Scrittori per sempre

Posts written by mangal

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    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Erano quelle, le cose di cui sentiva la mancanza in quel momento, le piccole insignificanti azioni di tutti i giorni che facevano parte della sua normalità e che aveva dovuto dimenticare. Erano diversi mesi, ormai, che di normale non c’era più nulla. L’estate aveva portato una pausa troppo breve ed era finita in fretta. Era stato un po’ come svegliarsi da un brutto incubo. La paura ti resta addosso ancora per un po’, non appena riapri gli occhi nel cuore della notte. Poi, mentre riprendi coscienza a poco a poco della stanza intorno a te, delle coperte che ti tengono al caldo e al sicuro, ecco che subentra una sensazione di sollievo. A quel punto cerchi di dimenticare le visioni che hai appena avuto, ti giri dall’altra parte e provi a riprendere sonno.
    Era successa una cosa del genere, quell’estate. Tutti avevano cercato di dimenticare quello che era accaduto. Non era stato facile, non con il peso di tutti quei morti. Ma loro erano sottoterra, ormai. “Chi muore tace e chi vive si da pace”, diceva il proverbio. Più che pace, si erano dati tutti una bella scossa, come un’ondata di vita troppo a lungo repressa. Si erano divertiti. Erano tornati a respirare. E al rientro dalle vacanze avevano fatto finta che il problema fosse risolto.
    Poi l’incubo era tornato. Silenzioso e inesorabile, proprio come si era manifestato qualche mese prima. E con l’incubo, la paura.
    Di colpo, anche poter uscire per andare a prendere il giornale era tornato ad essere un lusso. Una rara occasione per prendere un po’ d’aria, per non rimanere barricati tra quattro mura che diventavano di giorno in giorno più opprimenti. Un lusso a cui lui non era disposto a rinunciare. Così come non era disposto a rinunciare a scambiare almeno due parole con i suoi amici, ora che non era più possibile trovarsi al bar per giocare a carte e commentare insieme i risultati delle partite di calcio.
    L’atmosfera in casa era di giorno in giorno più pesante. A volte pensava che forse, se fosse stato da solo, sarebbe riuscito a sopportare meglio quel periodo. Se non altro non avrebbe dovuto fare i conti con le sue continue lamentele:
    - Ti sei lavato le mani?
    - Hai usato il sapone?
    - Guarda che devi farlo per almeno un minuto, ti sei ricordato di incrociare bene le dita tra loro?
    - È lo spazio tra un dito e l’altro, quello dove il virus si annida di più, l’ha detto ieri un medico alla televisione!
    - Se ti viene da starnutire, devi farlo nell’incavo del braccio!
    - Tira su la mascherina sul naso quando esci!
    - Ti sei ricordato di passare la salvietta disinfettante sul carrello quando sei andato a fare la spesa?
    - Ti sei messo i guanti di plastica?
    - Guarda che la moglie di Battistini pare sia positiva, puoi evitare di parlargli insieme se lo incontri?
    - Ho attivato l’abbonamento al sito online del giornale, che bisogno hai di andare a comprarlo tutti i giorni?
    - Se vai in farmacia a ritirare i medicinali, guarda di non entrare. Ho già pagato io e sono d’accordo che non appena sei lì suoni e loro ti portano tutto fuori!
    - ...
    Era come un disco rotto. Iniziava la mattina appena alzata, quando come prima cosa gli rompeva l’anima con questa storia delle mani. Mancava poco che lo cronometrasse mentre era in bagno. Poi, per tutta la giornata, era un continuo perseguitarlo per ogni minima cosa: e le mascherine e le distanze e le ore in cui c’era meno gente al parco e si poteva uscire per portar fuori il cane e la spesa e i guanti e il disinfettante e chi aveva incontrato e con chi aveva parlato e a quanta distanza era rimasto e se aveva la mascherina alzata o abbassata ... e basta per la miseria!
    Non era più un bambino, quante volte glielo doveva dire? Sapeva badare benissimo a se stesso, senza bisogno di un carabiniere che gli stesse di continuo sul collo.
    Il fatto era che lei non lo ascoltava nemmeno. Da quando questa cosa era scoppiata si era chiusa ancora di più in se stessa e nelle sue paure. Viveva nel suo bozzolo fatto di nevrosi e ansie, da cui ormai non usciva nemmeno per un istante. A volte lui si chiedeva come fosse possibile andare avanti in quel modo. Svegliarsi con una sola martellante idea in testa, passare tutta la giornata a rimuginare quel chiodo fisso, senza mai lasciare il posto a una possibile distrazione, a un pensiero diverso ... possibile che non le mancasse l’aria? Che diamine, lui dopo un quarto d’ora a pensare sempre le stesse cose già si sentiva morire.
    Aveva bisogno di aria, di spazi aperti, di fare cose, incontrare gente, andare a pesca sul fiume, dare una mano al suo amico Gianni con la raccolta delle olive, curare l’orto o il giardino di qualche coppia di medici in pensione che in vita loro non avevano mai visto la terra nemmeno per sbaglio, andare in montagna a cercare un po’ di funghi. Il contatto con la terra, con l’aria, con l’acqua. Quelle erano le piccole cose che gli mancavano tanto, quei granelli di felicità che ad altri potevano parere insignificanti, ma che per lui erano indispensabili come l’ossigeno.
    Lei non capiva. Lei era diversa. Lo era sempre stata. Nonostante le piacesse tanto parlare delle sue origini contadine, la verità è che lei era una specie di intellettuale. Non era sensibile come lui al richiamo della natura. Lei poteva passare il pomeriggio intero a leggere un giornale dietro l’altro, ad ascoltare le interviste dei virologi, come se fosse alla disperata ricerca di una soluzione al problema. Quando la sera si mettevano in poltrona a guardare la televisione, lei non si perdeva nemmeno un secondo delle raccomandazioni e dei pareri degli esperti. Lui resisteva solo qualche minuto prima di addormentarsi.
    Eppure in fondo, nonostante tutte le differenze, si volevano bene. Si erano incontrati quando lei era rimasta vedova e lui era stato cacciato di casa dalla moglie. Due solitudini che si erano riconosciute e avevano deciso di percorrere un tratto di strada insieme. Un tratto che ormai ammontava a diversi anni. Avevano imparato in qualche a modo a convivere, anche se lui era un cuor contento e lei una donna sempre sull’orlo della depressione. Lui aveva accettato le paure e le ossessioni di lei, lei aveva trovato nella semplicità di lui un’evasione dalla gabbia grigia in cui troppo spesso finiva per autoconfinarsi.
    A fatica avevano trovato un loro equilibrio.
    E poi era arrivata la pandemia. E tutto era cambiato di colpo. Come l’onda di un fiume in piena, si era abbattuta sulle fragili abitudini quotidiane che con il tempo erano riusciti a costruire e le aveva spazzate via, portando in superficie i problemi e le incomprensioni che si erano nascosti sul fondo di quel loro rapporto così complicato.
    Eppure, qualcosa si era salvato. Al di là dei litigi e delle discussioni c’era un legame forte, che si era formato con il tempo e che il tempo aveva reso più saldo. E proprio in quel momento, quando tutti e due avevano all’improvviso preso coscienza di quanto le loro stesse vite fossero fragili, di come fosse facile spezzarle per sempre, quel legame era rimasto a galleggiare al di sopra del mare di incomprensioni che si stendeva tra di loro.
    Non erano stati mesi facili. Quanti amici aveva perso, lui, in quel periodo, senza nemmeno avere il conforto di poter andare al loro funerale? Quante volte aveva avuto l’impressione che la morte stessa stesse danzando intorno a loro, colpendo conoscenti e parenti, e che le sarebbe bastato allungare un attimo la mano per raggiungerli?
    Fino a lì avevano resistito, in qualche modo. Litigando, mandandosi più di una volta a quel paese, ma anche aiutandosi e supportandosi. Soprattutto, non restando soli. Dandosi una mano a superare tutto quanto. Non potevano cedere proprio adesso, non quando mancava così poco alla fine. Presto ci sarebbe stato il vaccino e tutto si sarebbe messo a posto.
    Dovevano tener duro ancora pochi mesi, si disse.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
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    CITAZIONE (Esterella @ 28/11/2020, 17:42) 
    Una curiosità: quanto tempo abbiamo per leggere e commentare?
    Buon Flash a tutti.

    in linea di massima una ventina di giorni, ma domani sarò più preciso
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    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Di queste felicità mi nutrivo in ogni perdizione della vita stessa in cui sprofondavo nei miei giorni cupi di odio per me stesso e nei quali raggruppavo i pensieri distrutti da un orologio fasullo spennellandoli con argute argomentazioni sulla bellezza imprescindibile e unica del momento che istantaneamente vivevo.
    Ero dotato di un inferiore io e guardavo con disprezzo il super e tutto ciò che lo raffigurava, persino i supereroi dei fumetti, ai quali il loro creatore aveva concesso poteri soprannaturali che invece io non possedevo per una distrazione fortuita del mio autore o creatore se la parola vi piace di più.

    Ecco questo era il mio pensare e agire sino al giorno in cui incontrai Marilena, i suoi occhi, in un fortuito istante durante lo struscio serale per negozi, incrociarono i miei e tutti e quattro più quattro lenti, due astigmatiche e due miopi, s’incrociarono tra loro in uno strabismo di venere per me e in un non so cosa per lei…
    Figlio degli anni sessanta in quegli ottanta mi districavo tra Le Corbusier e il più classico Sallustio
    cercando di non finire nelle grinfie di quel tavolo da biliardo che ospitava alcune mattinate in cui la mia preparazione architettonica e latina era alquanto scarsa e vi confesso che in quella bettola del porto, al piano interrato, spesso ci si poteva incontrare il professore di matematica e mi sa che la sua impreparazione era nei riguardi degli alunni...
    Tra una bettola e un richiamo ufficiale della preside, alla quale puntualmente promettevo mari, monti e pure colline per un proseguimento d’anno scolastico motivato e seriamente disposto al sacrificio, fui catapultato fuori dalla mia botte di legno proprio dagli occhi cristallini di Marilena.
    E qui partì lo struscio serale del sabato sera vestito da “febbre del sabato” sera con l’aggiunta d’un cappotto di montone rovesciato che indossato ai primi d’ottobre faceva l’effetto d’una stufa a pellet infilata nelle mutande, ma tant’è mi faceva figo e diversamente imbecille dagli altri amici.
    L’argomento occhi cominciava a stufarmi e avrei voluto passare immediatamente a quello delle labbra o delle tette, ma prima dovevo superare il cristallino e pure la cornea di Marilena che pareva interessata al mio sguardo come un lampadario di swarovski che mostra i suoi diamanti nel luccichio delle lampadine.
    Bah… che paragone stupido, vero però come il folle sentimento che cominciava ad annidarsi nella mia mente e quel sentire pulsare le vene aumentava ogni giorno in maniera esponenziale all’incrociarsi delle mie timidezze con la sua esuberanza spontanea.
    Consumai due stivali da cowboy a punta, ricamati a mano da un artigiano che faceva selle per cavalli, ma al termine del rodeo degli strabici riuscì ad attirare l’attenzione di quella ragazza che strusciava il sabato sera per la via centrale e per negozi esattamente come me.
    Cavolo! Allora reciprocamente stavamo cazzeggiando alla stessa maniera e pensare che sarebbe bastato fermarla molto tempo prima di dover acquistare un paio di “Timberland” indistruttibili al posto di quei ridicoli stivali.
    Il dado era tratto e, rendendo giustizia agli studi classici con questa citazione, la minestra stava per divenire un dolcissimo brodo di giuggiole da assaggiare a garganella.
    Fermata obbligatoria durante lo struscio, finto spintone e scambio dei nomi, tutto iniziò così.
    Inutile dire che gli studi andarono a farsi friggere, compresa la preside, e il mio tempo divenne
    solo tempo di felice appagamento totale del momento, e di tutto ciò che un essere umano può godere insieme al mieloso amoreggiamento dei sensi e del corpo e ammetto che ne godeva più l’unità composta di carbonio che l’elevato e puro spirito ultraterreno.
    Furono mesi di languide “slinguazzate” in ogni luogo lecito e illecito e senza rendercene conto quel sentimento che pareva appartenere solo ai poeti e agli scrivani dei baci perugina s’andava consolidando in un terreno fertile che nel divenire futuro pareva proprio foriero di frutti, bacche e baccanali.
    In fondo avevo un po’ barato con con me stesso, perché quel sentimento era bello che radicato sin dall’inizio.
    Passammo un Natale illuminati a festa, tra tombolate e smazzate di poker, cullati dagli anni giovani e da quell’Edonismo Reaganiano che era preludio dell’insostenibile leggerezza dell’essere, e cosa vi poteva essere di più elevato per noi se non quella leggera carezza dell’amore e delle sue tentazioni corporali?
    S’arrivò a marzo e la nostra relazione continuò a filare come un treno e io avevo completamente abbandonato ogni velleità di studio, tanto che mi avevano rinchiuso in un barattolo di vetro e depositato in uno scaffale del laboratorio di scienze biologiche in attesa che finisse l’effetto narcotizzante della stagione dell’amore prima della totale bocciatura scolastica.
    L’apoteosi della fine di quello stato ipnotico amoroso non tardo però ad arrivare.
    «Erano cime tempestose e buie...»
    No, rimanete pure tranquilli, non citerò elevati esempi romanzeschi e romanzati…
    Semplicemente fu una passeggiata su una diga di sbarramento al porto che sancì l’apoteosi dell’amore e la sua mesta e tremenda fine.
    Il mare pareva divorare le enormi pietre che costituivano il perimetro della diga, mentre al suo interno le barche ondeggiavano ritmicamente seguendo le folate impetuose del grecale, gli spruzzi d’acqua salivano sin sulla strada e il freddo tagliava labbra e viso donando un aspetto rossiccio e screpolato…
    Le nostre mani erano unite e i nostri occhi non riuscivano a scrollarsi e nemmeno a vedersi chiusi per la passione e per la sabbia mista al sale marino che ci inondava, lì fermi su quella diga.
    Pensavo, credevo nell’amore eterno, nei pupazzi di peluche, negli sguardi profondi, nella vita, nelle conchiglie di mare, nelle clessidre che rivoltano solo momenti felici.
    Ecco cosa pensavo.
    E sbagliavo tutto, ogni cosa che era certezza divenne tempesta e acqua gelida.

