlo dalle sue riflessioni. Fece un profondo respiro cercando di darsi il tono di un normale vecchietto annoiato, ma mentre i passi svelti risalivano il corridoio, sentì ancora qualcosa agitarsi dentro. Chiuse gli occhi e si concentrò su quella camminata: era incredibile come riuscisse a indovinarne l’umore da l’eco della falcata. Incedere svelto, deciso. Passi che rimbombavano sul parquet, rumore di tacchi larghi, forse un paio di stivali. Forse quelli nuovi che si era comprata la settimana prima. Gli piaceva e al tempo stesso lo inquietava quel rumore: era il modo che aveva di annunciarsi, di introdursi nella sua giornata. L’eco si spense appena fuori della porta della stanza. Un attimo d’esitazione, giusto il tempo per confezionargli un sorriso. Dai passi aveva intuito che era nervosa.
    La porta si aprì, e lei fece capolino con la testa: gli splendidi capelli rossi brillarono come una fiammata, mentre sul viso giovane e liscio si apriva il sorriso più dolce del mondo.
    “Ciao” disse lui.
    Lei alzò la mano per salutarlo. Entrò chiudendo la porta alle spalle e si avvicinò alla sedia a rotelle curvandosi per abbracciarlo e lo strinse forte, fortissimo. Aveva gli stivali nuovi.
    “Basta, dai… Mi fai male!” disse sorridendo, perché in realtà non avrebbe mai potuto fargli del male.
    La ragazza lo guardò negli occhi, scrutando ogni piega delle rughe, cercando qualcosa nelle ombre di quel viso scarno. Victor notò la sua ansia nella fronte increspata da rughe di preoccupazione e uno strano senso di colpa serpeggiò in lui. Abbassò lo sguardo, ma lei con delicatezza tirò su il vecchio mento con la mano bianca in modo che la guardasse e segnò.
    “Sì, sì, certo che ho dormito bene!”
    Sopracciglio alzato.
    “Non ti posso nascondere niente, vero?”
    Lei inclinò un po' la testa di lato come per inquadrarlo meglio, mentre un velo di tristezza calava sullo splendido viso, senza offuscare la magia dello sguardo. Poi le mani iniziarono a muoversi veloci.
    “Sì, me l’hai già detto ieri, lo so. Adesso smettila di preoccupati, va bene?”
    Lei annuì, cercando di sorridere. Si voltò e andò a prendere la busta di plastica che aveva lasciato vicino alla porta, la mise sul tavolo e iniziò a disporre il contenuto sul piano sgombro del tavolo, riempiendolo velocemente. Confezioni di siringhe, scatole di medicinali, un pacco di pannoloni da adulti. Il vecchio intuiva la sua schiena sotto il maglione beige, vedeva la massa ribelle dei capelli ondeggiare di qua e di là, sentiva la rabbia che aveva dentro da come sbatteva gli oggetti sul tavolo. E notò la meticolosa perfetta inutilità con la quale ripiegò il sacchetto di plastica vuoto prima di chiuderlo nel cassetto. Cosa che fece con un colpo secco. E rumoroso. Poi vide l’impercettibile sobbalzo delle spalle e a quel punto fu sicuro che stesse piangendo. Spinse la sedia a rotelle nella sua direzione e le appoggiò una mano sulla schiena facendola sobbalzare. E quando si voltò Victor si rese conto di stare osservando una madonna torturata.
    “Smettila, ti prego” e le prese le mani, forte.
    La ragazza si arrese, e fu strano vederla scuotere la testa in un segno di negazione mentre cercava di segnare ancora qualcosa. Poi, all’improvviso, come se si fosse svuotata di qualcosa all’istante, si lasciò cadere ai suoi piedi inginocchiandosi sul pavimento e cingendo forte le sue gambe.
    “Mamma, ti prego…” ma lei scosse la testa con furia iniziando a piangere nel suo strano pianto silenzioso, senza nemmeno un sospiro, senza il minimo accenno al più piccolo rumore. Niente. Niente di niente.
    Un bagliore improvviso entrò nella stanza: un raggio di sole aveva trovato la forza di forare il cielo gonfio di nuvole nere e regalò l’ultimo guizzo di luce prima di essere risucchiato nel buio di quel tramonto invernale. Un attimo appena che bastò a incendiarle i capelli di riverberi rossastri che si spensero subito dopo, appena quel raggio improvviso lasciò definitivamente la stanza.
    “Come sei bella!” sussurrò Victor passando la mano scheletrica tra i capelli scompigliati. Erano morbidi, lunghi e ribelli e gli piacque la sensazione che provò a quel tocco. Lo fece stare bene.