    «Sai, ho riflettuto molto sul nostro rapporto e penso che da oggi in poi noi resteremo buoni amici»

    Marilena lasciò scivolare la sua mano, come se il vento la sospingesse via, si girò verso la terra e io rimasi, con lo sguardo abbassato, immobile come le pietre della diga, poi d’improvviso il vento si calmò: l’occhio del ciclone era su di me...
    Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.
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    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.
    La carta non era intestata e il messaggio non era firmato. Una carta normale, presa da un quaderno ordinario, una calligrafia minuta e precisa, di una donna probabilmente. La busta, comune anch’essa, non era stata affrancata. Qualcuno l’aveva messa nella pigeonhole del dipartimento.
    Chi era stato, si chiese, e perché? Controllò il nome sulla busta. Marcus Miller, il suo. Guardò nelle altre buche, per vedere se anche i suoi colleghi ne avessero ricevute di simili. Forse era lo scherzo di collega. Ma la busta l’aveva avuta solo lui.
    L’incipit più famoso al mondo, quello più citato. Perché glielo avevano mandato? Entrò nel suo ufficio, chiuse la porta e dispose il foglio sul tavolo come se fosse un problema di algebra lineare. La sua matematica non l’avrebbe aiutato, questa volta.
    A proposito, a quale delle due categorie apparteneva la sua di famiglia? Aveva sposato una collega del dipartimento di Letteratura Americana, più giovane di lui di circa dieci anni. Adele era sulla soglia dei quarant’anni, ed era ancora molto affascinante. E straordinariamente intelligente. Avevano una bimba bella come il sole, Lisbeth. Pensava fossero felici. Certo, poteva parlare solo per lui, in verità, e forse anche per sua figlia che gli sembrava serena e contenta, come peraltro a sette anni non è poi così difficile essere, se vivi in una famiglia normale. Ecco, pensò, noi siamo una famiglia comune, comunissima, addirittura banale. Se quello di Tolstoj, fosse un teorema, allora noi dovremmo essere una famiglia felice. Era ancora turbato quando entrò nella aula 3.12. Doveva spiegare ai suoi studenti il mistero attorno al teorema di Fermat.
    A tavola durante la cena, non ascoltava completamente i racconti di Lisbeth su quello che era accaduto a scuola. Guardava le sue donne e avrebbe voluto osservarle dentro, per vedere se fossero felici. Poi non ce la fece e lo disse.
    “Ma che bella famiglia felice che siamo!”
    Voleva vedere l’effetto che avrebbe fatto una affermazione del genere.
    Lo guardarono stupite e perplesse. Poi Lisbeth con un sorriso bellissimo e la luce negli occhi disse:
    “Felicissima e poi fra un poco e il mio compleanno”.
    Era una sua impressione o prima che indossasse anche lei un caldo sorriso, un’ombra aveva attraversato lo sguardo di Adele.
    Dopo cena sua moglie si chiuse nello studio, doveva correggere i saggi di mid-term dei suoi studenti, spiegò. Così Marcus si guardò un bel filmino Disney con sua figlia. Risero entrambi con voracità. Se non era quella la felicità, era qualcosa che gli assomigliava molto.
    Il giorno dopo, di nuovo
    Lui aveva detto proprio quello che il suo cuore voleva sentire e che la sua ragione temeva.
    Stessa carta, stessa busta, stessa calligrafia.
    Questa volta non riconobbe il brano. Lo dovette cercare su google. Sempre Anna Karenina, il che qualcosa doveva pur significare. Quando Anna si accorge che il gioco seduttivo di Vronskij ha aperto una falla nel suo cuore e capisce che la falla si allargherà inesorabilmente. La cosa la turba profondamente ma non le dispiace. Affatto.
    Qualcuno, qualcuna voleva dirgli qualcosa. Cosa? Che sua moglie era Anna e che viveva lo stesso turbamento del personaggio di Tolstoj? Banalmente e volgarmente che lo tradiva con un Vronskij di turno? Non poteva essere: non Adele.
    E perché non Adele. Cosa aveva di tanto diverso da tutte le Anne Karenina di questo mondo. Non avrà pensato anche Kerenin lo stesso della sua, di Anna. Tutti ci crediamo speciali, tutti siamo uguali a gli altri. E facciamo quello che fanno gli altri. Così fan tutte, per passare da Tolstoj a Mozart.
    La gelosia è un tarlo che corrode; anche questo, qualcuno l’avrà scritto da qualche parte. Lui pensava di essere immune. Non si era mai posto il problema.
    Anna, ma che Anna! - Adele gli avrebbe detto fra il serio e lo scherzoso che dipendeva dal fatto di essere troppo sicuro di sé.
    Ora aveva perso tutta la sua sicurezza. La gelosia ti trasforma, indebolisce e consuma. Ti cattura la mente e monopolizza i pensieri. Nella riunione che tenne nel pomeriggio con un gruppo di colleghi, fu del tutto assente. immaginava Adele far l’amore con Vronskij di tutte l’età, di tutti i colori e di tutte le classi sociali. Alzò lo sguardo verso i suoi colleghi: tutti, quasi tutti, in verità, gli uomini sembravano dei potenziali Vronskij. Rick Von Diers, il giovane e brillantissimo matematico tedesco, arrivato da un anno e mezzo si era già guadagnato la fama di seduttore seriale. Era venuto un paio di volte a cena a casa loro. E se fosse lui, il bastardo?
    A cena quella sera Adele fece scoppiare una bomba.
    “Ve lo ricordate, vero, che questo fine settimana, vado a Warwick per quel convegno sulla Poesia pre-shakespeariana?”
    Lui questa cosa non la ricordava affatto. La guardò dritto negli occhi con uno sguardo che voleva essere di rimprovero e di disgusto, ma che probabilmente appariva solo il riflesso del suo sentirmi triste e disperato.
    “Ma, mamma, il fine settimana non si lavora…” disse Lisbeth delusa.
    La mamma non va a lavorare, pensò, ma tenne tutto per sé.
    Quella sera fui lui ad andarsene nello studio dopo cena. Disse che doveva lavorare. Prese la bottiglia di Rum Agricola invecchiato 20 anni e iniziò lentamente a bere. Appena il rum cominciò a fare un po’ di effetto, gli tornò anche la voglia di fumare quei cigarillos leggeri che fumava da giovane, proprio quando il rum veniva messo ad invecchiare. Ma oramai anche quelli non li aveva più.
    Andò a letto tardi e quasi del tutto ubbriaco. Adele sembrava dormire. Ma appena si stese sul letto, gli sembrò che parlasse.
    “Hai bevuto? Oh, amore, non dovevi. Passerà”
    L’aveva detto veramente o era un prodotto della sua mente anestetizzata dall’alcool?
    Si girò a guardarla, aveva gli occhi chiusi e pareva proprio dormire.
    Il giorno dopo aveva un gran mal di testa e la buca delle lettere era vuota.
    E rimase vuota nei giorni a venire.
    Fu un periodo terribile. Si sentiva un vigliacco perché non l’affrontava a viso aperto chiudendole conto di tutto. Ma di tutto cosa, poi. Di due lettere anonime con brani di un romanzo russo di secoli prima?
    Dieci giorni dopo la prima, giunse un’altra lettera. Sessa carta, stessa busta, stessa calligrafia.
    Anna è morta e Tolstoj aveva torto. Le famiglie felici sono singolari. Sono il frutto di un lavoro unico e straordinario.
    Si sentii contento e sollevato, senza nessuna una reale ragione. La morte di Anna faceva parte del romanzo, ma a lui quella morte sembrava una rinascita.
    Era venerdì e sua moglie e sua figlia erano fuori per cena. Adele aveva accompagnato Lisbeth al cinema con le amiche e le loro mamme e poi a cena a casa di una di loro. Una serata fra donne, avevano detto.
    Trovò un biglietto sul frigorifero. Sua moglie gli scriveva che avrebbe trovato l’agnello con le patate arrosto nel forno.
    Gli aveva preparato il suo piatto preferito. Si accasciò sulla sedia e scoppiò a piangere.
    Non sapeva nulla ma aveva capito tutto. Usando solo la stessa calligrafia precisa, minuta e studiata delle lettere trovate in dipartimento, Adele aveva firmato le lettere, aveva detto tutto senza raccontare nulla. Adele aveva avuto il suo Vronskij. Ma ora era finita, una sbandata, si sarebbe chiosato in un romanzetto rosa.
    Il potere delle parole e della letteratura. Adele aveva avuto il suo Vronskij suonava molto meglio che dire che Adele avesse avuto un amante.
    Non avrebbe chiesto altro. Non avrebbe mai chiesto nulla di più. Non gli importava sapere chi fosse stato a interpretare il ruolo di Vronskij. O meglio, in cuor suo avrebbe voluto saperlo. Ma andava bene lo stesso; certe cose è meglio che rimangano nell’ombra. Era sicuro che Adele fosse tornata tutta sua. Il resto poco contava.
    In un matrimonio, pensò, la verità è sopravvalutata. L’importante è essere leali. A volte la verità confligge con la lealtà. Ma capire queste sottigliezze non è da tutti. Per questo è così straordinario esser parte di una famiglia felice. Adele era stata leale. La fedeltà, pensò Marcus, lasciamola ai cani.
    Di Anna e Vronskij, Marcus e Adele non parlarono mai più. Fra loro era stata già non detto tutto.
    Sono passati anni da quella vicenda, tanti, Marcus e Adele sono rimasti insieme e sono stati e sono felici, avrebbe detto Tolstoj e lo avrebbero confermato i loro amici. Lisbeth li ha fatti diventare dei nonni, felici ovviamente. I loro tre nipoti, due maschietti e una femminuccia, benché già adolescenti, sono ancora troppo piccoli per leggere Tolstoj e per conoscere Anna Karenina. Col tempo, sperava Marcus, avrebbero capito anche loro il segreto della felicità.
    È possibile parlare d’amore alla soglia degli ottant’anni? Beh, è proprio quello che accade nelle coppie felici.
    D’altra parte, di cosa altro possono parlare Marcus e Addie? Addie, è così che Marcus chiama sua moglie nell’intimità.
    Del tempo, forse? E perché no? In fondo rimangono sempre una coppia d’inglesi.
    Di cosa vuoi parlare stasera?
    Addie guardò fuori dalla finestra. Vedeva il proprio riflesso sul vetro e l'oscurità subito oltre.
    Fa freddo lì stasera, tesoro?
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    Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
    Odiavo quella frase per le troppe volte che Daniela me l'aveva detta. Era il suo commento preferito su amici e conoscenti -per non dire di perfetti sconosciuti- che vivevano un dolore, senza fuggire quella infelicità. Trovavo questo incomprensibile e ogni volta litigavo con Daniela che mi rimproverava una vita facile, leggera, che non conosceva il dolore.

    Guardai fuori dalla finestra cercando il mare che mi accoglieva ogni giorno. Correre alla spiaggia e tuffarmi nel mare: nascondermi. Era quello che volevo, come quella volta da ragazzino dai nonni, in quel piccolo appartamento che appariva gigantesco ad un bambino di 5 anni. E la cosa più grande era quel tappeto che copriva buona parte del salotto. Ricordavo le emozioni del ragazzino che quel giorno voleva aiutare i nonni, anche se il nonno borbottò quando cominciai a tagliare il primo ciuffo di frange.
    «Taglio pochissimo, nonno» lo rassicurò quel ragazzino senza alzare la testa dal tappeto. «Aggiusto solo la lunghezza, come fa il barbiere con i miei capelli».

    L'intervento che avevo in mente richiedeva la massima attenzione. Il tappeto era speciale agli occhi della nonna, era un “persiano”. Quanto rise quella volta che le chiesi se era il marito della persiana che chiudevano alla sera affacciandosi alla finestra! Il tappeto era davvero molto grande: una volta con il cugino Antonio lo misurammo a capriole e avevo dovuto farne più di tre per non sentire più sotto la testa il pelo soffice del tappeto. Aveva frange lunghe, sempre arruffate. La nonna era pronta a rimetterle in ordine appena il nonno vi passava sopra per raggiungere la sua poltrona che si innalzava come una montagna lungo il bordo del tappeto. Chissà dov'era finita quella poltrona?
    Quando non c’era il nonno seduto, ci salivo arrampicandomi da tutte le parti. Lui cercava di dirmi come sedersi, ma sembrava una cosa noiosa. Divertente era scalare lo schienale, lottando contro il muro che lasciava uno stretto passaggio per poi lasciarsi cadere sul cuscino molto più morbido del resto della poltrona. E poi saltare sul tappeto proprio lì sotto. Diventava anche una colorata pista da corsa, quel tappeto, per le automobiline che mi avevano regalato. Nel gioco le frange del tappeto si impigliavano nelle ruote delle automobiline e la nonna era sempre lì a rimproverarmi di non ingarbugliarle. Volevo proprio aiutarla a tenere in ordine le frange del tappeto persiano.

    La settimana precedente il nonno mi aveva portato per la prima volta dal suo barbiere. Seduto sul cavallino di ferro su cui mi avevano fatto salire, stringevo forte le redini: il barbiere mi aveva avvertito che il cavallino poteva partire al galoppo all'improvviso!
    Il nonno sorrise dicendomi che era una bugia, ma continuai a tenere stretto il cordino di cuoio mentre il barbiere mi metteva un lenzuolo intorno il collo. Poi le forbici cominciarono a fare rumore intorno la mia testa: un rumore così forte ché ero sicuro sarei rimasto senza capelli, come era successo al barboncino della zia. E invece scesi dal cavallo con un taglio di capelli tutti allineati a caschetto.
    In quel giorno cominciai a interessarmi alle forbici, strumento magico. Quando poi vidi quelle lucide della nonna - riposte nella scatola del cucito in fondo all’armadio - una idea cominciò a prendere forma.

    Ero convinto di regolare le frange del tappeto in poco tempo: potevo stare comodamente sdraiato a tagliare, mentre il barbiere doveva stare in piedi. Vi era un momento particolare della giornata in casa dei nonni. Dopo pranzo il nonno andava sempre sulla poltrona a pensare -così mi diceva- mentre la nonna rimaneva in cucina a parlare con la mamma e il papà. Quel giorno c'erano anche gli zii.
    Senza farmi sentire recuperai le forbici dall'armadio e mi misi al lavoro, ma la cosa si rivelò più difficile del previsto. Le frange non volevano stare ferme, la lunghezza dei fili era sempre diversa. Ero deciso, però, a non arrendermi. Steso sul pavimento, prendevo la mira per centrare il taglio. Ricordo lo stupore, dopo aver pareggiato il primo ciuffo di frange, vedendo che le frange tagliate erano diventate molto corte rispetto a quelle che dovevo ancora tagliare. “Ricresceranno, come i miei capelli” pensai deciso. Continuai a tagliare tutte le frange per pareggiare la loro lunghezza. Un paio di volte sentii il nonno brontolare dalla sua poltrona, ma non potevo distrarmi perché le frange si sarebbero mosse.

    Dopo aver pareggiato l'ultimo ciuffetto mi alzai in piedi soddisfatto. Stavo per richiamare l'attenzione del nonno sul taglio completato quando la nonna entrò nel salotto. La guardai sorridendo perché lo avevo fatto proprio per lei. La nonna mi guardò, guardò il nonno e aprì la bocca per lanciare un urlo che non le avevo mai sentito.
    Le sedie della cucina si mossero. Voci urlarono, parlarono tutte insieme.
    Non osavo guardare il mio lavoro: altro che sorrisi, il taglio delle frange aveva fatto arrabbiare la nonna e anche la mamma. Scappai via tra le gambe degli zii.
    Mi rifugiai sotto il lettone dei nonni. Il mio rifugio segreto, invisibile sotto quelle molle cigolanti. Quando giocavo a nascondino con lo zio, lui non riusciva mai a trovarmi. Vidi tante scarpe muoversi nella stanza, ma nessuno mi cercava. Neanche mio zio. Non seppi mai quanto tempo passai lì sotto: decisi di uscire, volevo spiegare perché lo avevo fatto. Improvvisamente un lembo della sovraccoperta si sollevò e apparve il viso della mamma. Mi gettai nelle sue braccia: stava piangendo. Anche la nonna piangeva. Allora smisi di trattenere le lacrime: trovai appena il fiato per dirle “scusa, scusa, non lo faccio più. Incollerò i pezzi tagliati”. La mamma mi strinse forte.

    Volevo andare alla spiaggia. Gettarmi in acqua e nascondermi. Nascondermi al dolore che provavo. Ti guardai ancora una volta, mamma, distesa sul letto grande. Vicino il tuo corpo silenzioso Daniela riusciva a fare qualcosa, pregare qualcuno. Io no.
    Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.
  6. .
    È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un'ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie. Per l'uomo in questione però questo non fu abbastanza.

    "Carl, ricordati questa sera?"
    "Non dubitare sarò puntuale come sempre, Pam."
    Lei si allontanò pensando di come poteva essersi innamorata di un uomo così egocentrico e falso.
    Pamela era la moglie del facoltoso e brillante Fabergé. Proprio quello.
    Si incontrarono nella gioielleria di Londra. Lui con il capo immerso in una sfavillante bacheca, con l'aiuto del direttore Marco, stava scegliendo un diadema per la sua giovane starlette. Lei in divisa nera con auricolari e occhi attenti, vigilava l'incolumità del magnate londinese Joe Lewis, il quale si apprestava a pagare un diamante appena acquistato per la moglie. Per l'occasione si scambiarono solo due graffianti battute che lacerarono l'anima di Carl. Dopo quell'aspro, ma stuzzicante, impatto decise che quella sarcastica e ironica donna, da un ambiguo fascino, doveva diventare sua moglie. Non fu facile conquistarla, dovette impegnarsi più del solito. Passò qualche tempo, ma alla fine Pamela si concesse; solo a patto di ritornare nella sua Milano.
    E così fu.

    Il tempo macinò impegni, amori, litigi, e perdoni. Tanto che Carl.
    "Pronto Marco sono Carl."
    "Ciao gioia, sono impegnato, cosa posso fare per te?"
    "Verresti a Milano?"
    "In che senso gioia, per qualche giorni? L'atelier non può stare senza direttore. Lo sai!"
    "No, intendo per sempre. Se vuoi potrai alloggiare nell'attico di corso Como. Sto diventando vecchio, e sono stanco di volare da te solo per qualche ora. Tranquillo sarai stipendiato come se lavorassi. Cosa ne pensi?"
    "Gioia ci devo pensare. Scusa, ma ho la Germanotta che mi aspetta. Chiamami questa sera."
    I due cordialmente si congedarono.
    Dopo qualche giorno, sistemato l'atelier di Londra l'ex direttore si apprestava ad affrontare una nuova vita a Milano con il suo amore di sempre.

    Il tempo passò, tra fruscianti lenzuola e festini illegali, tra calici traboccanti e shopping sfrenati.

    Quel giorno Marco aveva un appuntamento inderogabile, rubare all'amante un accendino dal valore inestimabile. L'oggetto era un Fabergé Imperial, ossia un piccolo ninnolo da tavolo raffigurante una scimmietta che fece il suo trisavolo Peter Carl. Era assolutamente urgente, per via dei debiti contratti con uno strozzino, causati dal suo compagno Hector, proprio così: Marco si era portato da Londra il suo amico, sistemandolo in un piedatterra. Il cospicuo stipendio non bastava più a soddisfare le loro particolari esigenze. Secondo il piano di Marco doveva essere semplice; entrare aprire la cassaforte, e scappare.
    "Buongiorno Gustavo, ho dimenticato le chiavi su a casa, mi potrebbe dare quelle di scorta?"
    "Ma certo Signor Mainardi." Il custode fa un mezzo giro con la sedia, si allunga e stacca da una bacheca un porta chiavi di pelle marrone con zip.
    "Tenga, Signor Mainardi, si ricordi che l'ascensore è guasto."
    "È una settimana che è fermo, accipicchia!"
    I due si salutarono.
    Gustavo riprese a leggersi la gazzetta e il Mainardi iniziò la lunga salita.
    L'uomo arrivò madido al sesto piano, ora doveva agire in fretta e bene. Quella notte non si videro. La moglie si lamentava delle troppe assenza del marito, così, per non far scatenare le ire di Pam, che era informata della doppia vita del marito, fece ritorno a casa, e Marc passò la notte da Hector.

    Marco si infilò i guanti in lattice aprì la porta, accese la luce, poi l'uscio silenziosamente si richiuse alle sue spalle. Svelto si recò in studio scostò il grande tv e approntò su di una tastiera luminosa una serie di numeri, cercati e trovati qualche giorno prima su di un foglietto nascosto sotto la libreria. La cassaforte si aprì e dietro a pacchi di banconote e cartelline, vide la scatolina. La aprì, gli brillarono gli occhi nel vederlo, era proprio lui. L'accendino da tavolo a forma di scimmia, piccolo, pratico, e di inestimabile valore. Rammentò la prima volta che l'ammirò, erano avvinghiati tra costosissime lenzuola, Carl si alzò aprì la cassaforte e gli disse che quel meraviglioso oggetto, sarebbe stato suo in caso di morte. Con quella in suo possesso non solo poteva estinguere il debito con Rocco lo strozzino, ma poteva conquistarsi definitivamente l'amore di Hector. In fondo, aveva anticipato solo i tempi. Pensò sorrodendo. Una rughetta attorno alle labbra, apparì sul suo viso levigato di quarantenne.
    "Cosa stai facendo? Dove sei stato?"
    Marco si girò di scatto. Nascondendo dietro la schiena il prezioso gingillo.
    "Ma cosa fai tu qui? Non dovevi essere da Pam? Porca puttana!" Si fece scappare l'ultima imprecazione aggrottando le sopra ciglia e irrigidendosi tutto.
    "Allora, Marco, rispondi!"
    "Carl...ero da Hector, il tuo ex. Ci amiamo. E da quando sono a Milano, frequento anche lui."
    "Tu...con quella puttana?" Intanto Carl gli si avvicina allungandogli le braccia, e aggiungendo:
    "Ma va con tutti. Quindi tu mi stavi derubando... per andare con lui chissà dove! Ricordi, perché ora è il mio ex! Mi stava delapidando, come sta facendo con te! Svegliati, ti sta usando per arrivare a me!" Disse spazientito il maturo Carl.
    "Volevo solo questo!" Tremando gli mostrò l'oggettino.
    "Non toccarlo, lascialo, posalo!!! Ti offro tutto il denaro che vuoi, ma quello no! Ma guardati, con i guanti... non hai un briciolo di gratitudine. Ti ho dato una casa, ti ho fatto studiare, ma l'indole del delinquente è insita in te."
    Carl decise di prenderglielo, allungò il passo, ma inciampò nel tappeto persiano e rovinando a terra battè la testa sull'angolo della scrivania di cristallo.
    Ad un tratto il silenzio inondò la stanza, infranto solo da lontane sirene in avvicinamento.
    L'uomo si inginocchiò all'esterno della pozza di sangue che il tappeto timidamente stava assorbendo, gli accarezzò il viso, e con gli occhi appesantiti dalle lacrime, gli sussurrò.
    "Mi spiace Carl, mi spiace. Ti ho amato moltissimo. Addio gioia."
    Uscì immediatamente dall'appartamento e imboccò la rampa per scendere, in pochi minuti raggiunse il terzo piano dove si accorse di uno scalpiccio e un vociare non consono al palazzo, si sporse dall'ampia tromba delle scale senza farsi notare, e vide dei poliziotti che stavano salendo di buona lena. A quel si infilò nel corridoio che portava alle scale di servizio esterne, si tolse i guanti e si diede una calmata, poi scese fino a piano terra, aprì una porta di rovere che dava sull'androne e si diresse, a passo lesto e attento verso la guardiola.
    "Le rendo le chiavi, grazie Gustavo."
    Il guardiano con aria preoccupata le ritirò, e ripose il pesante astuccio, al solito posto.
    Nella bacheca.
    "Signor Mainardi, ma lei sa cosa è successo? Ha per caso visto qualcuno sulle scale? E già non può aver visto nessuno, ha preso quelle esterne!"
    "No Gustavo, non ho visto nessuno, ho preso quelle esterne per far salire meglio le forze dell'ordine."
    Il custode preoccupato dell'invasione graduata replicò:
    "Forse hanno rubato dai Bianchini al quinto piano, mi diceva il maresciallo, che è scattato un allarme.
    Spero che un giorno arrestino o le diano un multa esemplare al radioamatore che abita lì di fronte, al primo piano, con la sua frequenza altera tutti gli antifurto causando a volte degli inutili interventi."
    Il ragazzo si dondolava nervosamente, annuendo e sfoderando dei sorrisini idioti. Lo sapevano tutti di quel tipo della casa di fronte, ma era una persona a modo, in quel momento il problema era un altro e troncò dicendo:
    "Gustavo la devo salutare, ci vediamo tra qualche giorno."

    Il cadavere del Fabergé venne trovato da Celia, la signora sudamericana che da anni si occupava delle pulizie di tutte le residenze della famiglia.
    Partirono le indagini, per riuscire a chiarire il fatto. Naturalmente anche Marco fu chiamato in questura per accertamenti, come la moglie, e tutto il suo entourage compreso i custodi e i vicini di casa.
    Il primo del gruppo dei portieri fu Gustavo che rispose:
    "No maresciallo, il Signor Fabergé la mattina del 8 novembre non l'ho visto ne uscire ne entrare...Non ho visto nessuno dell'appartamento 12." disse grattandosi sovente il naso.
    "Lei è sicuro, magari..." replicò il graduato.
    "Ora che mi ci fa pensare, forse quando arrivò l'ing, Rossetti reclamando che l'allarme della sua auto continuava a suonare, allora uscìì con lui per vedere di risolvere il problema. Stetti lontano dalla guardiola pochi minuti, il tempo di passare due auto e raggiungere la sua Volvo, Signor Maresciallo."
    "Potrebbe essere che il Fabergé sia entrato, e subito dopo anche il suo aggressore, oppure non è stato aggredito ed è caduto da solo accidentalmente, ma l'oggetto prezioso che asserisce la moglie, lei ne sa qualche cosa?"
    "Signor Maresciallo, ignoro cosa sia l'oggetto."
    "Vada, ma rimanda reperibile."
    Gli investigatori perquisirono tutti gli immobili alla ricerca dell'accendino che la moglie sapeva essere nella cassaforte dell'attico, dove trovarono solo una scatola vuota. Nonostante il maresciallo Anna Patruno, avesse più di un sospetto verso l'affascinante e intrigante Sig, Mainardi e nonostante lo fece pedinare, non riuscì a scoprire nulla per poterlo incriminare, alla fine archiviò il caso. La vedova, nel frattempo, assediata dai mass media, decise di partire per le Antille, lasciando tutto il patrimonio, momentaneamente, in mano al suo avvocato di fiducia, promettendogli che al suo ritorno avrebbero pianificato delle vendite, ma fino ad allora tutto doveva rimanere come prima.