    Quella chioma esagerata era il luogo segreto dove trovava conforto e consolazione, da sempre. Era l’ultima cosa che toccava quando era bambino, addormentandosi con le ciocche ancora annodate tra le dita; era la visione terribile di quando si arrabbiava, lingue di fuoco furiose che si agitavano intorno alla testa; erano il particolare che la rendeva unica tra mille teste nella folla. E adesso, nel poco tempo che ancora gli rimaneva da vivere, erano l’unica cosa che gli potesse dare un minimo sollievo. Insieme a lei, naturalmente.
    Ariel alzò gli occhi sul viso provato del vecchio: ne spiò il colorito spento, le macchie, le increspature cupe e profonde e nella sua mente si accavallarono pensieri di una tristezza infinita. Quelli erano gli ultimi momenti di Victor, lo sapeva.
    Scosse la testa piano e rimase ai suoi piedi, come uno straccio ormai inutile gettato a terra.
    Rimasero in quella posizione fino a che le ombre della notte non li avvolsero nell’oscurità: occhi blu e spalancati in occhi senza più colore, entrambi impreparati ad affrontare quel momento così grande.
    “Adesso vai via, mamma.”
    Gli occhi blu e immensi si sgranarono. La chioma rossastra si mosse di qua e di là.
    “Ariel, ti prego, Ne abbiamo già parlato.”
    Lei si alzò piano, tirando su con il naso. Una mano ancora intrecciata a quella del figlio, mentre l’altra svolazzò in aria stanca, come una farfalla morente.
    “Non è colpa tua, lo sai.”
    Lei disegnò nell’aria il segno più bello, il più importante.
    “Anch’io ti amo e ti amerò per sempre, mamma.”
    La ragazza sussultò e fece il gesto di gettarsi ancora su di lui, ma si trattenne.
    E veloce come un battito di ciglia si voltò e uscì.
    “Addio, principessa” sussurrò Victor al legno lucido della porta.
    Si avvicinò alla finestra e la vide esitare un attimo di fronte alla portiera, entrare in macchina e andarsene via, senza mai voltarsi indietro.
    Il vecchio deglutì e lasciò un lungo sospiro scappare via, mentre il corpo svuotato si abbandonava allo schienale della sedia.
    Era andata via. Non sarebbe più tornata.
    La sua parte nella favola infinita di Ariel finiva lì. Lei avrebbe per sempre avuto sedici anni, e per sempre sarebbe stata condannata ad amare gli uomini, amanti o figli. Nella sua natura appassionata avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro, brillando in eterno, mentre intorno a lei i grandi amori della sua vita avrebbero ceduto alla morte, diventando ombre.
    Fuori la luna aveva trovato uno spiraglio e brillava tra le nubi. Il mare, un po' più calmo, mandava le onde a infrangersi senza pietà sulla costa, regalando alla notte spruzzi argentati che ammiccavano nel buio come i sorrisi di mille sirene.
    “Che vita fantastica…” sussurrò Victor e chiuse gli occhi.
    Il respiro divenne più lento, mentre il petto si alzava appena a ogni respiro.
    Stava scivolando via, eppure si sentiva felice, senza sapere il perché.
    Oppure il motivo era semplicemente lei.
    Sarebbe andato via, ma era convinto che Ariel se la sarebbe cavata alla grande. Avrebbe trovato un nuovo uomo da amare, un nuovo figlio da crescere con tutto l’amore del mondo.
    E nel loro limitato per sempre quegli sconosciuti sarebbero stati felici.
    Lei: e vide i suoi capelli e il suo sorriso.
    Lei: e tutto si tinse di una nuvola rosa.
    Lei: e il modo tutto strano che aveva di essere ironica.
    “Pensa se tu fossi stato il figlio di Belle!” gli aveva segnato un giorno, e poi risero fino a piangere.
    Le labbra si piegarono nell’ultimo sorriso.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
  15. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.

    L’uomo aprì la porte e scese dalle scale.
    Ci vediamo lunedì sera, tesoro, comunicò alla moglie.
    Lavorava a Lyon, al consolato generale d’Italia, proprio a due passi dall’ingresso del Parc de la Tête d’Or, e aveva l’abitudine di tornare a Milano una volte al mese, per non lasciare soli a lungo dei genitori ormai anziani.
    Era allergico agli aerei e scendeva in treno col diretto Milano Lione in partenza dalla stazione di Part Dieu alle 17.55 e arrivo a Milano Porta Garibaldi alle 22.55.
    Se ci riusciva occupava un posto in mezzo alla vettura centrale, vicino al finestrino lato marcia, sistemava la giacca nel posto libero accanto e la borsa in quello difronte, con la speranza che il treno non si riempisse abbastanza da indurre qualcuno a chiedergli di toglierli.
    ‒ È libero? ‒ Domandò poco prima della partenza una voce femminile, né giovane né vecchia, acuta ma gradevole.
    Lui alzò lo sguardo, e si trovò di fronte una ragazza di sì e no venticinque anni, di aspetto piacevole e dagli occhi tristi: gli parse alta, i capelli castani le cadevano sulle spalle coperte dal giaccone scuro e pesante aperto a metà sul davanti.
    ‒ Sì rispose infastidito ‒ e abbozzò un sorriso di circostanza, che significava, trovi tutti i sedili liberi che vuoi proprio qui davanti.
    Ma lei sembrò non accorgersene, atteggiò una smorfia simile a un sorriso, si sfilò il soprabito e prese posto.
    Ha un buon profumo, pensò lui. Certo meglio che una vecchia madamin, cercò di farsi coraggio.
    E riprese le sue letture, contento del silenzio della vicina.
    Dopo neanche un quarto d’ora la confusione scemò in un ronzio confuso, il treno aveva lasciato il riparo della stazione, le luci si erano fatte soffuse, la città aveva lasciato il posto alla campagna.
    Concentrato nelle sue letture non si accorgeva che tutti parlavano al telefono o vi picchiettavano sopra in modo compulsivo. Tutti tranne lui e la sua vicina.
    ‒ Ne vuole? ‒ Disse la ragazza dopo un po’, e gli offrì una Alpenliebe.
    Lui si voltò e, alla tenue luce dei diffusori notturni, incrociò occhi chiari che sembravano chiari e un bel viso agitato da reconditi pensieri.
    Una delle conseguenze di un lungo viaggio era quello di agevolare gli incontri, alle volte piacevoli, molte altre meno.
    ‒ Mi chiamo Clara ‒ si presentò.
    ‒ Olmo ‒ la imitò.
    ‒ Olmo? ‒
    Ne aveva fin sopra i capelli delle domande causate quel nome e teneva sempre pronto uno stuolo di risposte fra cui selezionarne una che potesse esser buona a seconda della categoria dei richiedenti.
    ‒ Chi amava Novecento? Il papà o la mamma?
    Sorrise, non erano molte le persone che intuivano la giusta fonte al primo colpo.
    ‒ Che poi Olmo è un omaggio alla Rivoluzione Francese ‒ riprese lei.
    La scrutò con la curiosità di chi nota un particolare nuovo in un paesaggio noto.
    ‒ Sì, Bertolucci non l’ha scelto a caso. Però, e solo quando sono in viaggio, mia moglie mi chiama Addie.
    ‒ Quindi piacere di conoscerti, Addie. Fai spesso questo viaggio? ‒ Gli domandò passando al tu.
    ‒ Sì ‒ rispose, laconico nel tentativo di far desistere il suo interlocutore.
    ‒ Anche tu odi gli aerei?
    L’uomo annuì increspando le labbra in una smorfia simile a un sorriso.
    ‒ Non hai voglia di parlare, vero? Io incontro sempre qualcuno che non riesce a far a meno di raccontarti la propria vita ‒ aggiunse, con un accenno che nascondeva insofferenza.
    Molto spesso, è vero, rispose, e chiuse il volume che aveva in mano girandosi a tre quarti per poterla guardare.
    ‒ Per quale ragione, secondo te?
    ‒ La maggior parte della gente ha paura del silenzio ‒ disse - e non sa come gestirlo. Ma il desiderio di comunicare è innato.
    ‒ E non credi che invece influisca l’opportunità di sfogarsi senza il timore di esser giudicati? Magari essere capiti, consolati anche se per un breve tratto?
    ‒ Fa parte dello stesso desiderio di comunicazione ‒ fece, provando a incasellare quella considerazione in uno schema a lui congeniale.
    La ragazza annuì poco convinta e poggiò le spalle allo schienale.
    ‒ Una buona lettura? ‒ Riprese dopo un po’, assorta e di nuovo triste come quando si era seduta a lui vicino.
    Lui le mostrò la copertina, col titolo dell’opera e il nome dell’autore a lettere argentee.
    ‒ Insegni? ‒ Gli chiese, con voce spenta.
    ‒ Sono un funzionario del consolato generale di Lione.
    Clara sorrise senza voltarsi, socchiuse gli occhi e sembrò provare ad addormentarsi.