    Dopo qualche mese.
    "Salve Gustavo le chiavi. Grazie."
    "Eccole Marco, dobbiamo parlare...Signor Mainardi." Gli disse il custode porgendogli il pesante astuccio, e sfoderando un sorriso sardonico.
    "Va bene, Gustavo. Non qui, chiuda la guardiola e salga da me." Rispose sorridendo e allargando le braccia, poi pensò. Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio."
  7. .
    CITAZIONE (NovelleVesperiane @ 28/11/2020, 13:24) 
    Scusate l'ignoranza, ma è la prima volta che partecipo...
    dove compariranno i racconti? Come li voteremo?

    non temere, verrà spiegato tutto domani
  8. .
    Il viaggio della speranza… parole residue, tra le tante in fondo alla giornata. Le ho lette in farmacia, su un bussolotto di vetro accanto alla cassa, c’era l’asola per infilare i soldi e la fotografia di un bambino appiccicata con lo scotch, uno di quelli da portare lontano per tentare un’operazione, un viaggio della speranza, appunto. Mi giro sul cuscino, macino respiri sonori. Guardo il corpo di Giuliano, fermo, pesante. Dorme come dorme lui, supino, a torso nudo. Dalla bocca ogni tanto cava fuori un piccolo grugnito, come una bestia placida che scaccia moscerini.
    Tutto pareva convincermi che l'unica soluzione era quel viaggio per cercare di trovare qualche soluzione a un problema di per sé gravissimo.
    Lui dormiva, non voleva farmi pesare la sua preoccupazione, dimostrava coraggio per trasfonderlo in me, allo stremo delle forze, con i peggiori pensieri catastrofici che mi assillavano togliendomi il respiro.
    Senza di lui sarei morta di dolore, una vita insieme, ero poco più di una bimba quando lo incontrai, frequentavo la terza media, ricevetti una lettera tramite sua sorella che era in classe con me, una vera e propria dichiarazione d'amore.
    Pochi anni di fidanzamento, il matrimonio e i figli.
    Una vita colma d'amore, ora che i ragazzi erano sistemati e avevano la loro vita, ecco la terribile diagnosi, neoplasia pancreatica e lui dormiva, allontanando i pensieri.
    Ormai era tutto pronto, niente ripensamenti, ancora poche ore e saremmo partiti, in gioco c'era la sua vita, non importava la cifra che avremmo dovuto spendere tra viaggi e visite col grande luminare nel settore pancreatico, nella nostra regione non esisteva quella branca specialistica, non c'era altra alternativa, dovevamo giocare quella carta, l'unica per la vita.
    Le valigie erano pronte, la notte appena cominciata, come potevo prendere sonno con l'assillo della morte che alitava al mio fianco in attesa di portarsi via la ragione della mia vita.
    -Dio Santo-. Pregai.
    -Prendi me e risparmia lui se questo viaggio non ci darà risposte positive alle nostre speranze-
    Finalmente giunse l'alba, grigia come i pensieri che ci adombravano ma il mio Giuliano aveva un sorriso dolce, si rendeva conto che lo osservavo preoccupata e mi rassicurava stringendo le mie fredde mani tra le sue calde.
    Non era bello come quando lo conobbi, era il mio uomo, lo adoravo nonostante la rotondità pronunciata della pancia che lui d'estate esibiva con fierezza: “Coltivata in casa” diceva sorridendo felice.
    Ancora non avevamo compreso che si stava insinuando il mostro che poi avremmo cercato di sconfiggere con le unghie e con i denti.
    Eravamo quasi giunti all' aereoporto di Elmas, Milano non era poi cosi distante eppure il mare era una barriera col resto della penisola, isolati e penalizzati in quegli anni non facili per le rotte aeree, erano l'unico mezzo celere, in giornata si poteva partire e rientrare salvo complicazioni, in quel caso avremmo dovuto pernottare in qualche albergo vicino alla clinica.
    L'aereo rullava, pronto al decollo, avrei voluto smettere di pensare a quel viaggio della speranza, sarebbe potuto essere una bella vacanza da qualche altra parte, magari alle maldive, in spiaggia rilassati tra un tuffo e l'altro, che sciocca, non sapevo neppure nuotare, magari prendendo un thè freddo sotto una palma e la spiaggia tutta per noi.
    Avevamo bellissime spiagge in Sardegna, dovevo smetterla di volare con la fantasia, bastava l'aereo.
    In poco meno di due ore stavamo per arrivare a destinazione.
    Il cuore in tumulto, finalmente a terra, una fila di taxi in attesa, ne prendemmo uno a caso dando l'indirizzo del centro tumori.
    Un percorso interminabile, pareva girassimo sempre nelle stesse vie, sicuramente un furbastro e il tassametro conteggiava al ritmo della mia apprensione.
    Niente importava, il pensiero era proiettato al responso della visita, ci attendeva una interminabile giornata, non restava che accomodarci e pazientare dopo aver compilato una lista di domande su stato di salute indirizzo e reddito, cosa c'entrava il reddito con la visita?
    Ancora me lo chiedo.
    -Numero 17 ambulatorio 3- Eravamo numeri, primi o ultimi, solo numeri.
    La visita era terminata, nessuno dei due osava proferir parola per tutto il tragitto di ritorno, non avevamo pranzato ma eravamo sazi e nauseati.
    Posai il capo sulla spalla di mio marito, mi accarezzò i capelli e vidi un velo d'ombra sul suo sguardo, non riuscii a trattenere le lacrime mentre l'aereo prendeva quota, dopo un po' Giuliano mi disse:-Il nostro amore è immenso e senza confini, guarda amore-.
    Un brivido serpeggiò nel mio cuore.
    Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.
  9. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Come adesso che sto seduta sulla riva, la sabbia scivola dalle mie dita leggera, i piedi nudi dentro l’acqua della laguna. Sono immersa nel chiarore, il buio della notte si va spegnendo e assisto, inerme, alla nascita di questo nuovo giorno.
    È l’ora della quiete e della solitudine, l’ora perfetta, l’ora più bella, quella che più amo. Si dileguano le paure, anche le ultime ombre scompaiono e tutto diventa più chiaro e comprensibile.
    Sono come in una stanza con le persiane schiuse, lascio che l’aria fresca del mattino entri nella bocca, dentro le narici, mi accarezzi le spalle scoperte. E respiro, finalmente respiro a pieni polmoni.
    Sulla baia non c’è più nessuno. Si sono allontanati, chi da solo, quasi tutti in compagnia. Io non ho sonno, un bicchiere vuoto in mano, il fondo rosso per le poche gocce rimaste di una bevanda alcolica e di una nottata conclusa come tutte le altre.
    I tavoli sono vuoti, le sedie sparpagliate, le luci spente. La lunga fila di eucalipti agita le foglie, come capelli sciolti da un vento noioso e insistente.
    Anche la musica ha cessato di esistere e le ultime note, trascinandosi, hanno lasciato spazio al silenzio. Anche tu sei andato via, stanco per il lavoro o forse per non affrontare l’ennesimo rifiuto da parte mia.
    Allora ho pensato di scriverti, di lasciarti una lettera, perché possano raggiungerti gli ultimi pensieri e tu possa comprendere quello che non ho avuto il coraggio di dire. Ti ho mai raccontato dei tramonti di Marsiglia?
    Ero giovanissima, molto bella, così dicevano, un viaggio lungo, oltre l’oceano, mi aveva portata davanti a una finestra spalancata sul mondo.
    François aveva molti più anni di me, ero innamorata e lui mi aveva riempito la testa di sogni e di facili conquiste. L’avevo conosciuto all’isola dei Cervi, lui e i suoi amici, belli e facoltosi, in vacanza alle Mauritius.
    “Vieni con me, Agnès, ti farò fare la modella. Sei splendida, hai un’eleganza innata, ti basterà poco, vedrai. E poi, con quel sorriso, chi vuoi che ti resista?”
    Ho lasciato l’isola e insieme siamo arrivati a Parigi.
    L’ambiente della moda mi ha accolta a braccia aperte, è diventata la mia nuova casa, ho conosciuto tanta gente e posti diversi. Ma François, come spesso faceva, si era annoiato anche di me, lasciandomi sola e in balia di me stessa.
    Ogni giorno succedono tante piccole cose e poi ne succedono altre che ti cambiano la vita per sempre. Una sera su una spiaggia, vicino Marsiglia, ho ucciso un uomo.
    Mi aveva invitata a bere qualcosa, al tramonto, per guardare il mare, la luna che si specchiava, per spegnere la nostalgia della mia terra, diceva, della mia gente.
    All’improvviso aveva cambiato voce. Lo sguardo era diventato stretto, una fessura profonda e cieca per un desiderio feroce. Si era avvicinato, troppo, fino a immobilizzarmi per farmi violenza.
    Mi sono dibattuta, contorcendo il corpo. La sua mano enorme aveva soffocato la mia bocca, trattenuto l’urlo e le inutili preghiere. Schiacciata tra la sabbia e quella forza inaudita, da sotto la schiena ho tirato fuori un sasso.
    L’ho colpito, prima sul volto, una due più volte poi, quando la presa era stata più leggera e avrei potuto fermarmi, ho continuato forte e più forte a battere sulla tempia, con quanta forza avevo.
    Il sangue scendeva, mentre stavo ancora distesa sotto di lui, mi rigava il viso, mischiandosi al calore delle mie lacrime.
    Sono sgusciata via, togliendomi quel peso morto da dosso e, come una tartaruga appena nata, sono scappata verso il mare, con il cuore impazzito per la paura di essere, ancora, facile preda.
    Nessuno mi aveva inseguita.
    Ho strofinato con vigore le mani, la faccia, il vestito, l’acqua era diventata rossa, l’avevo macchiata del mio stesso crimine. Pregavo perché non mi tradisse, che lavasse e purificasse la mia anima e la rendesse candida come una veste bianca.
    E il mare non mi aveva abbandonata, aveva atteso con me, sussurrandomi, come da dentro una conchiglia: “Non è stato tuo lo sbaglio, tu non hai nessuna colpa.”
    Mi hanno trovata all’alba, nuda sulla spiaggia, rannicchiata con le braccia intorno alle gambe e il corpo di quell’uomo poco distante.
    L’hanno chiamata legittima difesa. Ero giovane, ingenua, inesperta e avevo subìto un tentativo di violenza carnale.
    François aveva pagato il miglior avvocato di Marsiglia. Me lo doveva, diceva, forse per l’inutile senso di colpa che si trascinava per avermi portato via dalla mia vecchia vita.
    Ma dopo, la mia esistenza non è stata più la stessa.
    Sono tornata a casa, alla laguna, sono tornata nel paradiso perduto e mai dimenticato.
    E poi ho incontrato te, Louis, il mio ballerino pittore. Tu sei stato gentile con me, mi hai insegnato a ballare, compagno perfetto di tante serate, la coppia più bella ci chiamano, perché è così. Tu mi sfiori, mi stringi e mi avvicini al tuo petto nudo, per sentire il contatto della mia pelle. Ma io che cosa sento? Quando ballo con te vedo gli occhi della gente fermi sul mio ventre, sulle anche che ondeggiano, sulle gambe che inseguono i tuoi passi, incrociando le tue e non ho paura. Il tuo corpo mi fa da scudo, la musica è la mia bolla dove tutto svanisce, anche il dolore. Con i bordi della gonna tra le dita apro e chiudo le braccia come fossero ali, vicino a te mi sento leggera, una farfalla. Sono viva altrove e per un tempo finito, libera dal mio tormento.
    Ma io non riesco ad amarti, tanto da dimenticare il male che ho fatto. La tua dolcezza è disarmante, ma ho una corazza che può trascinarmi solo verso il fondo.
    La vita non è fatta di grandi cose, Luis, ma tu studia e lavora, ce la farai ad andare in America, o in qualsiasi altro posto, a cercare fortuna. Qualcuno vedrà i tuoi quadri e li troverà perfetti e unici, perché hanno i colori dei sogni che ciascuno porta dentro, anche quelli di un’esistenza in bianco e nero. E poi cerca una donna da amare con tutto il cuore, accarezzale gli occhi mentre dipingi il suo viso. Tutto l’amore che hai può solo espandersi e crescere ancora. Ne sono certa.
    Con te ho vissuto l’incanto, ho conosciuto l’oblio, anche se per poco. Con te riesco a dimenticare quello che ho fatto. Ma poi il tormento mi riprende, quando sto sola, sempre più spesso ormai in ogni momento è dentro di me. Tutti i giorni, anche adesso.
    In questo breve tratto che mi separa dalla morte, posso dire che non ti dimenticherò mai.
    Agnès


    L’ultimo messaggio era stato per me, l’avevo trovato tra le pieghe della sua veste con i fiori azzurri. Sulla spiaggia bianca, di quella mattina d’estate, era stata l’unica macchia di colore mentre il sole sorgeva.
    Mi sembrò di vederla, Agnès, come in un film proiettato sopra uno schermo bianco, steso all’orizzonte. Si era alzata dalla riva, con calma e con dolcezza aveva fatto scivolare il vestito.
    Era entrata in acqua, nuda, esile figura, aveva camminato, senza fretta, in un silenzio surreale, fin dove sapeva sarebbero arrivate le correnti.
    Il mare, dai riflessi turchesi, in quell’ora veniva colorato di arancio fuoco e si preparava a ricevere il corpo perfetto di una donna.
    Aveva abbracciato le lunghe gambe, i fianchi arrotondati, le mani morbide, le braccia sottili, il collo slanciato e infine la testa di riccioli bruni, coprendola con un bacio di morbida seta. E il viso, gli occhi neri dal taglio allungato, le lunghe ciglia e le labbra serrate. Non sorrideva, Agnès, non sorrideva più.
    Non ce la faceva a vivere con la sua colpa, perché un’anima pura prende sopra di sé l’orrore della vittima e del carnefice.
    La nuova stagione cambiò i colori ai miei quadri, la tristezza profonda coprì di grigio le tele. Niente poteva consolare tanta solitudine e la vuota disperazione.
    Fermo, immobile, sulla stessa spiaggia, agitato da un vento freddo e minaccioso, sperai di vederla uscire dall’acqua.
    Vidi i colori del punto esatto in cui due mari si incontrano ma non si mischiano. Ognuno in superficie mantiene il proprio colore mentre, in profondità, le correnti inarrestabili creano forze contrarie e sciolgono gli appigli. Così era diventata la vita di Agnès.
    Ripiegai in quattro la lettera.
    La rimisi nella tasca interna del cappotto.
    Un freddo impalpabile mi sfiorò il collo, arrivando al centro del petto.
    Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato - pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.
  10. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Chi vive dalle mie parti, non è fortunato. Gli tocca solo mangiare, dormire, e il supplizio di un bar pieno di vecchi sciancati, ogni volta che ci entro per comprare il latte, inciampo a qualche gamba storta, per sbrigarmi a uscire. I ragazzi e le ragazze sono un discorso a parte, come la bellezza della scuola, nuova di zecca: ’ Istituto per Ragionieri Verrazzano’.
    All’uscita di scuola siamo in combutta per la stessa fermata, ma autobus diversi, io e Vida.
    Il mio gira per la borgata, il suo arriva fino ai Castelli, dopo parecchie fermate e dopo parecchi alberi.
    Vida è una figura ipnotica e umana, solo successivamente femminile, e mi dispiace proprio perderla di vista, anche solo per un pomeriggio.
    - C’è un vero tesoro nei tuoi silenzi, - mi dice ogni volta che ascoltiamo musica con una cuffietta per uno.
    Mi sbuffa il fumo in faccia, e mi lascia intendere qualcosa di profondo che non capisco.
    Il mio compagno di banco da due anni, Tony, sembra un personaggio immaginario, ma ha gli stessi ingredienti di un ragazzo buono e simpatico. Quando prende peso la sua testa si rimpicciolisce, sprofonda nelle spalle. Si esprime con difficoltà, si impunta, specialmente se interrogato.
    Piace a tutt’e due Vida, ma una ragazza non si può dividere in porzioni. Che poi, noi una ragazza non l’abbiamo mai avuta, siamo solo svelti a frodare il flipper con le rotelle del ferramenta, e a imbucarci al cinema attraverso le uscite di sicurezza non allarmate.
    Chissà come le è venuto in mente, un giorno, di invitarci a casa sua con la frottola di studiare insieme.
    Alle nove del mattino ci apre la porta con i capelli umidi di doccia e un accappatoio bianco lungo che non mostra nulla. La cucina è deserta, c’è solo una moka, gonfia di caffè caldo, e dei biscottini così piccoli, da prendere con le pinzette, come quando ti fai una canna e non vuoi sprecare nulla.
    - Non pensavo che sareste arrivati così presto, ma sono contenta, - dice, mentre piazza tre tazzine su una tovaglia di plastica.
    - Be’ Tony sta dalle otto sotto casa mia, nemmeno in bagno sono andato.
    - Qui ce ne sono due, vai a quello degli uomini, a quello delle donne c’è sempre la fila. Ride.
    Per cinque minuti le dita di Tony tamburellano sul tavolo della cucina un ritmo ossessivo, che nessuno ascolta.
    Attaccata al muro una collezione di orologi dozzinali fa più rumore del traffico sulla provinciale.
    - Ragazzi, cosa vi va di fare? - Non voglio vedervi annoiati.
    Trasformato in roditore, a bocca chiusa dico: Ascoltiamo musica?
    - Bravo, Andrea, pensaci tu, - dice, puntando un giradischi, due casse ravvicinate, enormi, e una collezione di 45 giri, catalogati come in un negozio del centro.
    Ubbidiente, metto un disco di Bowie, l’unico che conosco. Dopo le prime note mi giro per vederne l’effetto.
    Vida e Tony si baciano con furore.
    Perché ho messo quella canzone? Perché sono qui?
    Mi sento spacciato.
    Sconcertato faccio quello che non dovrei fare, cerco altre canzoni.
    Non ho il coraggio di girarmi. Si è spento il mio motore.
    Sento un fruscio alle mie spalle, sento l’odore di shampoo dozzinale, appena fatto.
    Mi giro. Le sue labbra si incollano alle mie. Un bacio intenso, forte, profondo.
    Per non soffocare, mi stacco bruscamente.
    - Non riesco a credere che stai facendo tutto questo per noi, - dico.
    - Avete fatto fuori un pacchetto di sigarette da dieci e una moka da sei, non ci vuole molto a capire che vi mancavano i miei baci. Ride.
    Finalmente Tony riacquista la parola.
    - Come me la gioco questa? - dice, pedalando al massimo su una cyclette da camera scorticata dagli anni e dal sudore.
    - Ci tengo molto a voi, ogni volta che comincio a odiare i compagni di classe, incrocio i vostri sguardi e mi rassereno, siete la mia medicina, dolce, - dice Vida.
    Faccio un mezzo sorriso, tipo quello che accompagna i non vedenti per farsi perdonare di essere ciechi. Se penso a quanto tempo sono stato senza una ragazza mi viene voglia di uccidermi, e lei si sta offrendo.
    Il momento meno intimo della mattinata diventa quando mi infilo un paio di infradito gialle trovate sotto il letto. - Abbiamo lo stesso numero, - dico raggiante, mentre nascondo i calzini in tasca sistemo le mie scarpe lerce nel porta riviste vuoto.
    - No, ti prego, sono di mia madre quelle.
    -Tua madre dorme qui?
    - Sì, dove la vuoi far dormire? In garage?
    - E che ne so io, tuo padre pure?
    - Non ce l’ho un padre.
    Tony mi tira un calcetto sulla caviglia e mi sbrigo a dire:
    - Non ti sei persa niente, sono solo una rottura di palle i padri. - Il mio pretende che la domenica stia due ore seduto a vedere come si abbuffa, per poi darmi cinquemila miserabili lire che mi bastano appena per la Cantina, e cinque sigarette Nazionali.
    Offrire un velo al suo imbarazzo per la perdita del padre, mi riesce abbastanza bene.
    - Ecco perché fai spesso l’autostop.
    - Tu cosa vuoi veramente, Vida?
    - Credevo di saperlo.
    I suoi occhi sono sotto una cascata di lacrime, la sua leggerezza è scomparsa, ora c’è posto per una sconcertante sconfitta personale.
    Guardo Tony atterrato sul bracciolo del divano con un tubetto di maionese che esce dalla tasca. Non ho altro fratello, altro amico, altro prossimo che Tony.
    - Scusatemi se vi ho piantati in asso, - dice. - Cercavo di farmi un panino e ho trovato solo la maionese.
    - In questa casa non c’è pane, io e mamma siamo celiache.
    - Insultami per quello che ho pensato.
    - E cosa?
    - Che fosse solo per perdere peso.
    - Ti sembro grassa? - Sono grassa solo qui, - dice, toccando il seno abbondante.
    Gli occhi di Tony sanguinano per come li spalanca, io bevo un altro caffè, mi specchio nella latta di una scatola di biscotti.
    Vida si mette in una specie di custodia punitiva, pentita di averci turbati, abbiamo un anno di meno per aver anticipato la scuola, siamo i suoi piccoli amici.
    - Mi ci porterete nella Cantina?
    - Certamente, se a te fa piacere, Vida.
    - Ma la Cantina sta proprio sotto sotto?
    - Dalle finestrelle con le sbarre si vedono le scarpe della gente che passeggia su via Ostiense, per fortuna c’è la retina.
    - E a cosa serve la retina?
    - A non far entrare gatti, topi e zanzare e a non farci sputare sulle scarpe dei passanti. Rido.
    - Ma quanto siete pazzi. Ride.
    - Dai, non ti spaventare, è un bel posto, allestito da bravi ragazzi, un po’ comunisti. Ma ascolti musica ‘House’, mica ‘ El pueblo unido ’.
    Si libera dell’accappatoio a un passo dall’armadio, facciamo in tempo lo stesso a vederla nuda. Indossa un abitino corto popolato di fiori. Per dirla in modo semplice, io e Tony la osserviamo orgogliosi e felici, come se ci appartenesse tutto quel colore.
    Tony trova una canzone dei Beatles, per un’illusione psichedelica i suoi ricci si mischiano ai disegni della carta sul muro.
    Agguanto Vida e faccio finta di ballare fino al marmo della cucina, solo per avere di nuovo un suo bacio.
    Tony sorride. Ho due chiazze di sudore sotto le braccia che arrivano fino alle tasche del jeans.
    Viscido di saliva, Vida, con un gesto improvviso riesce a sfilarsi l’unico anello che ha al dito, lo tira a Tony.
    - La mia vita ricomincia, - dice con la voce che non sembra di una sedicenne.
    -Tua madre lavora lontano? - chiedo mentre spedisco un barattolo di frutta sciroppata con il cucchiaino di Toni ficcato dentro, nel lavandino.
    - Ha un negozio di maglieria proprio all’angolo.
    - Se vende roba confezionata economica, ci andrò.
    - Fa maglioni su misura. -Tu scegli la lana, il colore, e lei con una macchina li esegue. -Te lo regalo io, un maglione fatto da lei, se mi dici il mese del tuo compleanno.
    - Non riuscirei a ricambiare
    - Insisto, Andrea, non mortificarmi.
    - Va bene, il mio compleanno è tra poco, a dicembre, ti farò assaggiare il vino di nonno mio che ho a casa, ma non vorrei apparire troppo campagnolo, troppo grezzo. Rido.
    - Hai detto ‘nonno mio’, si vede che gli vuoi molto bene.
    - Parecchio. Mi si lucidano gli occhi.
    - Dai che ti prendo le misure, e portami il vino, che a mamma piacerà di sicuro.
    Da un cassetto sfila un metro arrotolato, da sarto. Misura larghezza delle spalle, lunghezza delle braccia.
    Partendo dal collo arriva sotto la cinta. Il mio sguardo diventa ansioso.
    - Che hai paura che ti tocchi? Ride.
    Tony che segue la scena addossato alla lavatrice, ride pure lui.
    - Non sono abituato a farmi misurare, - tutto qui.
    - Devi dirmi il colore.
    - Avana, lo voglio avana e peloso, che si apre davanti con i bottoni. - Però lo pago, ho qualche lira favolosamente da parte, niente regali.
    - D’accordo, ti farò solo lo sconto, dirò a mia madre di anticipare i saldi invernali per te.
    - Sei un tesoro.
    - Lo so.
    Ora i mozziconi gettati dal balcone coprono metà del giardino condominiale, siamo nel cuore di un mattino freddo, la gente esce talmente coperta che non li vede.
    In disparte c’è un altro divano, elegante, ma con i cuscini di pelle sventrati.
    Vida ci si siede senza accavallare le gambe, i suoi occhi sono acquosi e neri in modo assurdo. Non se la sente di tenere il segreto.
    - Era il divano di papà. Ci stava le ore a leggere libri e giornali. Era uno scrittore, pure conosciuto.
    - Morto?
    - Macché, ci ha solo abbandonate.
    Dopo la rivelazione siamo meno contenti per quel boccone non inghiottibile.
    Nel più piccolo teatro che conosciamo sta per finire la nostra apparizione, io e Tony ce ne andiamo considerando che la vita per lei sarà bella comunque. La salutiamo con la mano, con rispetto per il suo dolore.
    A modo nostro ognuno è innamorato di lei, a modo nostro ognuno rinuncia a lei.
    Guardo Tony e mi commuovo, non mi aspettavo un esempio così potente della nostra amicizia. Lei resta sulla porta a osservarci, le scale si inclinano dolcemente verso un portone gigante.
    Le nostre ombre appuntite si allontanano in fretta. Eravamo stati lì solo perché avevamo finito i posti dove non eravamo mai stati, ci sforziamo di pensare .
    Vida non percepisce la nostra sofferenza, il nostro finto cinismo, e grida dal balcone:- Tornate quando volete, - pure se c’è mia madre.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano.
    "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
  11. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Livia aveva letto ad alta voce quell’incipit con trasporto, come se stesse rivelando al mondo il terzo segreto di Fatima.
    «Balle, tutte stronzate!» Mirna sbottò colpendo con il palmo della mano il comodino, quindi con uno scatto repentino, le strappò il libro di mano e lo chiuse con rabbia. La foto sbiadita dei suoi vent’anni sussultò leggermente rischiando di rovinare a terra e frantumarsi, mentre un refolo di polvere nascosto dietro la cornice si sollevò volteggiando leggero nell’aria.
    Livia tenne a bada l’istinto di risponderle a tono.
    «Che c’è che non va in quello che ho letto? Io, lo trovo straordinario.»
    Se avesse buttato una goccia d’acqua in una padella con l’olio bollente, non avrebbe ottenuto lo stesso effetto. La donna schizzò fuori dal letto strillando:
    «Ah, sì? Chi si accontenta gode, vero? Tutte cazzate da sfigati, ecco come la penso.»
    «Cerca di non essere volgare.»
    «Oh, la sorella si offende!»
    Livia glissò, consapevole che una reazione avrebbe provocato un putiferio. Posò un bicchiere colmo d’acqua sul comodino, accanto alle pillole: due mezzelune pallide.
    Mirna aprì la bocca come per ricevere la comunione, si attaccò al bicchiere e bevve con avidità pulendosi le labbra con il dorso della mano. La crisi era scongiurata.
    Livia le rimboccò le coperte e deterse con cura la fronte imperlata di sudore.
    Mirna le rivolse uno sguardo assente prima di congedarla.
    «Ora vai, è tardi. Ah, prima di uscire porta via quella porcheria» disse indicando il libro.
    Livia infilò in fretta il cappotto, si accomodò i ricci sotto un cappello di lana cotta a tesa larga, con lo sguardo perso a cercare dentro di sé un motivo per tornare l’indomani. Prese il romanzo, lo infilò nella capiente borsa di tela con il logo della “Libreria Castello”, e uscì dalla camera senza emettere un fiato.
    Scese le scale di corsa, trattenendo le lacrime di frustrazione che bussavano con insistenza sotto le palpebre.
    “Le più pazienti hanno resistito al massimo per due settimane”, le parole di padre Emiliano rimbalzavano da una tempia all’altra. Aveva cominciato a occuparsi di quella donna già da tre mesi e, se “avesse gettato la spugna”, rifletté, “non sarebbe stato poi così grave”.