    Il treno oltrepassò Bourgoin e puntò verso Sudest in direzione Chambéry.
    ‒ Dove siamo? ‒ Gli domandò dopo un paio d’ore. Il treno si era fermato e una zaffata di freddo gelido era entrata nella carrozza dalle porte aperte.
    Saint Jean de Maurienne. Stanno scendendo dei passeggeri.
    ‒ È rimasta quasi vuoto osservò ‒ contrariata.
    Lui scrollò le spalle e non ritenne necessario rispondere.
    ‒ Sei sposato da molto? ‒ Gli chiese, girandosi verso di lui.
    ‒ Quasi vent’anni.
    ‒ E non ti pesa vivere insieme alla stessa persona da tanto tempo?
    ‒ Ormai abbiamo imparato a non farci del male.
    ‒ Leggi libri tanto impegnati per piacere o per provare a trovare risposte? ‒ Gli chiese a bruciapelo.
    ‒ Sono un corroborante, mi aiutano a vivere ‒ la corresse.
    ‒ Non è più importante dare un senso alla vita? ‒ Come alla morte, aggiunse dopo un istante.
    ‒ Per la maggior parte dei comuni mortali, sì. Ma forse è proprio questa ossessiva ricerca di senso a indurci a non riflettere sulla vera essenza delle cose. Forse che cercano un senso gli animali per vivere? Solo l’uomo lo fa. E tu?
    Si decise a farla lui una domanda.
    ‒ Studio, il Progetto Erasmus, sai... e vivo. Almeno tento. È un momento davvero no. Mi sento proprio giù ‒ gli rivelò con una voce sottile quasi tremante, flettendo lo sguardo.
    ‒ Problemi di cuore? Provo lui a stemperare la tensione percepita nella voce.
    ‒ Si potrebbe anche metterla così...
    E a lui sembrò che Clara aspettasse una sua replica.
    Ma aveva appreso a trincerarsi dietro il silenzio e non gli andava per nulla di perdersi tra i problemi familiari, o angosce esistenziali o chissà che altro, di una ragazzina, di un’estranea.
    In silenzio si rintanò sotto la giacca che gli faceva da coperta.
    Lui si svegliò che dovevano essere oltre il tunnel del Frejus, a Bardonecchia. La neve abbondante, ai bordi della strada, rifletteva il candore della luna che illuminava il paesaggio fitto di montagne e boschi coperti dal silenzio del vento. Sentì la mano di Clara cercare la sua e si voltò piano verso lei. Dormiva, ma lo stringeva forte, come se avesse paura.
    Ricambiò quella stretta, e iniziò a carezzarle la mano, finché quell’ansia non parve scomparire e lei calmarsi e serrare con minore intensità.
    ‒ Stai bene? ‒ Le chiese dopo che il convoglio aveva ripreso la lenta discesa verso Torino.
    Si voltò verso di lui e si accorse che ancora gli stringeva la mano. ‒ Ho lasciato il mio ragazzo, si giustificò.
    E la luna colorò le sue lacrime.
    ‒ Avrai avuto dei buoni motivi, la confortò.
    ‒ Non c’era altra via, iniziò scrollando la testa. Ma è stato doloroso. Straziante. Come se avessero strappato una parte di me.
    ‒ Da come parli sembra che tu ne sia ancora innamorata.
    Questa volta fu lei ad annuire in silenzio.
    ‒ Ci si confida con gli estranei perché non ti giudicano ‒ ripeté quanto lei gli aveva detto all’inizio, come si trattasse di un invito.
    Clara si strinse al suo braccio, come una bambina spaventata.
    ‒ Io sto morendo, gli rivelò.
    E lui fu percorso da un brivido.
    ‒ Tutti moriamo.
    ‒ Ho un tumore alla ghiandola lacrimale. Un brutto melanoma. È raro, un caso ogni milione di persone, mi hanno detto. Come vincere la lotteria, al contrario. Non è operabile, né trattabile. Non arriverò all’estate mi hanno assicurato.
    La odiò con tutto se stesso per quello che le stava rivelando, ma l’abbracciò d’istinto e la strinse forte a sé.
    Sentiva le lacrime di Clara scorrere e le sue braccia stringersi forte intorno al suo corpo.
    A Torino Porta Susa il treno si fermò per qualche minuto, pochi i passeggeri a scendere e ancora meno a salire.
    ‒ C’è un vagone ristorante in coda ‒ le propose.
    Era quasi le venti, e l’umidità della pianura dava al freddo una maggiore consistenza.
    Entrarono abbracciati nell’ultima carrozza in cui sembrava che si fossero radunati tutti i viaggiatori del convoglio.