    La Libreria Castello offriva un servizio in collaborazione con la struttura diretta da padre Emiliano Cardelli. L’idea era quella di portare il conforto della lettura di un buon libro a chi soffriva di solitudine o depressione. Livia aveva aderito alla proposta con entusiasmo, donare parte del proprio tempo a fin di bene non poteva nuocerle; quindi, oltre a fornire i libri, si era offerta come volontaria per quel servizio di lettura a domicilio.
    Certo Mirna l’aveva messa a dura prova più di una volta, ma c’era qualcosa di magnetico in quella quarantenne sfiorita e lei non riusciva a sottrarsi a quel potere.
    Una buona doccia, ecco quello che ci voleva.
    Livia adorava sentire il lieve picchiettare delle gocce sulla testa e lasciarsi allagare il volto dall’acqua tiepida restando a occhi chiusi. In quell’istante perfetto, le tensioni si scioglievano cedendo il posto a una deliziosa sensazione di benessere. L’acqua scivolava sulla pelle liberando i pensieri. Allora, si tappava le orecchie per ascoltare il ritmo del proprio battito cardiaco. Quella musica ancestrale la riportava dentro al grembo materno come se, in quel preciso momento, la vita, scorrendo a ritroso, le concedesse il tempo di ricordare di quando aveva quasi cinque anni e si era ritrovata catapultata a Bagni di Lucca.

    La piccola casa è immersa nel verde e nella solitudine della campagna lucchese. Poco lontano dall’abitazione scorre un torrente che, a causa della siccità estiva, è ridotto a un rigagnolo insignificante e facile da attraversare.
    Sull’argine opposto, un contadino ha realizzato un orticello e un pollaio, unico segno tangibile della presenza umana nei paraggi. Quel luogo diventa ben presto il proprio rifugio preferito. Ogni giorno, lei resta ore a osservare le galline di nascosto e, sicura di non essere vista, parla e a gioca con loro. Da quando le ha scoperte, non si è più sentita sola: Esterina, Cocca, Piumetta e Beccuccia sono le amiche migliori che abbia mai potuto desiderare.
    Un pomeriggio, il contadino si avvicina alla rete che delimita il recinto e, con sua grande sorpresa, aprendo il cancelletto, la invita:
    “Entra pure, devo consegnarti un regalo da parte di Piumetta.”
    Si sente avvampare per la vergogna di essere stata scoperta; il cuore perde almeno un battito e le gambe non riescono a decidere se correre verso casa o accettare l’invito di quel vecchio.
    L’uomo indossa stivali in gomma alti fino al ginocchio, dei pantaloni chiazzati di fango e una camicia a quadri bianchi e blu. Annodato sul collo ha un fazzoletto scuro da cui spunta un ciondolo con la foto in bianco e nero di una bambina; sulla testa porta un cappello di paglia un po’ logoro. Non lo ha mai osservato così da vicino perché, quando lo sente arrivare, scappa sempre via di corsa per non farsi vedere. Ora, quegli occhi la fissano in attesa di una risposta e sembrano occhi buoni.
    Il pollaio, che visto da fuori pare una casetta da fiaba, è una costruzione in legno così bassa che l’anziano deve curvare le spalle e piegare le gambe per passare dalla porta. Lei, al contrario, ci riesce senza alcuno sforzo ma, una volta entrata, la delusione è grande: piume ed escrementi dappertutto. La finestrella, senza vetri, rivestita di una fitta rete metallica, non è sufficiente per aerare adeguatamente quel luogo e la poca aria che circola è irrespirabile.
    Il contadino comincia a rovistare in mezzo a una specie di pagliericcio borbottando tra sé e sé, mentre lei stringe con forza le narici tra il pollice e l’indice per non sentire quel cattivo odore respirando a fatica solo con la bocca.
    “Ah, eccolo qua... Trovato! Questo è per te.”
    Si stupisce nel vedere come quelle mani grosse, ruvide e callose riescano a sorreggere un uovo con tanta delicatezza.
    “Apri le manine e fai attenzione, non lo stringere ché si rompe.”
    Mette le mani a conca per accoglierlo. È ancora tiepido e lei non si accorge subito di quanto sia speciale.
    Quando esce all’aperto, l’osserva meglio. Il guscio è tutto pieno di disegni colorati! Ci riconosce: la faccia di una bambina che le somiglia molto, con le lentiggini e le trecce bionde proprio come le sue, una gallina color terracotta col becco e le zampe di un arancione vivo e un occhietto nero e vispo e poi, tanti fiori e alcune lettere. Non ha mai visto un uovo simile. Continua a rigirarlo tra le mani, incredula e orgogliosa. È un dono inatteso, non ha fatto nulla per meritarlo, non è neppure il suo compleanno.
    Non sa ancora leggere e così, curiosa, chiede cosa ci sia scritto. Allora, il vecchio tira fuori dal taschino un paio di occhiali con le lenti mezze incrinate, li indossa con misurata lentezza e, avvicinatosi al guscio, lo esamina come se lo vedesse per la prima volta; quindi, comincia a sillabare con voce incerta:
    “Li... Liv... Livia!”
    “Ma Livia sono io! Allora è proprio per me! Ma come fa Piumetta a sapere come mi chiamo?”
    “Le galline sono animali un po’ magici. Si vede che le stai simpatica.”
    Non le servono altre spiegazioni, è al settimo cielo.
    "Posso andare a ringraziarla?”
    L’uomo sorride e fa un lieve cenno di assenso con la testa, mentre la segue con lo sguardo pieno di nostalgia e di tenerezza.


    Livia lasciò che l’acqua scorresse sul collo. Era stato bello ritrovare quell’emozione, quella gioia incontaminata.
    Ripensò alla reazione di Mirna e alla decisione di non tornare più da lei. Non era la prima volta che sentiva l’esigenza di distaccarsi, anche se, alla fine, aveva sempre trovato un’ottima scusa con sé stessa per non farlo.
    Uscì dalla doccia e si avvolse nell’accappatoio caldo e profumato di pulito, quindi cercò il conforto della musica: le note di Cry me a river invasero la stanza, perfette per quel momento.
    Cercò il cellulare e compose il numero di padre Emiliano: due squilli e riattaccò. Non era ancora il momento di arrendersi.
    Scese dal letto con i pensieri e lo stomaco aggrovigliati. Aprì il frigorifero, ne estrasse un uovo, poi lo depositò sul tavolo e cercò dei pennarelli. Disegnò un cuore, un fiore e scrisse il nome: Mirna. Poi, accese il pc, si scrocchiò le dita e iniziò a pestare sui tasti con foga.
    Non era certa che la sua idea potesse funzionare, ma decise ugualmente che valeva la pena fare un tentativo. Era immersa nella scrittura, quando lo smartphone cominciò a vibrare:
    «Ciao Livia, ho visto che mi hai cercato.»
    «Buonasera padre, deve essere partita una chiamata per errore, va tutto bene.»
    L’odore buono del caffè saturò la piccola cucina, mentre il leggero stridore della stampante faceva da sottofondo sonoro. Chissà come avrebbe reagito Mirna ascoltando quella storia.

    Suonò il campanello piena di aspettative che neppure i passi strascicati e pesanti della donna riuscirono a smorzare. Mirna indossava una vestaglia slargata, di un colore rosso sbiadito, pantofole fuori misura, aveva i capelli in disordine e la voce impastata quando, dopo qualche minuto, le aprì:
    «Hai coraggio, sorella.»
    Livia non si lasciò intimidire, era decisa a portare un granello di gioia in quella vita sciagurata. Avrebbe condiviso con lei il ricordo del suo primo attimo felice. Quell’istante in cui l’Universo intero sembra accorgersi della tua presenza e ti fa sentire viva. Un atto d’amore che avrebbe sancito il senso di quella strana simbiosi che si era creata tra loro.
    Lesse il racconto come si legge una fiaba a una bimba e Mirna non la interruppe mai.
    Infine, tirò fuori dalla borsa il pacchetto che conteneva l’uovo che aveva colorato per lei e glielo porse, cercando il contatto di quelle mani.
    La donna la fissò e, per un istante, a Livia parve di cogliere la piega di un sorriso su quel volto: un piccolo lampo prima della tempesta. L’ennesima crisi sopraggiunse con insolita violenza spezzando, con fragore inatteso, quel filo invisibile che le teneva unite. Di quello, non restò che un moccio d’albume a colare dai capelli.
    «Pronto, padre Emiliano?» Al terzo squillo l’uomo rispose e Livia non riattaccò: non sarebbe più tornata da Mirna. Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano. "Nel complesso", rifletté, "sarebbero potute andare decisamente peggio".
  12. .
    CITAZIONE (Arianna 2016 @ 27/11/2020, 18:48) 
    So che è scritto nel regolamento, ma sono un'insicura patologica e chiedo conferma: posso arrivare a 11.000 battute (10.000 più il 10%) e incipit ed excipit non vengono conteggiati nelle 11.000?

    esatto
  13. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive. È sempre stato così, solo che non ce ne siamo mai accorti per davvero, intenti come eravamo a rincorrere sogni troppo grandi da lasciare ad ammuffire dentro un cassetto. Avevamo tutto e non lo sapevamo. Poi arrivarono gli anni del buio e tutto cambiò. Prima i morti per la malattia, poi quelli per la crisi economica: imprese chiuse, licenziamenti, scontri di piazza e in ultimo i suicidi. All'inizio non tantissimi, ma in assenza di aiuti importanti e con la perdita della speranza, per un periodo piuttosto lungo si arrivò a contarne più di cento al giorno. Lo stato e il governo, come al solito, si trincerarono dietro il muro della loro incapacità, ignorando quel malessere e adoperandosi unicamente per arginare la violenza dilagante. Anche la mia città non faceva eccezione. Come tanti avevo perso il lavoro, però preferivo impiegare il mio tempo in maniera utile, piuttosto che macerare lentamente nella disperazione. Così avevo preso ad aiutare Don Fausto, il parroco del mio quartiere, con la gestione della mensa per i poveri e con le consegne a domicilio dei pacchi spesa per i vecchietti più disagiati. Un pomeriggio, mentre stavo apparecchiando con altri volontari i tavoli per la cena, mi si avvicinò. Mi guardava con un'espressione bizzarra, uno strano mix di compiacimento e perplessità. Gli occhi gli brillavano di una luce intensa e un sorrisetto appena accennato gli decorava gli angoli della bocca.
    «Davide, oggi ho parlato con tua madre» mi disse prendendomi sottobraccio e accompagnandomi lentamente nel suo ufficio.
    La cosa non mi sorprendeva visto che mamma era un'assidua frequentatrice della parrocchia. Mio padre era morto da qualche anno e per lei la chiesa
    rappresentava una sorta di svago dai brutti pensieri.
    «Mi ha portato la sua favolosa torta di mele e abbiamo chiacchierato un po' del più e del meno. Ho scoperto che quando eri più giovane hai lavorato come animatore nei villaggi turistici.»
    «Sì, è così» dissi sorridendo e accomodandomi sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Ricordare quel periodo mi metteva di buon umore. «Mi piaceva da matti quel lavoro, anzi, non era neppure un lavoro, ma uno spasso. Far divertire le persone mi faceva sentire così vivo! Poi dopo i trent'anni ho abbandonato tutto per un'occupazione che mi desse maggiore stabilità.» Quell'ultima parola mi strappò una risata cupa, congelando d'un botto la mia allegria.
    «Non devi fartene una colpa, nessuno sa cos'ha in serbo il futuro per ognuno di noi» disse Don Fausto, cercando di rincuorarmi. «Se all'epoca hai scelto così vuol dire che così doveva essere.» Continuava a guardarmi in modo furbesco, sempre con quel mezzo sorriso di chi la sa lunga. «Sai, credo che se anche non hai studiato teologia, tu non sei tanto diverso da un prete.»
    Quella battuta mi fece riappacificare con la gioia. Risi di gusto, cosa che ultimamente accadeva assai di rado. Un prete io? La cosa era esilarante. Mi domandai se Don Fausto avrebbe continuato a pensarla a quel modo anche dopo essere venuto a conoscenza dei miei peccati di gioventù.
    «No, dico davvero» confermò il sacerdote, ridendo con me. «In fondo anche quello che facevi in passato aveva a che fare con la cura dell'anima. Far divertire le persone ti faceva sentire bene, anzi vivo, per usare le tue parole. Non sai quanto sia importante e meritoria questa attività. Soprattutto oggi.»
    Mentre pronunciava quelle parole il suo sguardo si era fatto più intenso.
    «Ti sei accorto che nessuno è più felice? E non parlo della felicità con la effe maiuscola, quella che se sei fortunato ti può capitare di sfiorare poche volte nel corso di un'esistenza. No, parlo della felicità semplice, quella delle piccole cose, dei piccoli miracoli della vita.»
    «Già» risposi con mestizia. Le cose stavano proprio in quei termini. «C'è una gran desolazione. Tutti quei poveretti là fuori sembrano un mucchio di
    anime pronte per il macello. Anche io a volte mi sento così.» Un po' mi vergognavo a dire quelle cose proprio a Don Fausto, ma era la verità.
    «Davide, neppure il vaccino è riuscito a riaccendere la speranza. Sul mondo è calata una cappa scura che impedisce al sole di colorare il cammino degli uomini. Siamo esseri di luce e di energia...Non siamo stati programmati per vivere una vita in bianco e nero troppo a lungo. Il corpo ha bisogno di essere nutrito, ma la stessa cosa vale per lo spirito.»
    Si lasciò scappare un sospiro, poi alzò lo sguardo al soffitto. «Dobbiamo fare qualcosa, dare un segnale, un piccolo esempio. Non possiamo stare fermi e assistere al disastro.»
    Fissai Don Fausto ammutolito: potevamo davvero fare qualcosa? In tutta sincerità credevo di no, poi lui mi spiegò ciò che aveva in mente.