    ‒ Prendi qualcosa di forte, le consigliò ‒ ma come se fosse un ordine.
    ‒ Di solito non bevo ‒ gli confidò. Figurarsi con un estraneo, aggiunse con una smorfia, e quella parola quasi le si strozzò in gola. Ma ormai nulla ha più importanza.
    ‒ Non esiste la possibilità che si siano sbagliati?
    ‒ Tre diverse diagnosi, ma tutte uguali. Che faccio adesso?
    Era quasi un’implorazione.
    L’uomo frugò nella mente in cerca di una risposta onesta pure se scontata.
    ‒ Vivi, Clara. Meglio che puoi. Il più intensamente possibile, riuscì solo a dirle.
    ‒ L’ansia m’impedisce persino di respirare, Addie. E nessuno sa nulla. Non il mio ragazzo, non i miei genitori. Solo a te ho avuto il coraggio…
    Lui si sentì perso, indifeso, solo con quel peso, come lei.
    ‒ Stai tornando per dirglielo?
    ‒ No. Sono venuta per salutarli, per l’ultima volta.
    Le afferrò la mano. ‒ Che cosa dici, Clara? Non puoi farlo, non è giusto ‒ e subito si pentì per quella reazione.
    ‒ Ho già deciso. Aiutami ad affrontarlo, ti supplico.
    ‒ Perché io? Perché hai deciso di dare a me questo peso? Io e te non siamo nulla.
    ‒ Perché tu lo puoi sopportare.
    Presero posto nuovamente e Clara si addormentò stremata e stretta a lui.
    Dormì un sonno profondo, e agitato, e si svegliò quando il treno aveva superato Novara.
    La notte era tranquilla, l’acqua delle risaie specchiava una luna diafana che pareva dipingere anche la terra col suo candore.
    Clara lo strinse a sé e provò a farsi coraggio col calore della sua presenza.
    ‒ Non ti lascio sola, quando arriviamo ti accompagno io dai tuoi ‒ disse lui quando la città era ormai alle porte.
    ‒ Grazie, mormorò lei.
    ‒ E ti aiuterò a dar loro questa notizia.
    ‒ No, rispose e si allontanò da lui, spaventata. Non posso dar loro questo dolore. Li voglio vedere, per l’ultima volta, felici.
    ‒ Ma cosa dici, Clara? Non puoi portare questo fardello. Sono tuo padre e tua madre, devi permetter loro di vivere questi mesi con pienezza insieme a te, e di farlo anche tu. Anche con il tuo ragazzo hai sbagliato. Chiamalo e raccontagli la verità.
    ‒ Non permetterti di dirmi ciò che devo fare ‒ ruggì lei e fece per prendere la sua sacca e andare verso le porte in coda alla carrozza.
    L’uomo la fermò per un braccio e le afferrò le spalle.
    ‒ Non sempre si può scappare, Clara.
    La ragazza lo guardò con odio e poi crollò in un pianto dirotto tra le sue braccia.
    Quando arrivarono alla stazione i genitori di Clara l’attendevano sorridente.
    A prima vista sembrano una coppia felice, pensò l’uomo.
    ‒ Clara, cosa è successo? ‒ Dissero quando la videro stretta a quell’estraneo forse più vecchio di loro.
    ‒ Lui è un mio amico, può venire a casa?
    Rimasero ammutoliti, scossi.
    Lui immaginava cosa stesse passando loro per la testa, un uomo avanti negli anni che portava la fede al dito.
    Ma la realtà è a volte più crudele delle peggiori fantasie.
    Porsero la mano e lo osservarono in tralice.
    ‒ Clara deve dirvi una cosa molto importante ‒ spiegò loro, senza un sorriso.
    La ragazza li lasciò e di nuovo si strinse a lui salendo in auto.
    Durante il tragitto nessuno ebbe la forza di parlare.
    Quando arrivarono a casa l’uomo strinse il viso pallido di Clara tra le sue mani e la guardò dritto negli occhi; quando lei iniziò a piangere la strinse a sé più forte che poteva.
    Alla fine Clara lo lasciò e condusse i suoi genitori, ammutoliti e colmi di angoscia, in un’altra stanza.
    Dopo poco sentì il padre gridare e la madre piangere.
    Aprì la porta e scese dalle scale.

    Di cosa vuoi parlare stasera?
    Addie guardò fuori dalla finestra. Vedeva il proprio riflesso sul vetro e l'oscurità subito oltre.
    Fa freddo lì stasera, tesoro?

    Edited by E©ly - 2/12/2020, 16:23
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