    La bottega della felicità, così la chiamammo, un luogo dove gli abitanti del quartiere potevano dimenticare la disperazione nutrendosi di vita. Don Fausto si ispirò alle antiche botteghe rinascimentali, luoghi di salvezza dell'anima, rifugi in cui era possibile imparare un'arte o una professione e sviluppare le proprie inclinazioni. “Il corpo ha bisogno di essere nutrito, ma la stessa cosa vale per lo spirito”, aveva detto la volta in cui mi aveva esposto il progetto. Così iniziammo a scandagliare il territorio locale in cerca di musicisti, pittori, ballerini, disegnatori, attori, scrittori e poeti, artisti e uomini di mestiere, gente disposta a insegnare e condividere con gli altri un po' della propria arte e del proprio sapere. Imparare un accordo di chitarra, il passo di un ballo, l'uso sapiente dei colori, la costruzione di una rima, recitare un passo dell'Amleto, forse erano piccole cose, tuttavia col tempo mi accorsi che contribuivano a far stare meglio le persone. In un paese senza lavoro, dove i sussidi statali erano sempre inferiori ai bisogni reali e dove le mense per i poveri aumentavano giorno dopo giorno, erano come delicate carezze per l'anima.
    In tutto questo io davo il mio contributo: consolavo, consigliavo, ascoltavo. Sì, soprattutto ascoltavo, perché era la cosa di cui la gente aveva più bisogno. Misi mano anche a parte del repertorio che utilizzavo nella mia vita
    passata da animatore: in fondo è anche per quello che Don Fausto mi aveva coinvolto nel suo progetto visionario. Organizzavo giochi, mettevo della musica, insomma, cercavo di tenere su il morale nei limiti del possibile. Una cosa mi riuscì meglio delle altre. Ogni venerdì pomeriggio, prima di chiudere, mettevo su Hymn for the weekend dei Coldplay. Ci radunavamo tutti nel piazzale antistante la bottega e iniziavamo a ballare come nel video. Al posto delle polveri colorate lanciavamo in aria fiori di carta di ogni colore, realizzati nel corso dei nostri laboratori creativi. Col tempo divenne qualcosa di unico: ballavamo tutti senza vergogna e senza pudori, ridendo o piangendo, così come ci andava, in una sorta di comunione atta a esorcizzare il male. Sì, quello era il nostro manifesto alla resilienza, in attesa di giorni migliori.

    Nella mia via abitava un uomo di circa settant'anni che era rimasto vedovo da poco. Lo vedevo spesso camminare per strada, ingobbito, lo sguardo basso. Non parlava con nessuno, rintanato com'era nel suo guscio di dolore. Era come se avesse arrotolato la sua anima, come si fa con un vecchio tappeto abbandonato in soffitta. Mi dispiaceva vederlo in quello stato, così un giorno lo avvicinai per invitarlo alla bottega della felicità. Non mi prestò molta attenzione, anzi, non mi rivolse neppure la parola, perciò quando qualche tempo dopo lo vidi venirmi incontro alla bottega restai sorpreso.
    «Cos'è che fate di preciso, qua?» mi chiese Giuseppe, grattandosi la testa.
    «Un po' di tutto» risposi con un sorriso ebete sulla faccia. «Pittura, chitarra, recitazione e tante altre cose. A lei cosa piace fare?»
    «Di sicuro non mi piace suonare. E neppure dipingere o recitare. Per caso avete un orto?»
    «Un orto?»
    «Sì, quei piccoli pezzi di terra dove puoi coltivare ogni genere di ortaggi.»
    «So cos'è un orto» risposi sorridendo e scuotendo la testa «però no, non ce l'abbiamo.»
    «Oh!» esclamò rattristandosi, «è un vero peccato. Mia moglie aveva sempre
    desiderato che coltivassi un piccolo orticello, ma la mia pigrizia ha sempre avuto il sopravvento. Non ci ho mai provato, e ora... Insomma, credevo che ora avrei potuto esaudire quel suo desiderio, anche se con qualche anno di ritardo.» Giuseppe guardava un punto indefinito alle mie spalle: aveva gli occhi lucidi. Alzò la mano per salutarmi, poi si girò, ma io lo fermai. Non volevo che se ne andasse così; d'altra parte quella era o no la bottega della felicità? Dietro la chiesa, al confine col campetto da calcio, c'era una striscia di terreno dove erano accatastate un po' di cianfrusaglie: vecchie panche, una lavatrice rotta, carcasse di biciclette. Pensai che magari potevamo sfruttare quello spazio in un altro modo e fu così che l'orto si aggiunse all'elenco di tutte le nostre attività ricreative. Tra me e Giuseppe si instaurò un bel rapporto, di profondo affetto, e appena mi era possibile lo aiutavo. Lui era di poche parole, ma ricordo con piacere una chiacchierata che facemmo sul finire di agosto, mentre eravamo impegnati a seminare zucchine, lattuga e carote.
    «Sai Davide, sono contento di averti conosciuto» mi disse mentre trafficava col terreno. «La mia adorata moglie, pace all'anima sua, mi ha regalato quattro belle figlie, ma io avrei tanto voluto un maschio. Mi sarebbe piaciuto portarlo a vedere la partita, oppure al parco per tirare quattro calci a un pallone, ma non ce la siamo sentita di fare un altro tentativo. È buffo, ma quando siamo insieme faccio finta che tu sia quel figlio che ho sempre desiderato.»
    «Anche io faccio finta che tu sia un po' il mio papà» risposi d'istinto. Mio padre era morto all'età di cinquantasei anni e non me l'ero goduto appieno. Forse quella confessione non era poi così lontana dalla verità.
    «Sono contento» rispose lui, regalandomi uno dei suoi rari sorrisi. «Spesso bisogna giocare a ingannare la realtà. Dobbiamo godere delle piccole cose e imparare ad apprezzare il momento.»
    Quella sera, quando ritornai all'appartamento che dividevo con mia madre, vidi mio fratello e mia nipote sulla bici, davanti al cancello, pronti per andare via. Venivano spesso a trovarci. Udendo la mia voce, Gaia si girò nel seggiolino posteriore, gratificandomi con un sorriso colmo di sorpresa e di gioia. Corsi verso di lei e l'abbracciai. Mentre la stringevo pensavo che il momento perfetto esiste: sarei potuto rincasare cinque minuti dopo e non trovarla, oppure cinque minuti prima e salutarla dentro casa, ma l'effetto non
    sarebbe stato lo stesso. Quando mi salutò con la manina e si allontanò col suo papà, un groviglio di emozioni mi strinse le viscere. Pensavo a Gaia, alle parole di Giuseppe, alle persone della bottega della felicità, al mondo che galleggiava nel caos e soprattutto a quelli che non facevano nulla per migliorare quella situazione. Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva ancora pompare: “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”
  14. .
    È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie, pensò Lady Georgiana tra sé e sé. Poi, con sguardo ammiccante, si rivolse ad Arthur, che sedeva accanto a lei: “Il principe d’Orange è un uomo davvero affascinante”, disse Georgiana indicando il re dei Paesi Bassi con lo sguardo. E aggiunse: “È alquanto balzano che il suo primo fidanzamento sia naufragato come una nave in balia della tempesta.”
    Arthur allontanò il piatto d’argento che aveva davanti, disgustato da quel filetto che grondava sangue: “Guglielmo è uno tra i sovrani più rispettati d’Europa, un eccellente soldato e un grande condottiero. Sono sicuro che appena questa campagna finirà, saprà ben scegliere una degna consorte tra la schiera di pretendenti che affollano la sua corte.”
    Lady De Ros accennò un sorriso e sospirò: “Beata la fortunata che sarà scelta tra loro.”
    Arthur si asciugò la bocca dopo aver bevuto un sorso di vino, rimase per qualche secondo in silenzio e poi disse: “Non sarete invidiosa, Lady De Ros! Quanto a ricchezze e virtù, mi sembra che vostro marito non abbia nulla da invidiare al principe.”
    Lady Georgiana rise imbarazzata portando la mano guantata davanti alla bocca. Arthur attendeva la risposta della dama alla sua velata provocazione, fissandola negli occhi. Lady De Ros era una donna molto affascinante, il vestito color perla che indossava risaltava la lucentezza della sua pelle leggermente brunita, che Arthur ammirava dalla scollatura sino alla fronte, sopra la quale erano raccolti a mo’ di turbante lunghi capelli dal color dell’ebano. Sir Wellesley, in un crescendo di pura debolezza, sentiva stringere dentro di sé la morsa del desiderio, che riuscì a controllare abbandonandosi per qualche istante al profumo di mughetto che Georgiana diffondeva nell’aria a ogni suo movimento.
    Gli occhi magnetici di Lady De Ros ricambiavano lo sguardo con la stessa intensità, ma l’estasi nascosta di Arthur fu bruscamente interrotta dall’arrivo del suo aiutante di campo. L’ufficiale gli si avvicinò sussurrandogli qualcosa all’orecchio, prima di porgergli una pergamena arrotolata.
    Georgiana non smise di guardare di Arthur mentre leggeva il dispaccio. Lo vide cambiare completamente espressione; la fronte era corrucciata, mentre nei suoi occhi andava spegnendosi la luminosità della spensieratezza di poco prima. Il suo viso diventò una maschera cupa e scura.
    “Sir Wellesley, cosa vi turba adesso?” chiese Georgiana con un filo di voce. E riprese, alzando il tono: “Suvvia, qualsiasi cosa sia, non rovinatevi questa splendida festa. Tra poco verranno serviti i dessert, dopodiché potremo finalmente danzare. E sarei molto onorata di concedervi un ballo.”
    Tra gli invitati serpeggiava il buonumore, la cena fu assai gradita e il vino dette il suo contributo accendendo l’allegria anche tra quei commensali in cui pareva sopita. Oltre la grande tavola, verso il maestoso camino in fondo alla sala, la servitù stava predisponendo gli arredi per il ballo successivo alla cena. La luce delle candele rifletteva nei marmi lucidi e nei cordoni dorati che fissavano i tendaggi agli angoli degli ampi finestroni. Fuori, grosse nuvole nere incombevano minacciose nel cielo tempestato di stelle e l’ultimo raggio di luna scomparve tra le folate di vento.
    “Lady Georgiana, per nessun motivo rinuncerei a ballare con voi questa sera. Nemmeno la più funesta notizia mi toglierà questo privilegio” disse Arthur cercando di cambiare l’espressione del volto, senza riuscirci.
    Lady De Ros sorrise: “Ne ero sicura!” Nonostante questo, però, la dama percepiva bene tutto il malessere che aveva invaso l’animo di Sir Wellesley e che, da quel momento, sembrava stesse contagiando tutti i presenti come un morbo infernale.
    “Notizie dalle avanguardie?” sussurrò dunque ad Arthur.
    Il duca di Wellington fece un lungo sospiro: “Le truppe francesi muovono verso il confine. Presto dovrò tornare al posto di comando. E lo stesso sarà per tutti i valorosi ufficiali presenti in questa casa.”
    “Godiamoci dunque questi ultimi istanti di letizia, prima che i venti di guerra li soffino via come granelli di polvere” rispose Georgiana con squillante amarezza.
    Il lumicino del divertimento parve essersi spento di colpo. Alcuni invitati iniziarono ad abbandonare la tenuta di Richmond per raggiungere le proprie truppe. Il malumore per una battaglia che d’improvviso era diventata imminente rimbombava tra le mura della lussuosa dimora. La festa era rovinata. E per molti tra i presenti, sarebbe stata l’ultima.

    “Questo piccolo inglese ha bisogno di una lezione!”
    La pioggia cadde incessante fin oltre le otto del mattino. I generali arrivarono alla spicciolata a Le Caillou, dove l’imperatore li attendeva per impartire gli ultimi ordini circa la battaglia imminente. I sottopancia dei cavalli grondavano fango liquido, il teatro degli scontri si era trasformato in un grosso pantano.
    Sarebbe stato difficile muovere l’artiglieria in una simile palude. L’imperatore, ufficiale d’artiglieria agli inizi della carriera militare, contava molto sull’utilizzo dei suoi cannoni. Tant’è che da sempre manteneva personalmente il comando di quei reparti. Le condizioni del terreno purtroppo, ne rallentavano la manovra e la superiorità numerica diventava del tutto relativa. Le avverse condizioni metereologiche fiaccarono financo l’animo guerrafondaio della cavalleria e della fanteria, inzuppato dalla pioggia fredda del cielo mista al fango tiepido della terra.
    L’imperatore ebbe uno scatto d’ira e tirò un pugno sul tavolo di legno. Gli spilli dalla capocchia colorata puntati sulla mappa saltarono. Nessuno tra i presenti osò proferir parola. Per un attimo, il sovrano sembrò in preda a una collera irreversibile. Poi il suo volto si distese e con calma iniziò a rimettere a posto ciascuno spillo: quelli con la capocchia blu su Ligny e Quatre-Bras, quello giallo su Mont-Saint-Jean e il nero su Wavre. Rimase per qualche istante ancora con lo sguardo basso a guardare la mappa: prese un altro spillo, di colore rosso e lo puntò più a nord. Quel punto corrispondeva al luogo dove le truppe alleate avevano stabilito il loro quartier generale: Waterloo.
    Per cercare di smorzare la tensione che si era creata nello strano silenzio di quella riunione di alti ufficiali, il maresciallo Soult cercò di riportare nell’imperatore quell’ottimismo che aveva esternato fino a poco prima.
    “Dovete sapere, Sire, che nell’attesa della sconfitta, gli inglesi hanno pensato anche al divertimento.”
    “Davvero?” disse sorpreso l’imperatore.
    “Le nostre spie hanno svolto un lavoro eccellente” spiegò Soult. E continuò: “Due notti fa, il duca di Wellington e la maggior parte dei suoi ufficiali hanno partecipato a una festa presso la tenuta di Richmond, su espresso invito della duchessa Charlotte e suo marito.”
    L’imperatore sembrò sorpreso. Non s’impressionava facilmente, ma in quell’occasione si domandò con quanta sfacciataggine gli inglesi pensassero al divertimento invece di preoccuparsi delle prossime operazioni belliche. Disse soltanto: “C’è altro, maresciallo?”
    “Durante la festa iniziò a girare la voce che le nostre truppe muovevano verso il confine. Le spie ci riferiscono di quanto questa notizia abbia agitato gli animi di tutti i presenti.”
    Soult fece una pausa, poi esclamò: “Davvero bizzarro il comportamento di questi inglesi. Se gli abbiamo rovinato la festa in quell’occasione, ci faremo perdonare poiché il vero ballo sarà oggi!”
    La battuta fece scoppiare i presenti in una risata generale. Anche l’imperatore sorrise, alzando per un momento lo sguardo dalla mappa.

    Le onde s’infrangevano rumorose sulla prua della nave. Era impossibile scrivere in mezzo a quella burrasca. Eppure, certi pensieri avrebbero avuto bisogno, per vivere, di essere immortalati sulla carta. L’inchiostro del calamaio bolliva come il suo animo sconfitto. Era come se quello strano racconto dovesse compiersi prima della fine del viaggio. Un viaggio che, sapeva benissimo, sarebbe stato senza ritorno.
    Non aveva accettato la sconfitta, né mai lo avrebbe fatto. Ricordava bene tutto l’ottimismo che aveva coltivato, la sicurezza che era riuscito ad infondere ai suoi ufficiali, ai suoi soldati. Uomini che impavidi andavano incontro alla morte in una battaglia già vinta. Un’umiliazione grande, pesante come un macigno. Il concentramento di queste sensazioni negative non riusciva a scalfire la tempra di quell’uomo d’acciaio, ridotto a un barile che rotola nella stiva di una nave in balia delle onde.
    Qualcosa che lo scuoteva più del resto c’era, e non riusciva a toglierselo dalla testa. Più che un pensiero, un’immagine, tante immagini. Volti deturpati, insanguinati, col respiro mozzato; gli occhi cavati, le orecchie tagliate, le gole trafitte. Una schiera infinita di cadaveri che gridava vendetta, che chiedeva il perché di una morte a cui lui, l’imperatore, era sfuggito. Un coro di voci in sottofondo, che andavano e venivano insieme alle onde.
    Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato. Pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.
    Forse non era così che dovevano andare le cose. Ma così stavano. “Nel complesso”, rifletté, “sarebbero potute andare decisamente peggio.”
  15. .
    La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
    Il vecchio Gustave guardava fuori dalla finestra. Fissava un punto lontano, il solito, quello dal quale, quasi tutti i giorni da più di dieci anni, vedeva comparire la Ford blu elettrico di Thomas.
    Piovigginava appena e forse, visto il tempo, questa volta avrebbero rinviato il giro programmato per quella giornata. Gustave si era finalmente alzato dalla poltrona, facendo fatica ad appoggiare la gamba. Dopo qualche passo per raggiungere la finestra sentì il dolore, la fitta che conosceva bene e che non l’aveva risparmiato nemmeno quel giorno. Pungente e implacabile come una spina conficcata nelle carni, spesso ricompariva per ricordargli la tremenda caduta da cavallo di vent’anni prima, avvenuta durante una gara di equitazione. Se non fosse caduto, quella volta avrebbe certamente vinto per la terza volta di seguito la competizione.
    Quando all’improvviso vide all’orizzonte l’auto sbucare da dietro il sentiero che serpeggiava fino alla casa dove abitava, un’ondata di calore gli scaldò il petto.
    Forse quel pomeriggio non sarebbero usciti, ma come promesso Tommy era passato lo stesso da lui, anche solo per un breve saluto o una piacevole chiacchierata.
    “Nonno Gustave, eccomi, sono arrivato” esclamò Thomas quando comparì dalla porta del salotto, gettando chiavi e zainetto sul divano mezzo sgualcito posizionato in mezzo alla stanza.
    Aveva le chiavi della casa, quindi poteva entrare e uscire senza che fosse bisogno che il nonno andasse ad aprirgli. Gustave viveva solo in casa da quando la moglie, nonna Vera, dopo cinquant’anni di vita insieme, era morta per una complicanza polmonare.
    Il sorriso sincero di Thomas illuminò la stanza e i piccoli occhi azzurri del vecchio, che aspettava quelle visite come un campo arido d’agosto aspetta la pioggia.
    “Come è andato lo scritto di anatomia?” fu la prima cosa che chiese il vecchio, sapendo che quella mattina suo nipote era andato all’università per sostenere l’esame.
    “Bene” rispose orgoglioso il nipote “ma ho un’altra prova orale prima di poter dire di averlo superato.”
    Thomas raccontò al nonno i quesiti e gli argomenti che erano stati oggetto di esame e il nonno ascoltava attentamente e faceva domande inerenti alla materia che lui conosceva bene. Aveva studiato medicina e la mente, che ancora era lucida a dispetto di un fisico provato dall’età avanzata e dai diversi incidenti di percorso, ripercorse con esattezza cronologica i suoi successi accademici di un tempo. Si era laureato in medicina e chirurgia con il massimo dei voti e subito dopo aveva frequentato un dottorato di Ricerca Internazionale in Medicina Molecolare a Parigi, che gli aveva aperto le porte per una brillante carriera come primario del più importante ospedale della città.
    Mentre raccontava, Thomas preparò del the per sé e per suo nonno, poi si rilassò sulla poltrona.
    Nel frattempo, la pioggerellina fastidiosa che aveva reso fino a quel momento la giornata umida e uggiosa, aveva smesso di cadere. Un sole tenace e splendente era riuscito a farsi spazio tra le nuvole che si allontanavano spinte dal vento debole ma costante, liberando finalmente il cielo.
    Decisero allora di approfittarne per uscire, prendere la macchina e raggiungere il grande parco poco distante per fare una passeggiata.
    Dopo aver parcheggiato sulla via adiacente, il ragazzo lo aiutò a scendere dalla macchina. Il venticello accarezzò il viso di nonno Gustave e l’aria fresca, dopo la pioggia di quella mattina, gli donava una piacevole sensazione sulla pelle ruvida e rugosa del viso.
    Gustave apprezzava quei momenti. La casa dove si era ritirato era un vecchio maniero in mezzo a un campo che una volta era coltivato, ma che adesso era quasi abbandonato a se stesso. Dall’esterno sembrava più una capanna che una vera e propria abitazione e anche l’interno, poco curato e dalla mobilia semplice e antica, dava l’idea di una dimora abbandonata.
    Ma Gustave amava quella casa. Era la casa dove era nato e dove aveva passato i suoi anni giovanili prima di trasferirsi in città per studiare prima e per lavorare dopo.
    Era consapevole di rimanere un po’ isolato dal resto del mondo e se Thomas non fosse andato a trovarlo come era solito fare, avrebbe rischiato di passare il resto della sua vita in completa solitudine e senza vedere anima viva.
    Quelle passeggiate gli tempravano il corpo e l’anima. Il mese di ottobre, appena iniziato, aveva già donato alla natura i suoi magnifici colori tipici della stagione autunnale. A volte passeggiavano in assoluto silenzio, nelle orecchie solo i loro passi sul tappeto di foglie che si era formato lungo i viali e il verso degli uccellini che cinguettavano tenaci da un ramo all’altro delle alte querce e betulle che popolavano il parco. Presto anche loro se ne sarebbero andati, avrebbero emigrato verso paesi caldi e già capitava che il blu del cielo venisse macchiato di innumerevoli punti neri che si inseguivano per darsi appuntamento tutti nella medesima meta. A Gustave piaceva osservarli e una volta seduti sulla panchina vicino allo stagno delle anatre, spesso rimaneva a testa in su ad aspettare il passaggio dello stormo del giorno.
    Anche quel pomeriggio fu distratto dalla contemplazione del cielo che lo rilassava e lo rasserenava allo stesso tempo, e rendeva il resto della giornata, quando rimaneva da solo, più sopportabile. Sarebbe rimasto per ore seduto al parco, il corpo saldamente appoggiato alla panchina, il capo dolcemente appoggiato all’indietro a godersi il tepore dei deboli raggi di un sole non più estivo.
    Da solo non sarebbe stato in grado di raggiungere il parco, doveva essere accompagnato da Thomas e l’attesa di quelle passeggiate rendeva ancora più preziosi i momenti sereni che ne conseguivano.
    Quando si destò, vide passare poco lontano Mariele, una cara e vecchia amica di sua moglie. Erano mesi che non la vedeva e in un attimo riaffiorarono nella sua mente tanti dolci ricordi. Anche Mariele aveva vissuto un lutto, il marito era morto qualche anno fa, ma una volta, quando erano più giovani, le due coppie trascorrevano molto tempo insieme.
    Quando arrivarono a casa Thomas aiutò il nonno a preparare qualcosa da mangiare.
    I due mangiarono in silenzio, scambiandosi qualche battuta e qualche riferimento alla giornata appena trascorsa.
    Nonno Gustave fu particolarmente silenzioso, forse si era stancato o forse voleva assaporare nella propria intimità, i ricordi che erano prepotentemente riaffiorati quel giorno da quell’incontro.
    Thomas non insistette nel voler intavolare una delle sue solite chiacchierate con il nonno e quella sera fu laconico. Sapeva che nonno Gustave era felice e lui era compiaciuto per aver avuto una piccola parte, o forse per essere stato il motore di quei granelli di felicità.
    Poi Gustave decise di andare a riposarsi sul letto, dove sarebbe stato più comodo. Chiese a Thomas di continuare a leggergli il libro che avevano iniziato qualche giorno prima. Il libro era probabilmente una lettura per i più piccoli, ed era la storia fantastica di un leone. Forte e coraggioso proteggeva gli animali della foresta dai cacciatori, fino a quando un giorno fu catturato e passò il resto dei suoi anni chiuso nella gabbia di uno zoo. Era diventato l’attrazione principale e per questo era diventato famoso in tutto il paese. Durante la prigionia ripensava alla sua precedente vita come re della foresta e a tutti i momenti che aveva trascorso con la sua famiglia, ma che ai tempi dava per scontato. La storia insegnava a fare tesoro di tutte le cose belle e semplici che ci capitano ed esserne grati.
    Gustave amava la lettura, ma il calo della vista non gli permetteva più di farlo in autonomia. Doveva essere qualcun altro a leggere per lui e Thomas si prestava volentieri come volontario. Poi Thomas smise di leggere quando nel silenzio della notte si accorse che il nonno russava. Il ragazzo rimase un po’ assorto nei suoi pensieri.
    In cima alla strada, nella capanna, il vecchio si era addormentato. Dormiva ancora bocconi e il ragazzo gli sedeva accanto e lo guardava. Il vecchio sognava i leoni.
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